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3.1) “IL PROBLEMA DEL DADAISMO DI EVOLA”

Nel documento Dada in Italia. Un'invasione mancata (pagine 112-114)

Delle influenze positive si possono scorgere in politica, nel commercio, nel linguaggio. Tutto il mondo e ciò che vi sta dentro, è scivolato un po’ a sinistra con noi. Dada ha affondato la sua cannula nel pane caldo — per definire l’allegoria: nel linguaggio. Poco a poco (molto a molto) essa lo distrugge. Tutto crolla con la logica. E noi vedremo anche certe libertà che prendiamo ogni giorno nell’ambito del sentimento, della vita sociale e della morale, ridiventare dei metri normali. Queste libertà non saranno più considerate crimini, ma pruriti.299

Ora, sappiamo bene come Evola non sia affatto scivolato a sinistra, ma bensì dalla parte opposta, come questo abbia creato problemi interpretativi circa la sua adesione al dadaismo e come lui stesso, proprio per risolvere l’incredulità di fronte al susseguirsi di posizioni probabilmente inconciliabili, abbia deciso di pubblicare la sua autobiografia, che aveva previsto postuma, in occasione della sua personale alla Galleria La Medusa di Roma, nel 1963 e abbia inserito l’esperienza dadaista in un percorso apparentemente coerente.

Tra gli studiosi che si sono occupati di questa anomalia, vi è un curioso oscillare tra chi, come Richard Sheppard300 e Paolo Fossati,301 considerano la concezione evoliana del dadaismo, un errore di prospettiva e un fraintendimento tale da dubitare persino dell’esistenza di un vero e proprio dadaismo italiano e chi come Sergio Benvenuto302 la considera l’essenza o la posizione più completa e qualificante del dadaismo stesso. È questo “il problema del dadaismo di Evola”303 in un saggio così

299 TRISTAN TZARA, “Autorizzazione”, New York Dada, aprile 1921, trad.it in ARTURO

SCHWARZ (a cura di), op. cit.,p. 358

300 RICHARD SHEPPARD, “Julius Evola, Futurism and Dada: A Case of Double Misunderstanding”,

in AA.VV. New Studies on Dada. Essays and Document edited by R. Sheppard, Hutton, Hutton Press, 1981, pp. 85-94

301

PAOLO FOSSATI, “Un dadaismo italiano?”, in La pittura a programma. De Chirico metafisico, Marsilio Editori, Venezia-Padova, 1973, pp. 71-88

302 SERGIO BENVENUTO, “Dada e la filosofia. Evola e l’essenza del dadaismo”, in Dada, l’arte della

negazione, catalogo della mostra Palazzo delle Esposizioni, Roma, 29 aprile-30 giugno 1994, pp. 145-

152

303 “Resta problema aperto definire, secondo i diversi punti di vista possibili, se la posizione di Evola,

teorica e attiva, nell’ambito del dadaismo sia perfettamente consona ai dettami, per quanto non univoci del ‘movimento’, fino a rappresentarne come è stato recentemente sostenuto, l’’essenza’ o la posizione più completa e qualificante, o piuttosto un fatto ‘episodico’ quando non addirittura contraddittorio,

titolato da Francesco Tedeschi nel catalogo della retrospettiva evoliana, tenutasi a Milano nel 1998.

Al contrario del rifiuto e dell’avversione dei dadaisti per spiegazioni teoriche su origine, natura e senso del dadaismo, non si può negare, né tanto meno trascurare, il fatto che Evola abbia tentato di spiegare in tutti i modi, forse invano, al pubblico italiano, convenuto alla stagione Dada romana, il significato non solo della parola, ma del dadaismo al di là delle sue manifestazioni esteriori, significato che sarebbe per lui di ordine spirituale, filosofico e mistico. Che della sua concezione abbia parlato con Tzara, credendo, almeno all’inizio, di trovare in lui una perfetta affinità spirituale. Che quindi, i testi dei tre discorsi pronunciati da Evola durante la stagione Dada e le lettere a Tzara siano molto probabilmente le fonti di informazioni utili a chiarire i motivi e i modi della sua partecipazione al dadaismo.

Io stesso, quando, per via filosofica sono giunto alle conclusioni Dada, stavo in piena guerra d’alta montagna, ed ignoravo del tutto l’esistenza dei primi gruppi che, con Tzara e Baader, si andavano formando a Zurigo e Berlino. Io, in seguito, rimasi stupito dalla rispondenza delle mie idee colle loro. E questo prova l’essere Dada qualcosa che è nell’atmosfera d’oggi, una tendenza in potenza dell’epoca attuale, che, prima o dopo, dovrà risolversi, così come la nube gravida si risolve in tempesta.304

Vista in quest’ottica, l’adesione di Evola a Dada appare plausibile e coerente. Nulla da eccepire sulla possibilità di condurre un’esistenza dadaista intima, interiore e solitaria, da una posizione decentrata rispetto ai centri più attivi, ma da una lontananza ammessa dalla natura stessa della costellazione Dada, polimorfa e policentrica.

