Capitolo V La peste in Sicilia del
5.2. Primi successi in Val di Mazara Estensione del morbo nel Val di Noto
Intanto nella primavera 1576 la situazione iniziò a mutare. Il morbo perdeva intensità nel Val di Mazara specie nelle cittadine contagiate per prime, mentre inaspettatamente continuava ad avanzare nel Val Demone e persino nel Val di Noto.
Il capitano Villafrades esprimeva soddisfazione per la fine dell’infezione a Mezzojuso e Gibellina, dove non si registravano infezioni già da diversi giorni625, mentre da Girgenti arrivava notizia che il numero degli infetti era così diminuito che si pensava di ridimensionare l’ospedale626. D’altro canto però Trapani, Marsala e Naro, tra i pochissimi centri ad ovest del Salso ad essere rimasti indenni, avevano
623 V. Petrarca, Di Santa Rosalia vergine palermitana in G. Fiume, Il Santo moro: i processi di
canonizzazione di Benedetto da Palermo. Milano, Franco Angeli editore, 2002, p. 145.
624L. Scalisi, Ai piedi dell’altare, cit ; ID., La controriforma in Storia della Sicilia. Dalle origini al
seicento, a cura di G. Giarrizzo – F. Benigno, Roma-Bari, Laterza, 2003.
625 ASP, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi ,vol. 635 cc. 248-249. 626 Ivi, c. 309.
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contratto il morbo627. Ancora grave era poi la situazione di Palermo e notizie di contagio arrivarono anche dal calatino, dall’area etnea, da Taormina, dai Peloritani e dai paesi limitrofi a Milazzo, dove ben tre guardie s’infettarono mentre provavano a purgare delle “robbe” sospette, morendo in pochi giorni628. A Catania, sebbene la diffusione dell’epidemia non fosse altrettanto allarmante, le autorità locali erano ugualmente assai impreparate e Carlo sentì l’esigenza di inviare loro una copia del “banno” simile a quello redatto per Palermo e Messina, con gli ulteriori aggiornamenti maturati nel corso degli ultimi mesi.
627 ASP, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi, vol. 642 c. 29. 628 ASP, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi , vol. 635 c. 348.
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Massima espansione del contagio nel luglio 1576 (in nero i centri contagiati tra il gennaio e il luglio 1576)629.
629 I centri interessati dal morbo sono stati anche altri; di certo anche Mistretta, Castrogiovanni, Iaci,
Lentini e San Mauro tuttavia detti centri non risultano indicati nelle carte in questione in quanto non è stato possibile rilevare un arco temporale esatto nel quale individuare i primi casi di contagio.
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29 TRAPANI 35 MUSSOMELI 41 CATANIA
30 MARSALA 36 FAVARA 42 MOIO
31 CALATAFIMI 37 NARO 43 TAORMINA
32 SAMBUCA 38 POLIZZI 44 CASTROREALE
33 CAMMARATA 39 VIZZINI 45 SANTA LUCIA
34 SUTERA 40 SIRACUSA
Ma nell’estate 1576, la peste comparve a Siracusa; qui l’infezione preoccupò molto, non tanto per la sua virulenza quanto per la situazione della città, impegnata già da mesi in opere di fortificazione e di preparazione visto l’approssimarsi dell’estate. Siracusa, in termini militari, non era, infatti, una città come le altre: con le sue sei compagnie di fanteria spagnola più una milizia di 4000 fanti630, era insieme a Messina la città che disponeva di maggiori truppe e quella per la quale, all’occasione, bisognava combattere strenuamente. E’ quindi comprensibile come la comparsa dell’epidemia ebbe a mutare radicalmente l’assetto militare della città, con le compagnie spagnole e la milizia spostati in alloggiamenti più sicuri e/o nelle cittadine limitrofe, con ulteriori provvigioni per gli ammalati e con nuovi piani sul come fare entrare truppe in città in caso d’invasione.
D’altronde, lo spostamento di truppe fuori dai centri infetti era già avvenuto quasi un anno addietro: ai primi avvisi di contagio, due delle compagnie spagnole di stanza a Palermo erano state, infatti, spostate in alloggiamenti di fortuna nella piana della Conca d’Oro, in località Molara631; le truppe di stanza a Trapani erano state spostate su Monte San Giuliano dove l’epidemia durò pochissimo; le truppe di Sciacca, spostate a 6 miglia dalla città in località San Calogero. Eppure, nella primavera-estate 1576 la situazione appariva diversa e più grave. Preoccupava l’estensione della peste nella Sicilia orientale, con l’estate alle porte e l’armata turca sempre in agguato.
630 ASP, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi, vol. 635 c. 324. 631 Ivi, c. 96.
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L’altra città cardine della difesa siciliana, Messina, costituiva invece un caso enigmatico. Dal giugno 1575 alla primavera 1576, le notizie sul morbo nella città peloritana furono, infatti, abbastanza rassicuranti e, comunque, mai gravi come altrove. La percezione generale era che Messina fosse una città certamente infetta ma sotto controllo; e tante e tali furono le rassicurazioni che Carlo ricevette dagli ufficiali e dai vertici messinesi che acconsentì persino a una “mostra” d’armi (una parata e allo stesso tempo una manovra militare) lasciando allo “Straticò” la facoltà di deciderne l’opportunità anche se, a scopo precauzionale, le compagnie spagnole, di stanza in città, furono fatte spostare nei centri limitrofi, a disposizione dello “Straticò” in caso di bisogno.
