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La rappresentanza sindacale e l’efficacia generale dei contratti collettivi: il pubblico impiego.

Il ruolo dello Stato nella contrattazione collettiva; una possibilità per la concertazione sociale?

2. La rappresentanza sindacale e l’efficacia generale dei contratti collettivi: il pubblico impiego.

Nel settore pubblico e dei servizi vi è un’evidente crisi del sistema delle relazioni industriali poiché il modello importato dal settore privato non soddisfa le particolari caratteristiche dell’impiego pubblico che, per “l’ambiente non concorrenziale, monopolistico, quando non immediatamente politico306”, avvolge i rapporti sindacali, condizionando il comportamento degli attori collettivi.

Nel settore del pubblico impiego lo Stato, attraverso l’esecutivo, svolge un ruolo di doppio profilo: uno da mediatore del tavolo di trattativa, sia esso di contrattazione che di concertazione, e l’altro, come controparte, da datore di lavoro. Questa particolarità rende all’interno del discorso generale sulla concertazione ancora una volta una specificità nella particolarità. Infatti, la presenza del governo alle trattative comportava una bilateralità che a seconda del punto di osservazione assumeva i caratteri della trilateralità.

Le prime tappe della contrattualizzazione del pubblico impiego corrispondono con le esperienze concertative delle cosiddette leggi negoziate; le trattative con i sindacati sulla privatizzazione e contrattualizzazione del pubblico impiego erano state avviate

con i grandi accordi intercompartimentali del 1985 e 1986, stipulati sulla base del meccanismo previsto dalla legge quadro n. 93 del 1983. Successivamente con la legge del 1993 che aveva aperto alla privatizzazione del pubblico impiego e con le leggi Bassanini del 1996 e 1997 sul decentramento amministrativo che aveva coinvolto anche il sistema contrattuale pubblico.

Nel settore pubblico, anche grazie alla peculiarità della contrattazione collettiva pubblica, era riuscita l’operazione di istituzionalizzazione di una procedura efficace di verifica del consenso. La particolare natura promozionale che risiede «nell’architettura normativa pubblica e per l’approccio più elastico»307 ha consentito la costituzione di un meccanismo ascendente di consultazione funzionalizzata alla rappresentatività sindacale a livello settoriale e intersettoriale, ma che purtroppo rimarrà confinata al solo lavoro pubblico.

La legislazione dal 1993 al 2001 avevano affidato alla contrattazione collettiva la regolazione dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego, ma per l’incombere della necessità di mantenere i livelli di spesa per le retribuzioni in linea con le indicazioni di bilancio, il legislatore è stato costretto a intervenire. Non sempre la regolazione legislativa del sistema contrattuale pubblico è risultata più efficace di quella del settore privato, anzi spesso si sono create situazioni ancora più complesse poiché non rispondono alle logiche della concorrenza che spingono verso un contenimento del costo del lavoro bensì alla componente politica che in funzione dei cicli elettorali incide oltre gli «obiettivi virtuosi proclamati dal legislatore (e dai contraenti)» 308.

Per quanto riguarda il pubblico impiego la riforma del 1993 aveva visto la luce in concomitanza con la firma dell’Accordo sul costo del lavoro dello stesso anno. La riforma era stata ritenuta necessaria per porre fine a una situazione che incominciava a non essere più sostenibile. La scarsa produttività dei pubblici dipendenti e il costo del lavoro salito a livelli insostenibili per via dei rinnovi contrattuali degli anni precedenti, tanto da far saltare il rinnovo contrattuale del 1993.

Poco tempo dopo, Il d.lgs. n. 396 del 4 novembre 1997era parso, in una prima fase, un importante punto di avvio dell’estensione del modello anche al settore privato. Invece, solo successivamente ci si era accorti che nel settore privato, dove la

307 G.FONTANA, Concertazione e dialogo sociale…etc, cit., p. 9.

rigidità del un sistema sindacale era scolpita nel modello privatistico-associativo e nella astensione legislativa dell’attuazione costituzionale sulla rappresentatività, era stata confermata la divaricazione della definizione delle regole del settore privato da quello pubblico.

Il d.lgs. 396/1997 era un intervento legislativo parziale, ma significativo, sulle regole della rappresentanza sindacale è intervenuto nel pubblico impiego. Lo strumento del decreto legislativo presupponeva il ricorso a una precedente intesa sindacale; difatti, secondo la tradizione e le stesse indicazioni emerse nei precedenti storici di concertazione, i decreti del governo conseguivano a intese con le parti sociali e si basano su un nucleo di norme pre-contrattate.

