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Quali sono le maggiori difficoltà nell’aiutare il minore e la sua famiglia di origine ad avvicinarsi? Quali invece le potenzialità nel lavoro svolto?

Intervista a Mirko Lanfranconi responsabile pedagogico del Vanon

3) Quali sono le maggiori difficoltà nell’aiutare il minore e la sua famiglia di origine ad avvicinarsi? Quali invece le potenzialità nel lavoro svolto?

“Le difficoltà maggiori, infondo non ci sono grandissime difficoltà. Le difficoltà sono sempre dettate da aspetti burocratici. Quindi questa è la difficoltà maggiore, aspettare i tempi giusti anche che l’Autorità possa valutare che è arrivato il momento. Sta anche a noi convincerli, a volte rischiando che sia giunto il momento che genitori e figli abbiano degli spazi diversi. Questa la vedo come difficoltà. Un’altra difficoltà è quando tu pensi che sia giunto il momento o che la famiglia sia pronta a porsi in modo diverso anche nei confronti dei figli, ti accorgi che questi momenti diventano invece momenti di maggior sofferenza per i giovani, perché la famiglia non è in grado di avere un atteggiamento diverso che di consapevolezza di fronte alle loro difficoltà, quindi passano dei messaggi che magari mettono in difficoltà gli operatori o la struttura stessa che si deve occupare del bambino perché arrivano dei messaggi trasversali allora la difficoltà è quando devi tornare indietro da una situazione che magari sembrava pronta a partire. Allora lì diventa tutto più difficile iniziare nuovamente. Ci sono degli esempi chiari, che però non è che posso fare, perché dovrei fare dei nomi dei ragazzi, che però in una situazione particolare si è detto okay, sei pronto per allargare i diritti di visita, poi sono successe delle situazioni particolari per cui l’Autorità è dovuta intervenire e adesso diventa più difficile rimettere della fiducia su alcune persone, alcuni genitori. Lì purtroppo è un rischio che bisogna correre. Se tu ti viaggi sempre con il paraocchi per non andare incontro a delle problematiche allora non cambi la situazione e permane comunque o non è mai giunto il momento per affrontare un discorso diverso con la famiglia. Se a volte rischi ti devi assumere il rischio fino infondo e nel rischio se otto volte magari va bene, due invece devi tornare sulla posizione ed è sempre più doloroso soprattutto per i bambini. E qui si parla di bambini più piccoli. Con gli adolescenti forse ci sono delle risorse maggiori. Anche loro sono più in grado di dire se lo vogliono o no. Che poi noi continuiamo a dire che cosa facciamo noi per avvicinare i giovani nella famiglia. Però ci sono delle situazioni, e non sono così rare, dove il giovane dice che il genitore non lo vuole più vedere. Quindi malgrado tu hai un’apertura.. poi bisogna capire perché non voglio. Però sono quelle situazioni che delle volte sono difficili da ricostruire delle relazioni e i ragazzi rimangono qui fino ai 18, 19, 20 anni perché non si è riusciti in quegli anni a creare una situazione affinché i giovani potessero rientrare al domicilio.

Per tornare alle potenzialità in alcune situazioni comunque si è riusciti a fare un buon lavoro con la famiglia si è riusciti a reintegrare i giovani nella famiglia. Ci sono parecchi anni di lavoro da fare perché comunque non è così evidente perché quando i genitori si lasciano aiutare allora diventa lungo il percorso ma più facile perché comunque ti permettono di entrare in una relazione. Quando i genitori sono più chiusi non vogliono mettersi in discussione, hanno bisogno di trovare un colpevole che è sicuramente all’esterno e non all’interno della famiglia, allora lì diventa più difficile dialogare, anche perché per i bambini diventa sempre più difficile permanere nella struttura, non si sentono autorizzati. Quindi è un discorso molto, molto delicato. Non c’è una ricetta ogni situazione deve essere valutata per quello che è, con le potenzialità reali. Poi lavorare sulle potenzialità, perché la potenzialità in fondo è la famiglia. Se tu hai una famiglia disposta a mettersi in gioco, e tu sei disposto a metterti in gioco a riavvicinandoti alla famiglia, questa è la potenzialità per un reinserimento. Se da una parte o dall’altra parte manca la volontà i tempi si allungano. Comunque secondo

me questo discorso dovrebbe essere allargato, un pensiero non solo del CEM ma proprio più esterno al CEM.”

