5. I progetti sulla Corte costituzionale presentati in sede
5.1. Le questioni di fondo
Si è notato come l’attenzione che i costituenti dedicarono alla giustizia costituzionale è caratterizzata da una certa ambiguità. L’influenza di fondamenti teorico concettuali di stampo ottocentesco, la fiducia nel ruolo del Parlamento (che mediante il sistema dei partiti si pretendeva sarebbe stato capace di risolvere i conflitti della nascente società pluralista) e la convinzione della necessità di mantenere intatta l’unità politica dello Stato, salvaguardando il principio della supremazia della legge, fece sì che il dibattito si sviluppò con un forte tasso di indeterminatezza, non andando oltre un generico favor per la garanzia costituzionale.
Che fosse necessario rinforzare la Costituzione rispetto alla legge ordinaria, appariva comunque un fatto naturale: dopo il recente passato, ove si era assistito alla soppressione dei fondamentali diritti degli individui e delle minoranze politiche, in una cornice formalmente legale, non si poteva più fare affidamento soltanto sul principio di maggioranza e sulla virtù del legislatore.
Pertanto, la previsione di un apposito procedimento per la revisione costituzionale e la previsione di un organo di garanzia rappresentava la prima e più elementare garanzia da opporre a tale eventualità. Del resto, con l’obliterazione del sistema monarchico era venuta meno l’unica realtà istituzionale in capo alla quale ascrivere l’unità del paese, peraltro dopo un complesso e travagliato percorso di liberazione nazionale.
D’altra parte, tali convinzioni furono appannate anche dalla forte presenza di partiti politici a base popolare; e in un tale contesto politico vi era una chiara ostitiltà alla teorizzazione di un’istituzione priva di diretta legittimazione democratica, viepiù se sarebbe stata in grado di ingerirsi nell’attività di indirizzo politico (di sicura spettanza del circuito Popolo-Parlamento-Governo).
Fu dunque, quello presupposto alla nascita della giustizia costituzionale, un lavorio incentrato su una condivisa posizione di fondo: la definizione della struttura della Corte costituzionale sarebbe stata una questione strettamente tecnica,
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come se, quasi inconsciamente, si volesse svalutare il problema della qualificazione e della collocazione della giustizia costituzionale nell’ordinamento.
Ciò, nonostante si stesse affrontando il problema di una disciplina che avrebbe regolato un’intera struttura organizzativa: una Corte che, prima o poi, avrebbe dovuto funzionare concretamente.
Infatti, quando la Corte Costituzionale iniziò ad operare, sotto vesti assai differenti da quelle che emergevano dai primi progetti che furono discussi, la sua attività venne a configurarsi come quella di un organo dotato di potenzialità assai più ampie di quelle che avrebbero potuto prevedere i Costituenti.
Cominciarono insomma ad affiorare, i limiti dello “strumentario giuridico tradizionale” che avevano usato per la strutturazione del nuovo organismo.
Si comprese l’impossibilità, o quanto meno l’inopportunità, di affrontare con l’ausilio dei soli mezzi tecnici, tratti da una teoria giuridica ormai risalente e inattuale, quel coacervo di problemi che il controllo di costituzionalità poneva. Questo, peraltro, non soltanto sul piano puramente teorico, ma in particolare sulla questione della armonizzazione e del corretto inserimento della ventura istituzione nel contesto istituzionale in cui andava calandosi, e in particolare con la centralità parlamentare, quale caratteristica fondante della forma di governo prescelta dai Costituenti.
Nella maggior parte dei casi, quindi, il dibattito costituente sulla giustizia
costituzionale si presenta per essere teorico-giuridico: nozioni quali
“giurisdizione”, “manifesta infondatezza”, “legittimità” e “merito” ricorrono sovente nei resoconti parlamentari e sono, invece, assai rare le valutazioni circa le implicazioni politiche e sociali del sindacato di legittimità costituzionale.
La ragione di tale concentrazione sugli aspetti tecnici sta nella fermezza dei presupposti dai quali i costituenti mossero per inferire la necessità di un controllo sul legislatore. Essi, più che trovare fondamento in una precisa concezione giuspolitica della Costituzione (ancora da riconcettualizzare o comunque soltanto in via di riconcettualizzazione), dalla quale derivare l’assetto del sindacato di legittimità sostanziale della legge, puntarono a soddisfare quelle immediate ed elementari esigenze che si presentarono con la caduta del Fascismo e con l’avvento del pluripartitismo di massa.
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Se, da un lato, si avvertiva il rischio di ingessare o irrigidire la futura Carta precostituendo degli strumenti da contrapporre ai potenziali abusi del potere legislativo, dall’altro, vi era la sentita esigenza di garantire la piena giuridicità del controllo di costituzionalità contro qualsiasi tentazione che la Corte costituzionale acquisisse, tramite l’esercizio di una così delicata funzione; una decisionalità politico-costituzionale che i nuovi protagonisti della scena politica – i partiti di massa – riconoscevano solo a se stessi.
Pur potendosi dare – e nella storia del pensiero giuridico e politico si sono certamente date – speculazioni teoriche sulla rigidità costituzionale e sulla politicità di un controllo di costituzionalità della legge, all’esigenza di istituire quest’ultimo si giunse in Assemblea Costituente non sulla base di una data ‘filosofia’ costituzionale, ma sulla scorta di elementi che la storia istituzionale italiana più o meno recente faceva ritenere evidenti e fuori discussione.
Occorre capire che quei dubbi e quelle incertezze, come anche i problemi che affanneranno i giuristi alle prese con questa parte della Costituzione, ruotano intorno ad una convinzione di fondo che albergava nei costituenti. All’idea, cioè, che il costituzionalismo contemporaneo – di cui la Costituzione repubblicana era espressione – nulla avrebbe immutato dell’immagine della funzione giurisdizionale ereditata dal passato statutario; e, di conseguenza, il controllo di costituzionalità della legge si sarebbe posto, con opportuni adeguamenti ed accorgimenti, nel solco di quella medesima immagine e sarebbe stato edificabile con gli stessi strumenti concettuali di un’esperienza giuridico-politica che, invece, si era connotata proprio per l’esclusione di qualsiasi forma di controllo giudiziario sulla legittimità sostanziale della legge.
La seconda sezione della II Sottocommissione discusse e lavorò sulla base di due progetti. Furono soprattutto due eminenti giuristi, Piero Calamandrei e Giovanni Leone a presentare gli articolati più completi. Entrambi di estrazione culturale processualistica, concentrarono molto la loro attenzione su aspetti attinenti al processo. Aspetti che possono apparire eminentemente tecnici, ma che, ad uno sguardo più approfondito, risultano interessanti alla luce dell’impatto che sarebbero stati in grado di produrre sul concreto atteggiarsi della futura Corte costituzionale.
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Va, comunque, evidenziato che in entrambe le proposte si delineò un controllo “accentrato” di costituzionalità delle leggi. Rifiutando di incaricare diffusamente tutto il ceto giudiziario, si preferì investire della relativa competenza un giudice ad
hoc. In questo è di tutta evidenza la preoccupazione o la premura di entrambi i
proponenti di salvaguardare il primato della legge, preservando dall’ingerenza dei giudici comuni le determinazioni assunte nella sede della massima espressione del potere politico legislativo271.