La Commissione presieduta da Giugni del 1998 ha ritenuto prioritario il riordino del sistema contrattuale anziché scegliere di affrontare il tema spinoso della efficacia erga omnes, pur ritenendo valido l’utilizzo dei criteri di rappresentatività adottati nel pubblico impiego, per non accentuare le tensioni sindacali 309. Nel Patto di Natale del 1998, nonostante avesse l’ambizione di ripetere lì esperienza del 1993 non ha toccato il tema spinoso dell’ erga omnes e della rappresentatività.

Allo stesso modo anche il Libro Bianco del 2001 non ha ritenuto fondamentale affrontare il tema della rappresentatività dichiarando di non voler assumere iniziative in materia di rappresentatività degli attori negoziali poiché riteneva l’intervento legislativo sul mercato del lavoro fondato esclusivamente sul riconoscimento reciproco e incompatibile con una visione dell’autonomia collettiva che si discostasse da questo metodo.

Anzi il Libro bianco ha puntato sul tema della revisione della struttura della contrattazione collettiva definita nell’accordo trilaterale del luglio del 1993, in direzione di un maggior decentramento310. Il riferimento al decentramento contrattuale nel Libro bianco si riferiva all’intero complesso del lavoro dipendente, sia nel settore privato che di quello pubblico. Il Libro bianco però era un documento di proposta, di programmazione delle misure riformatrici da inserire in decreti attuativi, ma da quel che è risultato dal decreto legislativo attuativo del 2003 il rinvio

309 G.GIUGNI, La lunga marcia della concertazione, Bologna, 2003, p. 93 e ss.. Lo stesso autore, in

riferimento alla scelta di non affrontare il problema della rappresentatività per risolvere gran parte dei problemi della regolazione del sistema delle relazioni industriali, parla di “rimozione freudiana”.

310 L., BORDOGNA, Il decentramento della contrattazione nel settore pubblico: opportunità, condizioni e possibili effetti inattesi, in Dir. Rel. Ind., 2003, 3, p. 441 e ss..

alla contrattazione collettiva è stato meramente formale perché di fatto quel decentramento auspicato e previsto nel documento di Marco Biagi non è mai stato inserito.

Un intervento legislativo sulla struttura contrattuale ha il limite maggiore di comprimere e limitare la caratteristica forma di autoregolazione affidata alle parti sociali. Il motivo principale del successo della regolazione legislativa nel pubblico impiego è da ricondurre, principalmente, alla caratteristica strutturale della natura pubblica del datore di lavoro.

Il pubblico impiego è anche il terreno nel quale maggiormente si è perso il consenso da parte delle organizzazioni sindacali verso i propri iscritti per la cattiva gestione delle politiche di concertazione, sempre più rivolte a un sistema di cogestione sindacale delle pubbliche amministrazioni e al mantenimento di posizioni di rendita anziché svolgere una genuina funzione di tutela.

Nel 2007 il governo aveva previsto alcuni interventi nel settore della pubblica amministrazione per il tagli o dei bilanci delle amministrazioni centrali e di conseguenza di quelle locali, altri invece riguardanti sempre il settore pubblico ma il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici.

Il 2009 è stato un anno di provvedimenti importanti; ciò che duole rilevare è che l’accordo raggiunto è un accordo separato e che il governo pur avendo svolto un ruolo rilevante sia nel settore pubblico dove si presentava come datore di lavoro che nel settore privato ha posto il suo benestare

La Legge n. 15 del 4 marzo 2009 «Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei Conti»311 entra in vigore in un clima di estrema attenzione mediatica sul settore pubblico e, indipendentemente dai giudizi di apprezzamento o di dissenso, va rilevato che si tratta di una misura di rilievo destinata a produrre effetti non marginali nel rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.

Nei dibattiti che sono seguiti ma che hanno anche preceduto l’approvazione della legge delega 4 marzo 2009, n. 15 «finalizzata all’ottimizzazione della produttività del

lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni» sono emerse diverse opinioni.