Con l’approssimarsi dell’estate 1576, tuttavia, nel giro di poche settimane la situazione messinese sembrò cambiare rapidamente. Un nobiluomo siciliano, il marchese di Santa Croce, si ritrovò a passare con una sua imbarcazione nella città ed ebbe così modo di notare ciò che accadeva nell’ospedale del luogo, dove erano ricoverati gli infetti e la sua descrizione colpì non poco il Terranova. Il marchese riferì, infatti, di aver visto infermi ricoverati all’ospedale “San Rayneri” morire letteralmente di fame e di stenti, senza assistenza e senza cure, al punto che mosso da compassione, aveva soccorso gli infermi con tutto il biscotto imbarcato di cui disponeva. Sicché, per quanto qualche giorno prima lo “Straticò” avesse inviato una missiva al Presidente del Regno per avvisarlo del peggioramento generale, Carlo, che disponeva di altri canali di informazioni, prestò poca fede al governatore. Aveva, infatti, saputo che il figlio del barone della Scaletta e il giurato Onofrio de Patti avevano illecitamente fatto entrare una donna infetta in città, inviandola poi al lazzaretto da dove, peraltro, tanti venivano dimessi senza che si sapesse con certezza se fossero ancora malati o convalescenti.
Il 27 luglio 1576 Carlo scrisse una missiva sdegnata allo “Straticò”, accusando del disastro il governo cittadino e gli ufficiali messinesi ai quali promise castighi a partire dalla carcerazione del figlio del barone Scaletta e del giurato De Patti; e disponendo categoricamente le provvigioni per i malati dell’ospedale632.
Ma se nel luglio 1576 le cose andavano male a Messina, la situazione volgeva finalmente al meglio a Palermo e nella maggior parte dei centri del Val di Mazara. Nella capitale, già da fine giugno non si registrarono nuovi contagi e così se il 5 luglio in cattedrale si celebrarono le “esequie solenni per i defunti della peste”, e il 12 luglio gli ultimi ricoverati nel lazzaretto della Cuba vennero dichiarati convalescenti e
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spostati in altro luogo, il 22 luglio si celebrò una messa solenne alla presenza dell’inquisitore del regno, il vescovo di Patti633.
Va rilevato come la presenza dell’inquisitore nel rito che celebrava la fine della sciagura, assuma una valenza tutt’altro che casuale: la benedizione del ministro deputato alla correzione dell’ortodossia del fedele, indicava oltre alla fine del flagello, l’avvenuta riappacificazione tra il popolo e Dio. Come ringraziamento per il cessato pericolo la città volle quindi edificare la chiesa di San Rocco nel quartiere del Seralcadio, il quartiere più colpito dal contagio, dove il 31 luglio Carlo d’Aragona posò la prima pietra634.
Nell’estate-autunno 1576 nonostante si registrassero miglioramenti generalizzati in diversi centri in tanti altri la situazione era ancora preoccupante. Notizie poco rassicuranti arrivavano ancora da Cammarata635, da Racalmuto636, da S.Mauro637, da Polizzi638, da Castrogiovanni639 e dai casali di Iaci640. A Naro benché si registrassero successi nella lotta alla pestilenza la città era ancora considerata a rischio641 mentre a Palermo, nonostante l’assenza di nuovi contagi, il lazzaretto di Bayda si teneva ancora operativo per i viandanti sospetti provenienti da altri centri642. Sul finire del 1576 la persistenza del morbo nell’isola era a macchia di leopardo; i principali centri, Palermo e Catania643 in primis (ad esclusione di Messina dove il morbo era ancora insistente644), erano oramai considerati sani. Parecchie altre
universitas erano anch’esse libere mentre svariate decine in tutta la Sicilia erano
ancora infestate. Fu proprio a seguito di questi successi che il Terranova, ritenendo il peggio oramai alle spalle, prese una decisione che in breve si rivelò gravissima: sollevare dall’incarico i sei capitani, due per ogni valle, che fino a quel momento avevano supervisionato sul campo l’intera emergenza645.
633 Paruta-Palmerino, Diari della città di Palermo, cit., p.75. 634 Ibidem, pp. 75-76.
635 ASP, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere e dispacci viceregi, vol. 649 cc.33-34. 636 Ivi, cc.35-36. 637 Ivi, cc.27-28. 638 Ivi, c.24. 639 Ivi, cc.26-27. 640 Ivi, cc.34-35. 641 Ivi, c.22. 642 Ivi, cc.35-36. 643 Ivi, c.25. 644 Ivi, cc.162-163.
645 Dalla fine del 1576 infatti non ritroviamo più una corrispondenza diretta tra il Presidente del
regno e questi capitani. Le loro mansioni “straordinarie”, focalizzate sulla sanità pubblica, vennero declassate a “ordinarie” ed assorbite dal Vicario del Presidente, uno per ogni valle, che fungeva da longa manus della corte palermitana nel territorio.
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Si trattò quindi di una decisione gravida di conseguenze ma probabilmente i vertici del regno non si resero conto di ciò che il morbo stava compiendo negli anfratti più remoti dell’isola646.