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Finora si è provato a individuare il significato dei matrimoni comunitari nei suoi vari aspetti. Questi, da un punto di vista etnografico, rappresentano la “cultura” oggetto di questa tesi. In ossequio a una particolare interpretazione del ruolo dell’antropologo, però, essi non costituiscono una tradizione da salvare (Malinowski, 1960), non rappresentano un insieme statico di eventi dal significato univoco, la cui analisi deve essere tramandata ai posteri. Anzi, “si rivelano come un assemblaggio di codici e di artefatti sempre passibili di nuove combinazioni critiche e creative.” (Clifford, 1988: p.

25)

Queste considerazioni portano con loro una conseguenza. L’interpretazione dei matrimoni comunitari è una questione aperta. D’altra parte, non potrebbe essere altrimenti, visto che tale esperienza resta, per ora, un’avanguardia. In diverse occasioni, infatti, si è parlato di “potenziale sociale”, volendo sottolineare con questa espressione che i matrimoni comunitari e, quindi, le relative interpretazioni, sono innanzitutto delle possibilità per il futuro.

In questo paragrafo saranno presentate due tracce, che indicano altrettanti potenziali sentieri di esplorazione etnografica. Essi, per i limiti insiti in questa tesi, non hanno trovato spazio sufficiente all’interno del mio lavoro. La presentazione di queste tracce vuole anche essere un modo per ricollocare l’esperienza dei matrimoni comunitari all’interno del contesto che li ha partoriti.

Nel corso di tutto questo lavoro è stato sottolineato il ruolo centrale conservato dalle caste nell’India contemporanea. Questa struttura sociale non è statica, come ritenuto in passato dagli studiosi “orientalisti” (Torri, 2002: p. 25), ma è in continuo movimento. Però, nonostante ciò, rimane l’unità fondamentale della società indiana (Srinivas, 1976: p. 234). Dall’analisi effettuata nel paragrafo precedente si deduce che i matrimoni comunitari non modificano i rapporti di potere e dipendenza tra le caste:

anzi, in un certo senso, possono contribuire a rafforzare la posizione delle varie comunità, all’interno di una scala sociale già prestabilita. Tuttavia, vi sono due livelli che necessiterebbero di ulteriore approfondimento.

In primo luogo, è difficile valutare l’effetto di una celebrazione comunitaria sul lungo termine. Infatti, è possibile che nel corso del tempo l’organizzazione dell’evento, supportata dall’ideale nonviolento proposto dall’ASSEFA, sia fonte di un cambiamento delle relazioni in senso egualitario.

La mia osservazione e l’analisi conseguente si limitano a questa considerazione:

di sicuro, la preparazione e il rituale comunitario aiutano la creazione di un clima di armonia. Questo è risultato evidente sia nelle intenzioni che nelle realizzazioni dell’ASSEFA, ma, sulla base degli elementi a mia disposizione, a questo clima di armonia non corrisponde un percorso verso l’uguaglianza sociale. In un ambiente ancora caratterizzato dalle violenze delle caste più alte verso quelle più basse,360 l’armonia è di certo una conquista molto importante, ma la struttura sociale, fonte di relazioni asimmetriche tra le caste e, quindi, tra le persone, non sembra cambiare in maniera sostanziale. Almeno nel breve termine.

La seconda traccia riguarda il ruolo delle donne. A loro sono stati dedicati due paragrafi importanti di quest’opera361 poiché il matrimonio, in tutte le sue forme, le coinvolge a diversi livelli. Spetta a loro intessere la tela delle relazioni familiari, preparare i figli al matrimonio, prestare attenzione a tutte le forme del rituale e raccogliere le responsabilità domestiche che seguono le nozze. Se durante i matrimoni tradizionali sono solite svolgere la maggior parte di queste funzioni nella sfera privata, nei matrimoni comunitari il loro ruolo diventa pubblico. La presenza massiccia durante la celebrazione le rende visibili a tutta la comunità dei partecipanti. Gli uomini, vestiti sempre con abiti opachi e monocromi, sembrano scomparire di fronte alle migliaia di sari multicolore. La loro funzione, però, non è meramente estetica. Le donne dei Self Help Groups sono state una presenza costante nel corso di tutta la preparazione: hanno individuato le coppie, hanno messo in contatto fra loro le famiglie, hanno coperto metà delle spese. È vero che la responsabilità organizzativa è rimasta sempre e solo appannaggio degli uomini: tali erano tutti i responsabili di progetto, i sacerdoti e i leader di villaggio. Infatti, più volte mi sono chiesto come l’attenzione femminile al particolare avrebbe potuto cambiare lo svolgimento della cerimonia. Ma le attività parallele delle donne hanno costituito le vere fondamenta di questi matrimoni. Di sicuro, le componenti dei Self Help Groups hanno influenzato in maniera sostanziale tutte le varie fasi del processo e, molto probabilmente, il loro ruolo porta con sé i germi dell’emancipazione. Le donne escono dall’ambito domestico per recitare, seppur timidamente, la loro parte di attrici sociali anche sulla scena pubblica.

