• Non ci sono risultati.

L A QUESTIONE DEL RILIEVO D ’ IDENTITÀ ETNICHE DI LIVELLO DIVERSO E IL PROBLEMA DELL ’ EVENTUALE ESISTENZA DI UN LIVELLO “ SOVRA BOICO ”

Un punto teorico da non dimenticare è che le identità etniche di livello diverso non sono mai tutte ugualmente importanti per chi può rivendicarle, che si guardi a un singolo oppure a una collettività: questo principio, indubbiamente, vale anche per il passato1062. In un dato momento, un’identità appartenente a un certo livello può essere anche di gran lunga più rilevante delle altre1063. Sulla scia di D.L. Horowitz, possiamo affermare che un’identità è tanto più importante quanto più spesso è attivata, resa saliente: nel corso del tempo, il focus identitario potrà tuttavia spostarsi, e questo sia verso l’alto sia verso il basso. Per esempio, sul piano individuale, una persona con a disposizione l’identità A e l’identità subordinata X può passare dal pensarsi principalmente come A al pensarsi prioritariamente come X, o viceversa1064. Su quanti riteniamo di poter qualificare come individui che, nella Cispadana di fine III – inizio II secolo, potevano attingere a un corpus categoriale in cui, su un certo livello, si trovava l’etichetta “Boii” e, al di sotto di questa, etichette di portata più ridotta, innumerevoli sono le cose che non siamo in grado di dire. Una di queste è se, in generale o in periodi specifici, gli individui in questione si pensassero prioritariamente come Boii, oppure come membri di gruppi più ristretti. Per quei cisalpini della seconda età del Ferro registrati dalle fonti classiche come Celti/Galati/Galli ulteriormente suddivisibili in sottoinsiemi etichettati come “Boii”, “Senoni”, “Insubri” e “Cenomani”, Williams ipotizza che l’identità etnica più rilevante si situasse a un livello inferiore non solo a quello occupato da un’etichetta come “Celti”, ma anche a quello occupato da un etnico come, per esempio, “Boii”. Nel caso dei Boii, Williams pensa alle 112 tribus “catoniane”1065. Quest’idea costituisce una versione molto “riduzionista” di quella avanzata, per il complesso dell’Europa antica, da G.S. Reher e Fernández Götz. Questi ultimi hanno sostenuto che gli archeologi si sono troppo concentrati su macro-categorie come “Celti”, “Germani” e “Greci”, quando invece, nell’esistenza quotidiana di chi visse in società premoderne come quelle dell’Europa antica, l’identità etnica dovette avere maggiori probabilità d’attivarsi a scale più ridotte (anche perché “closer to effective political entities”)1066. Ora, nel caso dei cispadani di fine III – inizio II secolo, pensare di valutare la frequenza d’attivazione dell’etichetta “Boii” rispetto a suoi eventuali sottoinsiemi è impossibile. Per di più, qui siamo alle prese con una situazione in cui, possibilmente, sia quello boico sia quelli (ipotetici) di livello inferiore erano gruppi etnici che, almeno in alcune occasioni, potevano funzionare come entità politiche autonome. L’impossibilità di recuperare dalle fonti classiche gli etnonimi che, per i diretti interessati, potrebbero aver designato sottoinsiemi dei Boii, forse, dipende dal fatto che gli autori, per lo più, registrino conflitti tra rappresentanti della res publica e cispadani che, scontrandosi con Roma, avevano tutto l’interesse a presentarsi e agire come Boii, cioè a mobilitare il più ampio fra i gruppi politicizzabili in forma di unità etno-politica loro disponibili. Quanto alla filoromanità dei membri del “distretto modenese” e del “distretto dell’Enza”, essa parrebbe non essersi esplicata in gesti così rimarchevoli (da un punto di vista romano-centrico) da lasciare nei testi la traccia di etnonimi che costituivano sottoinsiemi di “Boii” (ammesso, per ipotesi, che i gruppi etnici che immaginiamo aver formato i sottogruppi dei Boii corrispondessero ai membri dei “distretti”). Tuttavia, questo scenario non implica che, nel complesso delle loro vite, tutti i diretti interessati si sentissero più spesso Boii che non membri di gruppi più ridotti. Come abbiamo visto, sull’autocoscienza dei cispadani di fine III – inizio II secolo esodefiniti come Boii, qualcosa si può dire, ma pensare di valutare la rappresentazione di sé, nella maggior parte dei contesti quotidiani, nutrita dal, diciamo, “cispadano medio”, è pura fantasia. E per quanto riguarda ciò che, in termini di multidimensionalità verticale, potrebbe essere stato sopra il livello occupato dall’etichetta “Boii”, qualcosa si può dire?