Ma come arriva Evola “per via filosofica alle conclusioni Dada”?

frutto di un’incomprensione di fondo o di un’interpretazione personale.” FRANCESCO TEDESCHI, “Il problema del dadaismo di Evola”, in cat. Evola tra Futurismo, Dada, Alchimia, Milano, 1998, p. 34

304 V. infra, app., testo n. 5, JULIUS EVOLA, “Dadà!”, in Evola tra Futurismo, Dada, Alchimia,

Quando come ufficiale di artiglieria viene assegnato a posizioni di prima linea sulle montagne vicino Asiago, è il 1917 ed Evola ha solo diciannove anni. Prima di parlare della sua adesione al dadaismo, vorrei dare qualche informazione sulla sua vita prima di questo momento, sulla sua formazione intellettuale, sulle sue letture e sulla sua frequentazione dell’ambiente artistico romano. La quasi totalità delle seguenti informazioni – che si riferiscono ad un periodo limitato, dal 1915, inizio della sua attività artistica al 7 ottobre 1919, data della prima lettera a Tristan Tzara - è tratta dalla sua autobiografia Il cammino del cinabro o da testimonianze di chi lo ha conosciuto.

3.1.1) EVOLA PRIMA DI DADA

Iscritto alla Facoltà di Ingegneria di Roma, ma aspirante pittore e desideroso d’avanguardia “dato che in Italia come movimento artistico d’avanguardia praticamente esisteva quasi soltanto il futurismo”305 ad esso si avvicina divenendo in particolare amico di Balla. Il suo studio era divenuto, intorno alla metà degli anni dieci, luogo di incontro e di apprendistato per i giovani artisti romani. Per Evola non si tratta però solo di pittura e frequentando Balla e i suoi allievi ha anche modo di alimentare la sua curiosità per le discipline di natura esoterica, interesse comune nei circoli intellettuali di inizio secolo e molto diffuso in ambito artistico sia europeo306 – basti pensare a Kandinsky, Mondrian e, per noi di maggiore interesse Duchamp307 –

305

JULIUS EVOLA, Il cammino del cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1963, p. 17

306 Su questo argomento, sulla leggibilità di temi e forme ricorrenti nell’arte astratta attraverso

riferimenti alla tradizione ermetica, esoterica, alla teosofia e alchimia cfr. JOLANDA NIGRO COVRE,

Astrattismo. Temi e forme dell’astrazione nelle avanguardie europee, Motta, Milano, 2002

307 Nel ricostruire origine ed evoluzione dell’interesse di Duchamp per la tradizione ermetica, Calvesi

descrive quanto questi interessi fossero condivisi negli ambienti intellettuali parigini di fine ‘800 e inizio ‘900. Dai Rosacroce, ad Anatole France e l’alchimista del suo romanzo La Rosticceria della

regina Piè d’oca, dove si incontrano alchimia e ironia, in un curioso antecedente dell’opera di

Duchamp, da Jacques Villon (fratello di Duchamp) e la Section d’Or a Apollinaire, Savinio, De Chirico, Raymond Roussel e Breton. I primi contatti tra Duchamp e i testi della tradizione ermetica sarebbero avvenuti durante la sua esperienza impiegatizia alla Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi, tra il 1912 e il 1913 e sarebbero divenuti col tempo sempre più stretti, tant’è che non si può parlare, secondo Calvesi, di riferimenti alchemici ‘inconsci’ come una parte della critica, tra cui Schwarz, ha fatto, interpretando in chiave psicanalitica le analogie tra immaginario alchemico e inconscio collettivo. Riferimenti consapevoli, ma nascosti, come richiesto dalla tradizione ermetica ed esoterica, e dissimulati da Duchamp attraverso l’ironia, il non-senso apparente, il gioco di parole. I baffetti alla Gioconda, non sarebbero solo un gesto irriverente, nei confronti di un genio riconosciuto, ma piuttosto una complice allusione alla androgina della figura, tema chiave dell’alchimia, in uno dei quadri non a caso pià amati dai pittori rosacriciani. Cfr. MAURIZIO CALVESI, Duchamp, Art e Dossier n. 78, Giunti, Firenze, 1993 e dello stesso autore Arte e alchimia, Art e Dossier n. 4, Giunti, Firenze, 1986.

Nel documento Dada in Italia. Un'invasione mancata (pagine 112-114)