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La questione giovanile

Nel documento LA CITTÀ LABORATORIODI CITTADINANZA (pagine 71-75)

3. Partecipazione e politiche giovanili: il riflesso di una cultura adultocentrica

3.1. La questione giovanile

Il dibattito sul ruolo che le giovani generazioni sono chiamate a rivestire nella società post-moderna in qualità di cittadini attraversa diverse discipline, nel tentativo di restituire una fotografia quanto più chiara ed esaustiva possibile di una generazione.

Attraverso l’analisi dei principali contributi teorici ed empirici sul tema dello stile di vita giovanile prodotti negli ultimi cin-quant’anni, si constata che spesso le principali caratteristiche asso-ciate alla condizione giovanile rimandano a stati connotati perlopiù da tinte negative. L’immagine di giovane che ne emerge è proble-matica, intrappolata in una zona grigia dai tratti foschi e potenzial-mente catastrofici. Lo stereotipo dell’adolescente difficile, cristal-lizzato nelle rappresentazioni sociali diffuse, viene enfatizzato dall’immaginario “crisiologico” predominante nelle scienze psico-logiche e sociopsico-logiche, per le quali assume un rilievo preponderante la dimensione della crisi adolescenziale (Barone, 2009). L’età dell’adolescenza, in particolare, emerge come una fase in cui si concentrano i valori negativi e viene tratteggiata come una vera e propria età differenziale: «è come se, per poter dire l’adolescenza, fosse necessario ricorrere alla descrizione di ciò che non è o non

3.1.1. Essere giovani: un apprendistato senza fine

Per quel che concerne la gioventù, e l’adolescenza in particolare, nell’immaginario collettivo persiste il riconoscimento della condi-zione di apprendistato di un ruolo sociale. Eppure nella quotidianità, a causa delle condizioni storico-politiche e sociali che caratterizzano il contesto odierno, ciò risponde sempre meno al vero: la flessibilità del lavoro si è fatta precarietà esistenziale e ha provocato la fram-mentazione e la parcellizzazione delle identità individuali e colletti-ve. I giovani faticano a identificarsi in un “noi” che travalichi i con-fini del gruppo di riferimento; allo stesso tempo gli adulti faticano a riconoscere alle giovani generazioni il desiderio dell’essere comuni-tà, la credenza forte e quasi incondizionata negli ideali collettivi che in passato muovevano le piazze. È facile, allora, decretare la fine del-la partecipazione, dei movimenti giovanili, il fallimento delle ideolo-gie e dei valori comunitari. Da parte degli adulti vi è una difficoltà, ormai conclamata, a riconoscere e accogliere le attuali prassi parteci-pative giovanili, poiché queste non rientrano più nelle classificazioni conosciute e accettate, seppur ormai desuete. Potrebbe, questa inca-pacità, dipendere da una vera e propria impossibilità antropologica di abitare la flessibilità ed esserne al contempo abitati? Condizione, quella appena descritta, che caratterizza le nuove generazioni, perva-dendone letteralmente le costruzioni identitarie.

Benasayag (201511) definisce “atmosfera esistenziale” la crisi che fa da sfondo alla costruzione e allo svolgimento dei legami personali, famigliari e sociali: tale sconvolgimento è frutto del fallimento di quel messianesimo scientifico che aveva fatto del futuro una promes-sa racchiupromes-sa nel progresso scientifico. Quest’ultimo, seppur molto possa ancora fare, certamente non può eliminare le sofferenze uma-ne: questa presa di coscienza ha determinato quel che il filosofo e psicoanalista definisce “cambiamento di segno del futuro”, passando «[…] da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro» (Benasayag e Schmit, 201511, p. 18).

Negli anni Sessanta e Sessanta i giovani sono stati promotori di cambiamento, attori del conflitto sociale: in particolare gli studenti, nei movimenti del Sessantotto prima e del Settantasette poi furono tra i principali protagonisti della “rottura” delle norme sociali e dei valori dominanti.

Negli anni Ottanta, reduci dall’illusione della rivoluzione e dalle contraddizioni della rivolta, le giovani generazioni hanno preso la strada del riflusso, prediligendo il privato e il disimpegno: in questa fase ha cominciato a emergere, nelle analisi degli studiosi in primis, l’idea di una condizione generazionale connotata dall’incertezza e dalla problematicità, in cui la dimensione del disagio sarebbe parsa preponderante (Calabrò, 1986; Faggiano, 2003).

Nel decennio tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila si è assistito, invece, a un marcato cambiamento strutturale, che ha causato un enorme ritardo dell’ingresso dei giovani nel mon-do adulto rispetto al passato. A tal proposito, è esemplificativo con-siderare il range di età nelle rilevazioni Iard: se fino agli anni Ottanta venivano considerai giovani coloro tra i 15 e i 24 anni, negli anni Novanta il limite massimo è stato spostato prima a 29 e poi a 34 anni, al fine di poter fare riferimento all’ultima tappa della transizione all’adultità, cioè la nascita di un figlio.

Negli anni Novanta hanno cominciato a proliferare definizioni che risentivano immancabilmente della difficoltà a classificare entro con-fini e categorie già note i caratteri costitutivi di quella precisa genera-zione. Pur permanendo la vocazione al privato, aveva cominciato a espandersi la vocazione associativa, purché esercitata in piccoli grup-pi. Hanno iniziato a fare ricorso meno spesso, rispetto al passato, alle mobilitazioni collettive e le progettualità future ampie e di lungo respi-ro: il presente aveva iniziato a dilatarsi e il raggio di concettualizza-zione del futuro si stava facendo sempre più corto. I “sessantottini” avevano deliberatamente provocato una vera e propria mutazione ge-netica che aveva prima travolto la loro generazione e si era poi riper-cossa su quelle successive: mentre le generazioni precedenti avevano contestato i valori che gli venivano trasmessi dai padri, per poi supe-rarli e innovarli e talvolta persino riscoprirli, essi avevano rimosso il passato al fine di materializzare con maggiore profondità la loro conte-stazione rispetto alle generazioni precedenti (Scalfari, 1999).