Durante il III-II secolo, è teoricamente possibile che, nella “scala” delle identità invocabili da cisalpini che in talune circostanze si pensavano ed eventualmente presentavano come Boii, trovasse posto un’etichetta rinviante a un

1061 Cfr. PEYRE 1992, pp. 42-43.

1062 HOROWITZ 1975, pp. 118-119; LUCY 2005, p. 101; POYER 1990, p. 137; TOSI 2002, p. 14. 1063 GULLIVER 1969, pp. 21-22. 1064 HOROWITZ 1975, pp. 118-119, 127-128, 131-132, 134-136. 1065 WILLIAMS 2001, pp. 206-207. 1066 REHER,FERNÁNDEZ GÖTZ 2015, p. 404. 173

gruppo di livello superiore a quello designato dall’appellativo “Boii”, se non più etichette indicanti più livelli identitari “sovra-boici”. Sulla base della documentazione scritta superstite, è escluso che possano esservi stati gruppi etno-politici di questo o questi livelli, ma non che, all’occorrenza, affermazioni d’identità “sovra-boiche” possano essere state sfruttate in ambito politico-militare, nel rapporto con cisalpini e/o transalpini. Anche se alla fine non sempre si riesce ad approdare a deduzioni plausibili sull’autocoscienza, una delle componenti degli studi etnici applicati a popolazioni estinte consiste nel ricostruire le reti di relazioni sociali, più o meno ampie, all’interno delle quali poterono dipanarsi i “giochi” dell’etnicità. Da questo punto di vista, se si guarda al tema dei rapporti fra comunità cisalpine e transalpine, dati rilevanti si ricavano non solo da documenti testuali come i passaggi letterari che riferiscono degli appelli ai Gesati da parte di Boii e/o Insubri. Qui anche l’archeologia ha da dire la sua. L’installazione di gruppi archeologicamente lateniani in Italia settentrionale non produsse minimamente un’interruzione dei rapporti fra i migranti ormai cisalpini e i loro omologhi restati a nord delle Alpi. L’esistenza di fitte e ininterrotte relazioni a cavallo dell’arco alpino, di un continuo circuito d’idee e persone, è ben confermata dalla cultura materiale. A tal proposito, è della massima rilevanza il fatto che tra il IV e il III secolo, a nord come a sud delle Alpi (anche nella Cispadana “boica”), le fogge dell’armamento lateniano evolvano in modo sincronico: sono le spade coi rispettivi foderi e sistemi di sospensione a provare un continuo aggiornamento secondo il progredire delle tecniche e dei gusti1067. Naturalmente, una simile constatazione non può essere tradotta in maniera automatica sul piano dell’etnicità, ma, come detto, essa rappresenta la traccia di una trama di relazioni sociali che potrebbero aver incluso anche la comunicazione di messaggi d’ordine etnico.