C’è chi312 considera la legge delega un modello che non garantisce l’efficienza e l’efficacia dell’amministrazione pubblica, anzi rischia di ledere i principi costituzionali in materia di regolazione del lavoro e paradossalmente, con l’attuazione della riforma, il dipendente di un’amministrazione pubblica si troverebbe, sul piano contrattuale senza avere un potere collettivo similare a quello della disciplina privatistica che è governata dal mercato e quindi da un regolatore oggettivo, mentre il lavoratore pubblico che si ritrova con una contrattazione notevolmente ridimensionata rischia di rispondere prevalentemente al vertice pubblico. Ma ciò che emerge da più parti è la necessità di arrivare alla riforma in modo partecipativo perché questa nel tempo si sviluppi secondo gli obiettivi preposti. In tal senso si è espresso Bellavista313 quando sostiene che per l’efficacia di ogni progetto di riforma della pubblica amministrazione «come risulta dalla storia» sia importante un approccio partecipativo, dialogico e democratico, altrimenti si corre il rischio che gli effetti inattesi delle resistenze passive soffochino il migliore dei progetti.

Per concludere, l’attualità normativa ci consegna il decreto attuativo appena emanato (d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150) che ha modificato profondamente il testo unico sul pubblico impiego n. 165 del 2001. Le novità sembrano a una prima lettura riguardare l’introduzione di norme e indici per la misurazione, la valutazione del rendimento dei pubblici dipendenti, ovvero l’attuazione della meglio conosciuta come la “legge antifannulloni”.

312 L. Zoppoli, La contrattazione collettiva dopo la delega, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n.

87/2009, in http://www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/wp/it/zoppoli_n87-2009it.pdf

313A.Bellavista,

La figura del datore di lavoro pubblico, in

2.1. … segue il settore privato.

Il passaggio fondamentale dalla contrattazione alla concertazione314 porta a considerare con maggiore attenzione il valore che assume la negoziazione collettiva nella definizione delle regole sociali. La necessità di restituire al contratto collettivo di lavoro la funzione di operare come norma si ritrovava nel disposto dell'art. 39, ultimo comma, Cost. nonostante fosse difficile coniugare questo risultato con il principio di libertà sindacale che stava alla base del nostro ordinamento.

La regolazione della struttura contrattuale nel settore privato, come accennato sopra, è affidata alla autoregolamentazione delle parti sociali. Del resto qualsiasi intervento del legislatore diretto a regolare i rapporti esistenti tra i diversi livelli contrattuali sarebbe parziale poiché troverebbe il limite nel principio essenziale della libertà e dell’autonomia sindacale. Un limite costituzionale ma non solo, perché esso richiama una tradizione importante dei sistemi di relazioni industriali di altri paesi europei, che della libertà sindacale e dell’autonomia negoziale collettiva hanno esperienze simili alla nostra o, come il caso spagnolo, un sistema regolativo della contrattazione imponente.

«L’esperienza di questi anni ha […] dimostrato che si arriva in concreto all’estensione [dell’efficacia dei contratti collettivi], anche grazie a una interpretazione della giurisprudenza attenta alle situazioni di specie, senza necessità di strumenti particolari, sia per i contratti collettivi territoriali che per quelli aziendali»315.

I sindacati dei lavoratori hanno percepito un contrasto fra il primo comma dell’art. 39 ed i commi seguenti: «Il principio di libertà sindacale, enunziato nell’art. 39, veniva in realtà compromesso dalla previsione, pure contenuta nell’art. 39, di sindacati registrati abilitati alla conclusione di contratti collettivi con efficacia generale, cioè per tutti gli appartenenti alla categoria. Perciò nello spirito di libertà la previsione non ha trovato applicazione»316.

314 M.RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2002, p. 171. 315 F.SANTORO PASSARELLI, Autonomia collettiva e libertà sindacale, Napoli, 1985, p. 265. 316 Ibidem.

Il tema della rappresentanza sindacale e dell’efficacia i contratti collettivi317 nel sistema delle relazioni industriali ha notevole importanza. Per quanto concerne la concertazione sociale, due sono i profili: la legittimazione e la legittimità. Infatti, la rappresentanza sindacale è una condizione necessaria per la scelta degli “invitati” al tavolo della consultazione mentre il valore degli accordi assunti nelle sedi concertative deve avere corrispondenza nella realtà produttiva e sociale.