Per una comprensione più profonda di questi aspetti, sarebbe stato necessario immergersi all’interno di qualche Self Help Group, seguirne gli incontri, la divisione

360 Cfr. 1.2.2

361 Cfr. 2.3 e 3.2.2

delle spese, le discussioni, la ricerca degli sposi; di conseguenza, osservare la loro influenza sui contesti nei quali hanno operato. Purtroppo, questo non è stato possibile per motivi di tempo (non ero in India durante la prima fase della preparazione) e di genere. Il potenziale espresso dalle donne rimane in gran parte da scoprire. Forse, non solo tramite gli strumenti forniti dall’antropologia.

Nel concludere questo capitolo debbo rinnovare un atto di umiltà. Durante il mio soggiorno in Tamil Nadu ho ammirato sinceramente lo sforzo di tutte le persone coinvolte nella preparazione dei matrimoni comunitari: uomini e donne che, ognuno a suo modo, mi hanno reso partecipe del loro vissuto, dei loro pensieri, dei loro sentimenti.

Io ho ascoltato, osservato, raccolto. Ho provato ad essere il più rigoroso possibile con tutti gli elementi a mia disposizione, ma è giusto essere consapevoli che questi elementi erano limitati.

La mia analisi coinvolge le persone che hanno speso il loro tempo e le loro risorse per questi matrimoni comunitari. Il mio pensiero torna a loro e, abbandonando il tono della dissertazione scientifica, esprimo solo la mia ammirazione e la mia gratitudine.

CONCLUSIONI

Truth and Nonviolence are as old as the hills (M.K. Gandhi)

Riprendo in mano la fotografia che ha guidato il mio lavoro. Non l’ho messa in un album per i posteri, preferisco che i suoi contorni ingialliscano col tempo. L’ho descritta nei minimi particolari e l’ho posizionata accanto al mio bagaglio, insieme ad altri elementi di questo o di un altro viaggio. Osservo il quadretto che ne è venuto fuori.

Non riesco a pensare il contesto senza la fotografia, ma non riesco a pensare neanche la fotografia senza il contesto.

Gli obiettivi di questa tesi erano due: uno scientifico e uno umano. Col primo mi proponevo di descrivere il fenomeno dei matrimoni comunitari, inquadrarlo nel contesto che lo ha partorito, confrontarlo con le nozze della tradizione, ascoltare i protagonisti, coglierne i significati. Il secondo, invece, era rendere testimonianza di un’esperienza di viaggio, consapevole che tutte le riflessioni a posteriori, concentrate in questo lavoro, sono solo il frutto di una serie di incontri. Non incontri fra prototipi culturali, antropologo e nativi, occidentale e orientali, bianco e neri, ma incontri fra persone.

Ognuno col suo bagaglio di ricordi, speranze e interpretazioni del reale.

In corso d’opera, pur tenendoli sempre presenti, ho provato a scindere i due obiettivi, perché lo richiede il protocollo scientifico, ma anche perché lo ritengo giusto io stesso. Non spetta a me dire se ci sono riuscito.

Tuttavia, è chiaro che la persona è una e i due elementi si influenzano a vicenda.

Nelle scienze sociali credo sia una prova di maturità saper analizzare un fenomeno, tenuto conto del percorso umano proprio e delle persone che lo hanno vissuto. Ma è altresì testimonianza di maturità vivere delle relazioni, consapevoli dei limiti razionali e culturali che contribuiscono a strutturarle.

Mentre preparavo le valigie per la partenza verso il sub-continente, qualcuno mi aveva avvertito: “Chiedi a dieci persone diverse e avrai dieci immagini dell’India diverse.”362

Infatti, appena atterrato, ho ricevuto la conferma. Era il 14 dicembre 2005.