Tu hai detto da una parte o dall’altra parte. Ma dall’altra parte si intende un po’ tutto, perché poi il minore, è vero che ha una famiglia, ma la famiglia deve poi essere agganciata. Ci sono anche altri servizi che lavorano.

“La famiglia deve essere agganciata, ma la cosa che io sento spesso «eh ma non si è

presentata», «eh, doveva andare ma non è andata all’appuntamento e l’ha mancato». Cioè non pensiamo che togliendo il figlio la famiglia sia guarita. La famiglia è ancora più in difficoltà di prima perché sicuramente c’è ancora sofferenza. Probabilmente è utopico pensare che la famiglia, poi si parla di singoli, o il papà o la mamma, nella maggior parte solo la mamma perché sono famiglie monoparentali e c’è solo la mamma, sia in grado da sola di fare un percorso. Io in alcuni situazioni mi sono sentito dire «c’è un collocamento perché la mamma deve riappropriasi di un ruolo genitoriale». Fammi capire, ma cosa vuol dire? Okay, non sei in grado di gestirla, ci sono delle situazioni che influenzano la relazione tra madre e figlio, va bene. Allora noi aiutiamo la famiglia, accogliamo, se si può parlare di aiuto, accogliamo il figlio nel CEM, ma poi chi aiuta la famiglia a riappropriarsi del proprio ruolo? Non è che ci si riappropria di un ruolo proprio così. Bisogna fare un percorso, probabilmente in questo percorso la famiglia deve essere accompagnata. Secondo me è un po’ questa la lacuna che c’è. Non c’è un accompagnamento oggettivo reale una volta che il figlio è messo in protezione, lo devi proteggere da un genitore perché poi ci sono degli elementi tante volte per essere protetto perché ci sono delle violenze, ci sono dei maltrattamenti, ci sono delle cose chiare però devi aiutare il genitore ad essere consapevole degli errori che ha fatto e quindi il percorso di aiuto a livello psicologico. Ma da solo non ce la fa, perché da solo non riesce a capire il problema. Questo è lacunoso. Non è che con le mie parole do la colpa a qualcuno però probabilmente manca un discorso più coerente da parte di tutti. Se da un canto noi abbiamo dei servizi come il SAE che lavora in casa, che lavora con la famiglia e il giovane e questo evita un collocamento. Nel momento di un collocamento, sto parlando di una situazione grave, forse bisognerebbe che sia predisposto in modo più organizzato un’accoglienza, un accompagnamento alla famiglia. Perché noi oggettivamente siamo tenuti ad occuparci del giovane, non della famiglia. Della famiglia noi ce ne occupiamo perché noi crediamo che sia un punto di forza, l’unico forse punto di forza per il giovane, il pensiero di un rientro in famiglia. Però forse manca quello step.”

Sì, anche perché in teoria il CEM dovrebbe essere un luogo neutrale.

“Tante volte è proprio quello, noi dobbiamo fungere, soprattutto quando magari ci sono delle famiglie di appoggio, o famiglie di affido sempre di più arrivano dalle famiglie di affido Allora li chi metti al centro? Una famiglia di affido che non vuole più occuparsi di un bambino, lo affida al CEM con una famiglia naturale comunque devastata. Che cos’hanno questi bambini? Quando c’è una prospettiva e ti senti dire «e ormai questo bambino sarà al CEM fino ai 18 anni», perché non ci sono risorse, non ci sono oggettivamente delle risorse. Perché tu non puoi tenere in considerazione la famiglia di affido, cosa ne metti un’altra? Dove la famiglia è out, perché magari non solo ci sono dei maltrattamenti ma anche dei problemi psichiatrici dei familiari che oggettivamente non possono occuparsi dei bambini. Quindi bisogna creare anche uno spazio all’interno del CEM che sia uno spazio che accolga la sofferenza ma che dia anche affettività, che compensi un po’ quella parte genitoriale che comunque è venuta meno. E ci sono anche questi problemi, che non sono così rari. Si può

pensare alla famiglia, ma se la famiglia non c’è, perché non c’è oggettivamente, devi trovare delle risorse diverse.”

4) Facendo capo alle sue esperienze, sia da educatore che da responsabile

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