Nella letteratura classica menzionante i Celti/Galati/Galli, non mancano brani che includano affermazioni esplicite degli autori sul modo in cui i cisalpini avrebbero visto loro omologhi d’oltralpe e viceversa. Innanzi a fonti scritte esoetniche che riflettono l’altrui autocoscienza, si pone sempre la questione dell’affidabilità documentaria, che le informazioni giungano a noi per via indiretta, come nel caso del “dossier Boiorix”, o direttamente, grazie a dichiarazioni esplicite degli autori. Non è detto che informazioni indirette siano meno sicure di quelle dirette. Anzi, può pure darsi che quanto un autore sostiene direttamente a proposito di un’identità altrui possa essere “inquinato” dalla sovrapposizione di un punto di vista esoetnico che, invece, non tocca quello che l’autore lascia trapelare “suo malgrado”. Si pensi all’appello alla suggevneia che, secondo Polibio, Galati cisalpini avrebbero usato, insieme all’offerta di doni, per prevenire lo scatenarsi su di loro di una guerra portata da loro omologhi transalpini piombati in Italia nel 299, senza che nessuno li avesse invitati1068. Che i Keltoiv/Galavtai cisalpini e transalpini appartenessero al medesimo gevno~ è qualcosa che, come sappiamo, Polibio aveva già affermato in un brano antecedente quello che stiamo commentando qui1069. Però, se nel primo caso Polibio non aveva fatto esplicito riferimento al punto di vista dei diretti interessati, nel secondo, l’autore evoca direttamente le rappresentazioni etniche dei cisalpini. Ahimè, il dubbio d’avere a che fare con un’elaborazione letteraria, attraverso la quale il Megalopolitano potrebbe aver proiettato sugli oggetti del proprio discorso il suo punto di vista non è eliminabile1070. Se fosse degno di fede, il brano indicherebbe che, da parte di comunità cisalpine non meglio identificate, a fini politico-militari, all’inizio del III secolo, fu mobilitata una nozione d’affinità con transalpini che l’ellenofono Polibio rende facendo ricorso al termine sug-gevneia, il quale veicola un’idea di condivisione degli antenati che è centrale in quel tipo d’immaginario che, per via della storia delle classificazioni scientifiche occidentali della diversità umana, noi oggi ci ritroviamo a chiamare “etnico”1071. Quella dimensione retrospettiva caratterizzante le costruzioni identitarie di tipo etnico che abbiamo avuto occasione d’evocare parlando della “saga di Belloveso”, come punto focale, ha la credenza secondo cui i membri di un gruppo (proprio o altrui) condividerebbero un’origine comune, nel senso di una comune discendenza. Da parte dei co-membri di ciascun gruppo etnico, l’affermazione di un’identità comunitaria ha come base, quale critica risorsa vitale, la pretesa condivisa di discendere da certi antenati comuni1072. Beninteso, anche se veramente documentasse un episodio d’attivazione, da parte di cisalpini, di un livello identitario tanto alto da coinvolgere pure transalpini, il passaggio polibiano non potrebbe dimostrare né che l’identità etnica invocata fosse per forza all’insegna di una versione indigena dell’etnonimo Keltoiv o dell’etnonimo Galavtai, né che l’estensione dell’endodefinizione coincidesse con l’idea che della celticità/galaticità si faceva Polibio. Non va neppure scordato che siamo alle prese con un episodio del primissimo III secolo, con riferimento al quale Polibio ancora non è tornato a parlare di sottoinsiemi dei Celti/Galati, sicché qui dei Boii non può esservi menzione.

Scendiamo verso date con riferimento alle quali Polibio ha ripreso a dividere i Celti/Galati per sottogruppi e meno lontane del 299 rispetto a quell’inizio di II secolo a partire dal quale, stante il “dossier Boiorix”, proiettiamo

1067 BONDINI 2010, pp. 13-14; DORE 1995, pp. 41-42; Guida Monterenzio 2006, p. 33; LEJARS 2008, pp. 133, 167; id. 2014, p. 402; VITALI

1987, p. 361; id. 1988, p. 274; id. 1991a, p. 228; id. 2011, p. 288. Per una panoramica sul tema dell’armamento lateniano nel IV e nel III secolo, v. RAPIN 2007.

1068 Polyb., II, 19, 1. 1069 Polyb., II, 15, 8-9.

1070 Cfr. BOURDIN 2012, nota 458, p. 765; VITALI 2014, p. 739.

1071 Sul valore dei termini gevno~ e sug-gevneia, a partire specialmente daHALL 1997, pp. 34-38, v. FRANC cds e, per ora, id. 2017, pp.