Insieme ai miei compagni di viaggio siamo entrati in un ristorante tipico e ci siamo

362 Da un incontro con il professor Michelgugliemo Torri, tenutosi al Centro Studi Domenico Sereno Regis di Torino il 5 dicembre 2005.

accomodati. Io ho ordinato il peas masala. Inconsapevolmente stavo mangiando proprio il simbolo della diversità indiana. Il masala, nelle sue varie forme, è uno dei piatti più diffusi di tutto il sub-continente, lo si trova in Kashmir, come in Tamil Nadu. Masala significa mix, mescolanza, il grande melting pot che è la civiltà indiana.

Il mio obiettivo principale, come viaggiatore, era conoscere.

Uno dei primi shock culturali è arrivato in una situazione apparentemente banale. Durante i primi giorni di ambientamento a Chennai, la capitale del Tamil Nadu, ero alla ricerca di una bicicletta, il mio mezzo di trasporto preferito, in Oriente, come in Occidente.

Molti negozi di articoli sportivi a due ruote si trovano in una via stretta e trafficata, a nord della città. La divisione dei ruoli, all’interno delle varie botteghe, è molto netta. I proprietari, colore della pelle mulatto, pancetta pronunciata, sguardo fiero, siedono dietro una scrivania, spesso con un vistoso anello d’oro a un dito della mano destra. I garzoni, che rimangono tali anche in età avanzata, hanno il colore della pelle nera, sono smilzi e, in genere, lavorano nel retrobottega. Io entro in uno di questi negozi e chiedo informazioni sui vari modelli presenti. Il proprietario, piuttosto giovane, mi fa accomodare e domanda a uno dei garzoni di prendere il catalogo in un armadietto. Il signore in questione, piuttosto anziano, si mette a frugare tra gli scaffali, ma non trova nulla. All’inizio, il proprietario aumenta ripetutamente il tono di voce, nel tentativo di fornire ulteriori indicazioni. Infine, si alza nervosamente, fruga tra gli scaffali di un altro armadietto, trova il catalogo, lo scaglia con forza contro il garzone. Poi, come se nulla fosse, torna verso di me. Dopo qualche secondo, forse preoccupato dal mio sguardo attonito, fornisce la sua versione dei fatti: “These guys, I try, but they don’t understand anything.”

L’episodio non sarebbe rimasto un caso isolato.

La mia prima reazione è un rifiuto emotivo della violenza. Ma la seconda è

“perché?”

Gandhi, nel corso della sua vita, si è sempre battuto per l’uguaglianza, ma nei confronti dell’esistenza delle caste ha avuto un atteggiamento non sempre lineare.

L’aiuto alla comprensione di questo fenomeno è venuto dalla lettura della storia di Viramma.363 Lei è una Dalit, una Parayar, canta durante i funerali e lavora nei campi durante la stagione della semina e del raccolto. Il suo padrone è un Reddi, esponente di una casta elevata. Vivono entrambi nello stesso villaggio, ma separati fisicamente,

363 Cfr. introduzione e chiosa del secondo capitolo.

culturalmente, socialmente. Viramma si trova alla periferia, subisce il potere morale e la violenza fisica delle caste superiori. Eppure, quando racconta sé stessa è consapevole della sua condizione, ma allo stesso tempo fiera e dignitosa. Anzi, non ha paura della verità e, proprio per questo, può scherzare e gioire. Quando racconta la sua situazione parla con leggerezza degli aspetti più crudi, è capace d’ironia, sa far ridere la verità.

Anche lei, però, ha difficoltà a rispondere alla domanda “perché?”

Da un lato ascolta i partiti politici e i movimenti sociali che la chiamano a lottare per cambiare la sua condizione. Dall’altro, però, non rinuncia a questa condizione. Anzi, di fronte ai desideri di emancipazione di Anban, suo figlio, lo rimprovera di non rispettare le regole della tradizione, di non essere sufficientemente umile, di non sottomettersi allo status quo.

Io sono venuto in India alla ricerca delle radici di Gandhi: quel Gandhi che ha preferito scendere da un treno sudafricano piuttosto che subire la violenza di un agente di polizia e accomodarsi in terza classe, quel Gandhi che ha preferito andare in prigione piuttosto che non essere libero di raccogliere il sale dal suo mare o di farsi i vestiti col suo filatoio, quel Gandhi che ha preferito farsi uccidere piuttosto che cedere alla cultura della violenza, alimentata da qualche fanatico.

Dietro questa ricerca vi è sicuramente una precomprensione dialettica: l’idea che ogni sì, sì alla dignità umana, sì all’emancipazione, sì all’uguaglianza, debba passare per un no. No allo sfruttamento, no alla divisione in classi o in caste, no al potere dell’uomo sull’uomo.

