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Un quadro generale

IL DECENTRAMENTO FISCALE IN ITALIA

1. Dalle prime leggi federali alla riforma del titolo quinto della Costituzione

1.1. Un quadro generale

Nel nostro Paese il decentramento, anche fiscale, ha una storia ben precedente alla riforma del 2001 o all’emergere del dibattito sul federalismo. Già subito dopo l’unificazione del Paese ci furono numerose iniziative per modificare compiti e finanziamenti dei due livelli di governo allora esistenti (Comuni e Province) e nel 1931 venne varato il Testo unico della finanza locale (R.D. 14 settembre 1931, n. 1175) che attribuiva loro la titolarità dei più importanti tributi di quel tempo (imposta di famiglia, imposte di consumo, sovrimposte fondiarie e sui redditi d’impresa). In questo assetto non si prevedevano finanziamenti o trasferimenti da parte dello Stato, né esistevano fondi perequativi di tipo solidaristico, ma «tutti gli enti locali erano tenuti ad autofinanziarsi, utilizzando in modo diverso gli spazi di autonomia nella determinazione delle aliquote sulla varietà degli strumenti a loro disposizione50». Questa situazione di concreta autonomia

ebbe fine con la riforma tributaria del 197151

, che prevedeva un completo accentramento delle entrate e la soppressione dell’autonomia finanziaria concessa agli enti locali.

Nel 1970 cominciarono a funzionare le leggi di finanza52

per le Regioni, già previste nella Costituzione del 1948. Le Regioni così create erano però enti con una capacità di azione molto limitata, dato che la quasi totalità del loro finanziamento dipendeva da un sistema di trasferimenti da parte dello Stato,                                                                                                                          

50 Giarda P. (2009), La favola del federalismo fiscale, ASSBB, Milano

51 Il riferimento è alla L. 9 ottobre 1971, n. 825, Delega legislativa al Governo della

Repubblica per la riforma tributaria e i relativi 29 decreti delegati, entrati in vigore il 1

gennaio 1973 e in parte 12 mesi più tardi.

52 L. 16 maggio 1970, n. 281, Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a

per di più legato alle decisioni di anno in anno assunte sul finanziamento dei fondi settoriali di trasferimento. Un altro punto che merita rilievo è che da quel momento in poi la spesa delle Regioni e degli enti locali venne sempre finanziata ex post e a piè di lista. Si tratta del criterio della spesa storica, che genera un soft budget constraint (vincolo di bilancio morbido) per gli enti territoriali e produce un vantaggio per gli enti inefficienti, poiché quelli che spendono di più ottengono di più dal Governo nazionale.

Agli inizi degli anni ’90, le condizioni ormai molto precarie della finanza pubblica, cui avevano contribuito anche i meccanismi sopra delineati, convinsero il Governo centrale a un mutamento di rotta: si fece avanti l’idea che l’introduzione di maggiore autonomia tributaria per gli enti territoriali avrebbe potuto mitigare il problema del soft budget constraint e portare più efficienza nel sistema, oltre che rendere i governi locali corresponsabili del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica determinati in sede europea (i cosiddetti «parametri di Maastricht»). Il momento legislativo più importante in questa nuova direzione fu segnato dall’introduzione dell’ICI (Imposta comunale sugli immobili) nel 1993; contestualmente si modificò anche il sistema elettorale dei Comuni allo scopo di rafforzare il ruolo del sindaco a fronte di questa maggiore autonomia finanziaria. Anche per le Regioni si cominciò ad ampliare lo spettro delle entrate proprie (ad esempio venne introdotta l’imposta di bollo sulla circolazione auto, la sovrattassa di iscrizione nei pubblici registri, l’addizionale regionale sul gas metano) e si abolirono i meccanismi di finanziamento attraverso i trasferimenti vincolati. Il processo raggiunse il suo culmine con la XIII legislatura (1996-2001), che vide l’introduzione dell’IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive) nel 1997, le leggi Bassanini di riforma e semplificazione dell’amministrazione pub- blica nel 1997-1998 — che introdussero il cosiddetto «federalismo amministrativo» — e il decreto legislativo n. 56/2000, che intendeva modificare radicalmente il meccanismo di finanziamento delle Regioni, legandolo a una compartecipazione all’IVA. Per le Regioni, nel 1999, si introdusse l’elezione diretta dei presidenti intrecciando fin da subito il processo di decentramento fiscale con quello di revisione costituzionale, mentre già nel 1997 si era avviato un processo di

revisione organica della Parte II della Costituzione tramite l’istituzione di un’apposita Commissione bicamerale.

Pertanto, il modello di relazioni tra ordinamenti fiscali delineato nella versione originaria della Costituzione era costruito secondo una logica piramidale e di subordinazione di fatto della legge regionale alla legge statale. competenza legislativa regionale, disponendo peraltro che per le materie non espressamente indicate la competenza in via generale e residuale era dello Stato.

Ciò determinava una sostanziale subordinazione della legge regionale a quella statale, pur non individuabile nei termini di rapporto gerarchico (stante l’equiparazione delle due fonti normative), ma quale conseguenza della limitazione delle aree di competenza normativa. prevedeva che le Regioni disponessero di autonomia finanziaria, esercitabile attraverso strumenti tributari propri in aggiunta ai trasferimenti erariali e alla compartecipazione ai tributi dello Stato.

Anche se non accolto in modo unanime dalla dottrina, si andò delineando il convincimento che in sostanza la configurazione del sistema tributario della Regione fosse di competenza del legislatore ordinario attraverso la legge statale di coordinamento. La legge regionale si presentava pertanto come una fonte sub-primaria, idonea a disciplinare i tributi regionali nei limiti fissati dalla legge statale. Si trattava, dunque, di una competenza essenzialmente integrativa in quanto funzionale a dare attuazione ai principi espressi dalla legge statale.

Quanto, poi, ai Comuni e alle Province, l’art. 128 Cost. stabiliva che tali enti potessero esercitare una forma di autonomia finanziaria nel limite delle competenze attribuite loro dallo Stato. L’opinione generale era quindi nel senso che tale norma escludesse una vera e propria autonomia tributaria, limitando la finanza locale ai trasferimenti erariali e alle risorse extratributarie. A tali enti territoriali spettava dunque una ridotta potestà regolamentare in ordine alla disciplina dei tributi locali il cui esercizio presupponeva comunque la previa individuazione delle competenze e dei relativi limiti da parte del legislatore statale.

La prevalenza della potestà normativa statale rispetto a quella degli enti territoriali è venuta meno ad opera della L. cost. n. 3 del 2001 che ha riformato significativamente la parte della Costituzione dedicata ai rapporti tra centro e periferia. Le modifiche nel loro complesso ridisegnano il quadro costituzionale delle autonomie locali, attribuendo a queste ultime poteri e prerogative la cui dipendenza e il cui possibile condizionamento da parte dello Stato risultano fortemente ridimensionati.