147-148.

1072 Su tali questioni, con la relativa, ricca bibliografia, v. FRANC cds e, per ora, id. 2017, pp. 81-86.

all’indietro l’esistenza in Cisalpina di un’endodefinizione all’insegna dell’etnico “Boii”. Così si arriva al 232 e al discorso tenuto, oltralpe, dagli inviati di Insubri e Boii, per convincere i Gesati di Concolitano e Aneroesto ad allearsi con loro, passare in Italia e attaccare i Romani. Gli inviati insubri e boici adottano vari argomenti di persuasione: offrono oro, espongono la prosperità dei Romani e danno garanzie circa la propria alleanza. Ma non solo. Essi ricordano anche ai Gesati l’impresa dei propri antenati (provgonoi), i quali avevano sconfitto i Romani e occupato Roma stessa per sette mesi, prima di tornarsene volontariamente a casa, carichi di bottino e incolumi1073. Il medesimo Polibio che accusava i giovani Boii del 237 d’avere rischiato di riattivare il conflitto con Roma anche per “l’oubli des combats du passé” (forse inteso come segno di alterità barbarica) attribuisce ai cisalpini insubri e boici una memoria rimontante fino all’inizio del IV secolo1074. Che Polibio volesse attribuire ai messi insubri e boici un appello a un sentimento di parentela fra cisalpini e transalpini1075 non può dirsi certo. Polibio potrebbe anche aver inteso presentare ambasciatori cisalpini che evocavano le gesta degli antenati dei soli Insubri e Boii. Comunque, che fossero inclusi o meno anche transalpini, Polibio mette indubbiamente in scena un episodio nel quale dei Boii e degli Insubri, per scopi politico-militari, espongono una rappresentazione del passato che fa di loro stessi, a un livello identitario “sovra-boico” e “sovra-insubre”, i membri di un unico gruppo etnico, indubbiamente i Celti/Galati nella mente di Polibio. Se giudicato attendibile, questo brano documenterebbe un fatto straordinariamente importante per la ricostruzione dell’autocoscienza etnica dei nostri oggetti di studio, anche prescindendo dall’eventualità che esso possa attestare invocazioni endoetniche di corrispettivi indigeni di Keltoiv/Galavtai. Purtroppo, il giudizio sull’affidabilità del racconto non può non rimanere in sospeso. Sull’eventualità che la fonte di Polibio, pur filtrandolo (più o meno “energicamente”) attraverso le proprie categorie, avesse registrato qualcosa che effettivamente era stato detto oltralpe nel 232 si possono legittimamente nutrire dubbi.

Un po’ diversa è la situazione nel caso di un concilium che, stando a Livio, si tenne nel 218 nella Gallia d’oltralpe. Durante l’assemblea, i Galli respinsero la richiesta, formulata da ambasciatori dell’Urbe, di non lasciar passare Annibale diretto in Italia. Tra le ragioni addotte per il rifiuto, una fu questa: ai Galli d’oltralpe era giunta notizia che, per iniziativa del popolo romano, in Italia uomini della loro stessa gens erano cacciati dalle loro terre, pagavano un tributo e pativano ogni altro trattamento indegno1076. Il riferimento è ai cisalpini che avevano subito la “prima sottomissione”, con tutte le sue conseguenze, incluse le confische territoriali legate alla deduzione delle colonie di Placentia e Cremona1077. Dunque, i Boii sono senz’altro compresi nel quadro. Anche in questo caso, non si può evacuare del tutto il dubbio d’avere a che fare con un’elaborazione letteraria, attraverso la quale Livio o già la sua fonte potrebbe aver proiettato sui Galli un punto di vista esoetnico, romano nello specifico. Tuttavia, è innanzi ad ambasciatori romani, perciò con qualche possibilità che a Roma ne fosse giunta notizia e poi serbata memoria, che le parole riferite da Livio furono pronunciate. Questo è un punto a favore dell’eventualità che una “solidarité de gens” fra Galli transalpini e Galli cisalpini1078 sia stata effettivamente espressa nell’assemblea del 218. Anche così, rispetto all’impiego dell’etichetta “Galli”, vi sarebbe da “fare la tara” di un possibile filtro etnonimico latino, però prestando attenzione a una sfumatura. Quello riportato da Livio è un discorso che dei Galli avrebbero tenuto alla presenza d’individui che riconoscevano come dei Romani. In uno scenario simile, non va scartata l’eventualità che gli interlocutori dei legati dell’Urbe, relazionandosi con questi ultimi, avessero adottato, per se stessi, un’etichetta giudicata comprensibile per un outsider catalogato come “Romano”, ma non necessariamente utilizzata in altri contesti relazionali1079.