E, allora Viramma, cos’è? E’ un’immobilista, rinuncia alla scalata sociale anche quando le sarebbe possibile (o quanto meno offerta)?

Questa è la sua risposta: “Volete lottare per unirci, per far scomparire le caste.

Ma è impossibile. Non abbiamo né campi né terre, ma soltanto la casa in cui abitiamo:

come volete che viviamo altrimenti? Se volete davvero lottare per noi poveri, dateci il denaro per comprare la terra da coltivare. Dateci una mucca, una capra, un paio di buoi, e potremo guadagnarci la vita, mangiare a sazietà, e avere molti bambini. Loro sì che potranno studiare, avere una posizione.” (Viramma, 1997: p. 217)

Dopo alcune settimane della mia presenza in Tamil Nadu, ho capito che anche in ASSEFA la logica della contrapposizione era assente: si lavora giorno per giorno, per provare a costruire, lasciando ad altri la lotta contro l’ingiustizia.

Ho osservato il lavoro dei direttori di progetto, degli animatori dello staff, ma soprattutto delle tante donne, che hanno colorato i matrimoni comunitari. Mi è tornato

in mente un autore ungherese e la sua descrizione di alcune lavoratori nell’ombra, in un’epoca di profonde ingiustizie (la dittatura staliniana). Essi, animati da senso di responsabilità, ma senza intenzioni rivoluzionarie, “creavano intorno a sé degli isolotti di ordine e dignità in un oceano di caos e incongruenze. In qualunque campo lavorassero, la loro influenza si comunicava intorno ad esse.” (Koestler, 1954: p. 178) Un’apologia della maieutica.

La mia esperienza di viaggio e quindi il mio percorso cognitivo si sono districati attraverso questi due approcci: dialettica e maieutica. Gandhi ha intitolato la sua autobiografia The history of my experiments with the truth, lasciando intendere che altri hanno fatto o faranno i loro, di esperimenti. Per un viaggiatore è importante che le strade siano molteplici, proprio per poter continuare a muoversi. Ho ascoltato chi si riconosceva nelle idee di Viramma e chi in quelle di Anban. Non ho scelto a caso la loro testimonianza per esprimere la differenza fra i due approcci. Il legame che c’è tra l’uno e l’altro è molto simile a quello che c’è tra una madre e il figlio: entrambi sono necessari.

Nel congedarmi dal lettore e chiudere veramente questo lavoro, però, devo abbandonare i miei intenti teleologici. Ritorna la formazione classica, il mio humus culturale rientra prepotentemente in gioco, così come la dimensione circolare del tempo e dello spazio. Ricomincio da dove ero partito.

Pearl Sydenstricker Buck, scrittrice americana vissuta a lungo in Cina, sostiene che la scoperta fondamentale su ogni popolo è la scoperta della relazione tra i suoi uomini e le sue donne. Molto spesso, nel parlare coi giovani che, come me, erano chiamati ad affrontare le scelte della vita adulta, affiorava il tema del matrimonio.

Tradizionale o comunitario, d’amore o combinato, esso rappresentava il simbolo del rapporto fra uomo e donna.

In conclusione, non sarebbe onesto sostenere che, pur consapevole del mio percorso, pur rispettoso di quello altrui, anche io non abbia operato delle scelte. Anzi, ogni viaggiatore è chiamato a farne, se non vuole che la sua barca vada alla deriva.

Pur se discutibili e modificabili in itinere, ogni persona vive coi suoi modelli.

Anche io, durante questo percorso, ho trovato i miei.

Fra le tante coppie incontrate, due hanno lasciato un solco nella mia memoria.

Jesuraj e Sahayarani mi hanno atteso sotto una veranda di palme, in una giornata caldissima. Ci siamo salutati, ci siamo seduti e abbiamo cominciato a chiacchierare.

Invece di attendere le mie domande hanno iniziato a scherzare. Si tenevano per mano,

spesso lei si avvicinava a lui per stringerlo a sé, poi si guardavano entrambi e sorridevano. Esprimevano coi gesti quello che non è possibile dire a parole.

Poominathan e Kalieswari hanno voluto raccontarmi subito la loro storia:

“Lavoriamo entrambi come braccianti. Ci siamo conosciuti sui campi e ci siamo innamorati. Abbiamo deciso di sposarci e siamo riusciti a convincere i nostri genitori a darci il loro benestare. Siamo di due caste diverse e sappiamo di avere una grande responsabilità. Ogni problema tra di noi chiamerebbe in causa anche le nostre comunità.

In fondo, però, ci piacerebbe dimenticarci di questi problemi, perché secondo noi esistono solo due comunità al mondo: gli uomini e le donne”.