L’intervento del legislatore nella fissazione dei criteri minimi di rappresentatività sindacale rimane un fattore delicato. La strada che è stata imboccata finora con molta timidezza e per il solo pubblico impiego, ma una selezione effettiva degli interlocutori sindacali, da ambedue le parti anche dei datori di lavoro, se necessario con l’innalzamento della soglia quantitativa (di iscritti/elettori) richiesta per la rappresentatività e con una rigorosa definizione degli ambiti oggettivi per il suo calcolo, configura una condizione essenziale per poggiare il sistema contrattuale su basi solide e metterlo in grado di reggere il peso della regolazione del conflitto318.

Anche questo è un intervento sperimentato nei sistemi del pluralismo; ed è più congruo a rafforzare la capacità autoregolativa degli attori, di quanto non siano altre iniziative normative, a cominciare da quella sulle forme organizzative e sui poteri delle rappresentanze sindacali di base, che hanno finora inutilmente affaticato il nostro legislatore, messo a dura prova la già debole inclinazione unitaria del sindacato e contribuito a deteriorare le relazioni con le controparti datoriali. Si tratta di una difficoltà riscontrabile in tutti i sistemi pluralistici, che, per operare efficacemente nella regolazione, non solo del conflitto, richiedono condizioni di equilibrio nell’assetto sociale, che non sono date, ma vanno costruite anche con l’ausilio del potere politico e delle istituzioni.

Per ovviare a questo stato di cose, nel corso degli anni ‘90, molti, anche all’interno del sindacato, sono tornati a richiedere a gran voce una riforma degli assetti contrattuali e, soprattutto, una legge sulla democrazia sindacale che, sulla

317Mentre in Spagna la contrattazione ha offerto le “gambe” alla concertazione e alle decisioni prese

nell’ambito degli accordi di concertazione per estendere il consenso e trovare l’approvazione dei lavoratori e dei datori di lavoro alle iniziative del governo. Queste sono le condizioni necessarie affinché la contrattazione offra supporto al buon esito della concertazione.

318 C.CROUNCH, Relaciones industriales en Europa: del conflicto a la concertacion?, in A.ESPINA, Concertacion social…etc,,cit., p. 51 e ss..

scorta di quella emanata per il pubblico impiego, misurasse anche nel settore privato la rappresentatività sindacale.

Se alla fragile base di regole sul sistema contrattuale italiano, introdotte dall’accordo del 1993 e fino a oggi l’unica forma di regolazione, si fosse affiancato un nucleo minimo concertato ma stringente di norme con un grado di vincolatitività maggiore per le parti negoziali di quello definito nel medesimo accordo. Le regole definite nel 1993 avevano, poiché scaturite da un complesso intreccio di relazioni tra le parti sociali e il governo, si rifacevano a un modello tipico di soft-law, nel quale il carattere giuridico era scarsamente vincolante e alla fase contrattuale successiva si offrivano indicazioni e linee di indirizzo; infatti le regole definite nel 1993, seppur abbiano solo in modo parziale assolto alla loro funzione, hanno tenuto con notevole successo agli scossoni tipici delle relazioni industriali italiane proprio per il fatto che la hanno una

La struttura centrale, necessariamente concertata, che fletta sotto la pressione delle forze in gioco, ma innervato con un sistema forte e cogente nel livello di regolazione negoziale successivo avrebbe la possibilità di reggere “sismicamente” alle spinte corporative degli interessi coinvolti.

In un quadro incerto, aggravato dalla crisi finanziaria e dalle prime avvisaglie della recessione economica, si è avviata la trattativa interconfederale sulla riforma degli assetti contrattuali, dalla quale il 10 ottobre 2002 è scaturita l’intesa sulle Linee guida per la riforma della contrattazione collettiva tra Cisl, Uil e Confindustria, ma non Cgil. Sui contenuti di tale intesa qualche considerazione può essere fatta. In generale, però, e a prima vista, non sembra che le nuove regole - concordate a costo della divisione sindacale, che indebolisce tutto il sindacato e la contrattazione collettiva - siano adeguate a realizzare una reale ed efficace riforma del sistema contrattuale. Da un punto di vista giuridico, innanzitutto, le clausole di un accordo su tale materia hanno mera efficacia obbligatoria, cioè vincolano solo i soggetti (sindacali) che l’hanno sottoscritto e nessun altro. Dunque, ove si arrivasse ad un accordo finale separato, o la contrattazione collettiva dovrebbe proseguire secondo le vecchie regole o, se si volessero applicare le nuove, i contratti collettivi non sarebbero sottoscritti dalla Cgil e si produrrebbe un autentico caos negoziale. Da questo punto di vista, dunque, la riforma sarebbe inutile, anzi dannosa.