Il sociologo e politologo Diamanti (1999) ha definito i giovani degli anni Novanta la “generazione invisibile”, suscitando la disap-provazione di molti, soprattutto di coloro che non si riconoscevano in quell’enunciazione. Ciò che li rendeva invisibili, nell’analisi dello studioso, era da imputarsi alla maggiore attenzione che essi prestava-no alle singolarità e alle differenze, piuttosto che alle somiglianze,

specialmente ideologiche e valoriali, che precedentemente avevano contribuito all’affermazione dei grandi movimenti sociali. Inoltre, i giovani degli anni Novanta si contraddistinguevano per la preferenza di pratiche partecipative frammentate, centrate su obiettivi concreti e puntuali, rifuggendo l’opposizione aperta e lo scontro frontale.

Eppure è stata proprio la generazione degli “invisibili” a costituire una parte fondamentale di una stagione di mobilitazioni contro la globalizzazione che di lì a poco sarebbe culminata nei fatti di Genova del 2001. Una generazione certamente attenta alle differenze e alle singolarità e che proprio in virtù di queste si era riconosciuta in una grande famiglia umana, dando vita al movimento no global: un mo-vimento internazionale, senza alcuna regia politica, che dall’America Latina alla Spagna all’Italia aveva posto questioni ancora oggi ogget-to di dibattiogget-to, quali la sottrazione di sovranità, la distribuzione più equa delle risorse mondiali, del governo mondiale dell’economia e altro ancora (S.n., 2016). Tuttavia, l’analisi di Diamanti (1999) ha certamente evidenziato che quel determinato tipo di mobilitazioni, in virtù delle scelte metodologiche con le quali venivano portate avanti, mostravano più il desiderio di “rivelarsi” che di affermarsi; una gene-razione di figli unici, nata da genitori che avevano pagato lo scotto della disillusione dei grandi movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Una generazione senza un’approfondita conoscenza della storia e senza neppure validi riferimenti civici (Diamanti, 1999).

Ma, oggi come ieri, chi sono, in realtà, i giovani? «I giovani non esistono […]», scrive Carlo Donolo (2011, p. 90), «[…] in quanto esistono coorti di età, gruppi sociali, tribù, affiliazioni, solitudini. […]. I giovani sono un costrutto del discorso pubblico […]» (Dono-lo, 2011, pp. 90-91). Un’affermazione provocatoria, certo, che ci in-terroga con urgenza rispetto alle possibilità che la società offre a que-sta specifica età della vita, un attraversamento errante che Laffi (2015) – con particolare riferimento all’adolescenza – definisce una “condizione di ricerca”, «[…] una stagione laboratoriale di scienziati senza camice bianco ma con felpa e cappuccio che devono produrre scoperte» (Laffi, 2015, p. 22).

La difficoltà del mondo adulto di accogliere la complessità, finan-che forse la frammentarietà, dell’universo giovanile rischia, forse, di alimentare ulteriormente la distanza che da esso li separa, ingabbiando questi ultimi in una molteplicità di definizioni negative. Ciò solleva

inevitabilmente alcuni interrogativi: esiste un rapporto di influenza tra le rappresentazioni che gli adulti nutrono dei giovani e le possibilità che vengono loro offerte di poter agire pienamente la propria cittadi-nanza? Che tipo di rapporto? In quali contesti e in quali forme si esprime?

Scriveva Virgilio Zangrilli (Cives, 1973) che per Aldo Capitini dis-sentire significava anticipare la legge di domani, offrire nuovi elementi al legislatore. Il dissenso, e perciò la ribellione, contiene in sé una ten-sione ideale al futuro, in direzione della sua costruzione. Le situazioni che consentono ai giovani di giocare un ruolo attivo nella vita del pro-prio territorio introducono alla dimensione della cittadinanza, così co-me dei diritti e delle responsabilità, ponendo le basi necessarie alla comprensione e alla condivisione delle regole e dei valori democratici (Baldoni e Busetto, 2004). Riconoscere l’importanza del contesto di vi-ta nella determinazione delle progettualità esistenziali, richiama alle re-sponsabilità (tanto dei singoli quanto dei gruppi e della comunità) dell’esercizio di un ruolo educativo dal quale non si può e non si deve esimere. L’imperativo pedagogico di educare alla ragione, coerente con l’argomentazione che l’educazione alla cittadinanza attiva possa con-durre l’uomo verso una consapevole costruzione di un’identità capace di affermarsi e partecipare attivamente alla vita dellacomunità, suppor-ta la teoria della progetsuppor-tazione esistenziale (Bertin e Contini, 2009). Tale modello pedagogico problematicista, elaborato negli anni Ottanta, rivendica il protagonismo del soggetto in grado di muoversi criticamen-te all’incriticamen-terno della rosa di scelcriticamen-te che può compiere, contrastando un modello di umanità caratterizzato da una diffusa nevrosi tra individui alla disperata ricerca della propria identità. Bertin definisce la proget-tualità esistenziale come: «[…] orientamento, assunto più o meno con-sapevolmente, dal soggetto, rivolto ad elaborare, vagliare e unificare aspirazioni criteri di valori e obiettivi di azione sul piano di un quoti-diano vissuto in rapporto al futuro» (Bertin e Contini, 2004, p. 32).

Nel documento LA CITTÀ LABORATORIODI CITTADINANZA (pagine 71-75)