Per quanto concerne lo specifico del rapporto, nella Cisalpina preromana, fra l’etichetta “Boii” e le etichette “Celti”, “Galati” e “Galli”, se il punto di vista veicolato dagli autori classici è indubbiamente esoetnico e chiaro rispetto alla multidimensionalità verticale (i Boii sono outsiders, sottoinsieme di una più larga categoria di Altri, i Celti/Galati/Galli), assai problematico è valutare il punto vista di quanti potevano riconoscersi come Boii. Questi ultimi usavano una o più versioni indigene delle tre etichette in questione? E se sì, come endo- oppure come eso- etnonimi? Riflettendo sulla possibilità che esistano vie per cercare di rispondere almeno parzialmente a tali domande, va chiarito subito un punto. Fuori dall’epigrafia in greco o latino, nell’Italia antica, esiste un gruppetto d’iscrizioni (prevalentemente, benché non solo, in lingua e alfabeto etruschi) il cui contenuto è, in tutto o in parte, costituito da antroponimi più o meno concordemente letti quali nomi di persona tratti dagli etnici resi in italiano come “Celti”, “Galati” e “Galli”1080. Ora, per loro natura, questi nomi possono, nella migliore delle ipotesi, contenere

1073 Polyb., II, 22, 1-5. 1074 PÉRÉ-NOGUÈS 2014, p. 149. 1075 LUCAS 2009, p. 17. 1076 Liv., XXI, 20, 1-6.

1077 V., per esempio, RAMONDETTI 1989, nota 3, p. 102. 1078 BOURDIN 2012, p. 202.

1079 Sulla possibilità di sdoppiamenti onomastici a seconda della sfera relazionale, v. FRANC cds e, per ora, id. 2017, p. 95.

1080 Sotto vedremo un caso di possibile uso antroponimico dell’etnico “Celti” in un’epigrafe etrusca da Spina, nonché un caso di

possibile impiego antroponimico dell’etnico “Galati” in un’iscrizione in celtico cisalpino dal Novarese. Rispetto all’epigrafia etrusca, per altre occorrenze di elementi onomastici probabilmente legati all’etnico “Celti”, nonché per possibili riflessi antroponimici dell’etichetta “Galli”, v. COLONNA 1985, p. 270; id. 1989, p. 373; id. 2004, p. 76; id. 2017, pp. 7-9; POCCETTI 2012, p. 62;