Il problema di una accordo separato nel settore privato non crea alcuna preoccupazione, mentre nel settore pubblico dove i meccanismi della rappresentanza assumono un rilievo diverso è possibile che si crei una situazione d'impasse se i sindacati non firmatari dell'accordo sui contratti

Come abbiamo visto in precedenza, gli accordi separati nell’esperienza italiana sono stati diversi: un esempio ci viene dalla recente esperienza questi ultimi due anni. Alla proposta avanzata nella prima parte del 2008 dalle più importanti organizzazioni sindacali dei lavoratori di riformare la struttura della contrattazione la risposta è venuta non dal governo in carica in quel momento ma dal successivo. Si ritiene che la risposta sarebbe stata differente se non per il fatto che i fatti che sono seguiti a quella proposta hanno ripreso la linea tracciata già in precedenza della rottura dell’unità sindacale. Allora un altro accordo separato, per gli irrigidimenti di una parte consistente del sindacato e per la chiusura del governo.

Di fronte all'accordo separato319 firmato dalla Confindustria, e dalle sigle sindacali di CISL, UIL, UGL, il ministro Sacconi annuncia una “firma storica che relegherebbe il patto del 1993 in soffitta”.

Con un pizzico di prudenza in più, anche Ichino320definisce l'accordo sui contratti un passo in avanti. «Pur con alcune ombre, continua l’autore, considero l'accordo una tappa molto importante sulla strada per rendere più efficiente e moderno il nostro sistema di relazioni industriali». L'intesa prevede che nei contratti nazionali si negozi un «elemento retributivo di garanzia destinato a scattare nei casi in cui la contrattazione aziendale non decolla. Il livello di garanzia nazionale dipenderà anche dall'entità di quell'elemento. In ogni caso lo spostamento verso la periferia del baricentro della contrattazione collettiva è indispensabile se vogliamo rivitalizzare i

319 Contratti riforma al via senza la Cgil, in La Stampa, 23 gennaio 2009, p. 5.

319 M. MARTONE, L’accordo quadro e il difficile cammino … etc., cit.,. Poi, è arrivata la crisi

economica che ha scosso gli animi e dato a (quasi) tutti il coraggio necessario a compiere scelte importanti. Come quella sottesa a questo accordo che, preso atto della ritrosia sindacale per interventi legislativi sulla rappresentanza, affronta il tema della democrazia sindacale per rimetterne la soluzione ai sindacati stessi. Visto che, come si legge nell’accordo e salvo quanto già stabilito in alcuni settori (come nell’artigianato, dell’industria, nel commercio e nel pubblico impiego), a partire dai prossimi rinnovi contrattuali (nel settore delle telecomunicazioni e degli alimentaristi nel 2009, e in tutti gli altri, a partire dal 2010), gli «accordi dovranno definire, entro tre mesi, nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva» delle diverse categorie, eventualmente ricorrendo «alla certificazione all’INPS dei dati di iscrizione sindacale».

320 P.ICHINO, Non ho più paura dei terroristi adesso fatemi parlare con le Br, in La Repubblica, 27

redditi di lavoro. Mi sembra, semmai, una svolta nell'evoluzione del sistema di relazioni industriali. L'accordo è essenzialmente frutto della convergenza tra sindacati e imprenditori».

«La firma di un accordo separato non è mai un fatto positivo», così afferma l'ex ministro del welfare Damiano321, che continua: “colpisce ed amareggia l'esultanza dei ministri di questo governo di fronte a un atto di divisione che accade in un momento che richiederebbe il massimo di unità e di convergenza del Paese per superare una crisi profonda. Al tempo stesso questo atteggiamento non ci stupisce più di tanto, perché sappiamo che la divisione del sindacato fa parte della strategia del governo. Mentre non si danno risposte ai temi dell'emergenza economica, si consuma una divisione sul modello contrattuale che produrrà un difficile governo delle relazioni sindacali e spingerà verso un'inevitabile rincorsa salariale”.

La CGIL non firma l'accordo di sei pagine, raccolti in 19 punti, che sposta sulla contrattazione aziendale la centralità che fino a oggi era affidata al contratto collettivo nazionale. L'accordo prevede che i rinnovi contrattuali, prima previsti ogni