Se siano i pionieri di una nuova rivoluzione sociale non sono riuscito a dirlo, ma per me è sufficiente aver ammirato, una volta di più, questa verità della relazione umana.

Antica come le montagne.

Glossario

Aadi: mese tamil che va da metà luglio a metà agosto., considerato infausto per la celebrazione e la preparazione dei matrimoni

Adi Dravida: termine utilizzato per i Dalit del Tamil Nadu.

Adivasi: termine che designa le popolazioni tribali in tutta l’India.

Agni: fuoco sacro utilizzato in particolare durante la celebrazione delle nozze indù.

AIADMK (All India Anna Dravida Munnetra Khazagam): uno dei due principali partiti tamil, al governo del Tamil Nadu fra il 2001 e il 2006. Ha perso le elezioni nel maggio 2006 e ora si trova all’opposizione.

Akshatai: riso sacro di colore giallo, lanciato al termine della cerimonia di nozze indù per benedire gli sposi

Akshaya Tritiya: terzo giorno dopo la luna nuova del mese di aprile o di maggio, di buon auspicio per tutte le celebrazioni sacre, compreso il matrimonio.

Amma: “mamma” in tamil.

Annachi: “fratello maggiore” in tamil, nell’ASSEFA viene utilizzato per chiamare Loganathan, il direttore dell’associazione.

Appalam: sfoglia di farina di lenticchie aromatizzata.

Area Viluppuram: area della ricerca dove sono presenti le cittadine di Tandrampattu, Sankarapuram, Chinnasalem, Kallakurichi, Vriddachalam e Thiyagadurgam.

Ashram: comunità che ha come primo obiettivo l’approfondimento spirituale dei suoi membri.

Auto-rickshaw: taxi a tre ruote molto usato in tutta l’India; a Chennai e in Tamil Nadu spesso sono degli Ape Piaggio o Tata (marca indiana di auto) di colore giallo; sono molto usati anche nelle campagne.

BC (Backward Castes): caste non braminiche relativamente basse, che hanno delle quote riservate di posti pubblici in Tamil Nadu.

Betel: foglie aromatiche di una pianta rampicante dell’India meridionale.

Betrothal: fidanzamento.

Bhoodan: letteralmente “dono della terra”, fu un movimento lanciato da Vinoba Bhave per raccogliere e redistribuire la terra ai contadini negli anni ’50 e ’60.

Biraderi: tra i musulmani, clan che riunisce tutta la discendenza da un antenato comune.

Biryani: riso alle verdure molto speziato, è considerato uno dei piatti dei giorni di festa; esistono anche dei biryani non vegetariani, al pollo, all’agnello e alle uova.

Brahma: dio indù della creazione.

Bramini: casta sacerdotale indù.

Ceri: zona del villaggio riservata ai Dalit.

Chapati: pane indiano, simile alla piadina romagnola.

Chaia: the aromatico.

Choli: camicetta che copre il seno, lasciando scoperta la vita.

Chutney: salsine di accompagnamento al gusto di cocco, pomodoro o verdure miste.

Cidanam: forma di dote consistente nella donazione di terre o altri beni immobili da parte della famiglia della sposa a quella dello sposo.

Cittrai: primo mese del calendario tamil, va da metà aprile a metà maggio ed è particolarmente propizio per la celebrazione dei matrimoni.

CSI (Church of South India): chiesa che riunisce molti gruppi protestanti dell’area meridionale dell’India, tra cui gli anglicani, i metodisti, i congregazionali, i presbiteriani, i riformati, i battisti e i pentecostali.

Dalit: letteralmente “oppressi”, così vengono chiamate le persone fuori casta.

Dhoti: classico abito maschile indiano, consiste in una pezza di stoffa rettangolare di cotone fine, lunga tre metri e alta uno e mezzo; si annoda attorno alla vita e uno dei suoi lembi, passando tra le gambe è fissato alla cintura.

DMK (Dravida Munnetra Khazagam): uno dei due principali partiti tamil, al governo dal maggio 2006, quando ha vinto le elezioni per lo stato.

Dosai: pasta fine di riso e lenticchie cotta alla piastra.

Ganesh: dio indù dalla testa di elefante.

Gettimalam: melodia tipica suonata dalla banda all’inizio della cerimonia nuziale.

Gramdan: letteralmente “dono del villaggio”, fu il movimento lanciato da Vinoba Bhave come

Gramdan: letteralmente “dono del villaggio”, fu il movimento lanciato da Vinoba Bhave come