175

un riferimento etnico ed è quindi escluso che possano informare sulla relazione di “Celti” o “Galati” o “Galli” con altri etnonimi. Si prenda il caso del celebre graffito leggibile sulla parete esterna di una ciotola a vernice nera scoperta fuori contesto nell’area della necropoli spinetica di valle Trebba e datata tra fine IV e inizio III secolo. Il graffito è in genere letto Keltie e interpretato come un antroponimo (nome unico o gentilizio) tratto dall’etnico “Celti” e qui registrato in alfabeto e lingua etruschi, con però il dettaglio di un suffisso in -ie1081, inquadrato come un’etruschizzazione del morfema indoeuropeo -yo-1082, che ha fatto aprire all’eventualità d’avere a che fare con l’adattamento in etrusco di un nome coniato in un idioma indoeuropeo1083. A beneficio del punto che ci preme enucleare qui, poniamo che il nome in esame costituisse effettivamente un derivato dell’etnico “Celti”, il cui eventuale arrivo nella comunità etruscofona di Spina1084 già con funzione antroponimica non aveva nuociuto alla percezione, in loco, del riferimento etnico contenuto in esso. Seguendo l’approccio adottato da molti fra quanti si sono occupati del graffito, accettiamo, poi, che Keltie fosse un nome unico che il proprietario del vaso tracciò o fece tracciare non solo allo scopo di segnalare la proprietà della ciotola1085, ma anche di presentarsi come “il Celta”, così mettendo in rilievo un’identità etnica distintiva rispetto all’ambiente spinetico inglobante, che a Spina gli conferiva lo status di outsider forestiero1086. Infine, sempre a beneficio della nostra argomentazione, poniamo pure che, al tempo in cui il graffito spinetico fu tracciato, in Cisalpina esistesse già un’endodefinizione etnica all’insegna dell’etnonimo “Boii”. Ora, anche se questo “roseo” (per i nostri interessi) e nient’affatto obbligatorio scenario costituisse non un mero artificio retorico ma una realtà storica, come potremmo mai giungere a sostenere che, probabilmente, colui che a Spina si presenterà come “il Celta” provenisse da una comunità composta da individui i quali, in maggioranza, si pensavano e all’occorrenza presentavano come Boii, se non già come Celti Boii?

Di fatto, l’unica pista d’indagine in grado forse d’illuminare il rapporto che quanti riteniamo essersi potuti riconoscere come Boii nella Cisalpina preromana intrattennero con almeno uno degli etnici del terzetto “Celti”/“Galati”/“Galli” ci riporta alla letteratura classica. Più precisamente, a uno di quei brani in cui un autore cita il nome di un individuo con funzione regale all’interno della società boica. Rispetto al caso di Boiorix, qui le deduzioni sul piano dell’autocoscienza etnica si fanno più incerte e, comunque, nella migliore delle ipotesi (sempre per i nostri interessi), fornirebbero un’indicazione in negativo. Si rammenterà che lo scontro interceltico andato in scena presso Ariminum nel 237 o nel 236, in base al dettato polibiano incluse l’uccisione, da parte delle masse boiche, dei due basilei'" dei Boii, uno dei quali si chiamava Gavlato~1087. A suo tempo, A. Holder notava che il nome Gavlato~ costituiva una variante di Galavth~/Galata, termine noto in ambito greco-latino sia come singolare dell’etnico Galavtai/Galatae che come antroponimo. Nell’epigrafia, quale attestazione latina della versione dell’antroponimo registrata da Polibio, Holder citava il Galatus commemorato da un’iscrizione scoperta a Roma1088. Si tratta dell’epitaffio, datato tra la fine del I e il II sec. d.C.1089, di un soldato dei vigiles, chiamato Q. Iulius Galatus e originario del centro nordafricano di Thysdrus1090. Oggi, per il nome ricordato da Polibio, disponiamo di un possibile confronto nell’ambito dell’epigrafia in celtico cisalpino redatta in alfabeto di Lugano. Nell’area della necropoli lateniana di Dormelletto (Novara), nel riempimento di una grande fossa priva sia di resti umani sia di corredo (struttura 120), è stata rinvenuta una stele lapidea con figurazione ed epigrafe incise, databile verso la fine del II secolo. La funzione della struttura 120 è incerta: potrebbe forse trattarsi di un cenotafio o di un heroon dedicato a un membro eminente della collettività che deponeva i suoi morti nel sepolcreto. Sulla stele, sotto la rappresentazione schematica di un volto umano, si legge la formula onomastica binomia Komeuios Kalatiknos: il secondo elemento è un altro esempio di patronimico in -(i)cno-1091. L’alfabeto di Lugano, normalmente, non nota la distinzione fra occlusive sorde e sonore1092, sicché è teoricamente possibile che il secondo termine della formula vada letto Galatiknos. Gambari ha parlato di questo termine come di un patronimico che varrebbe “figlio di Calatos/Galata”1093.