• Non ci sono risultati.

Proteggere i rifugiati: strumenti internazionali e risposte regional

2.2 Reazioni alla Convenzione di Ginevra

Nonostante gli sforzi compiuti al fine di coprire la grande maggioranza di persone in fuga da situazioni che minacciano la propria vita, la Dichiarazione sullo Status dei Rifugiati stenta ancor oggi a trovare un riconoscimento universale. Si contano, infatti, 50 Stati107 che ancora nel 2015 mostrano la propria

disapprovazione verso questo strumento. Ciò, in realtà, non deve stupire. Il testo stesso della Convenzione e del Protocollo che ne seguì nasconde, infatti, una mancanza di regolamentazione, ad esempio, verso coloro che vivono costantemente in pericolo all’interno del proprio Stato e che, per tale motivo, non ricadono sotto la categoria dei rifugiati bensì sotto quella degli Internal Displaced

Persons (IDP) o sfollati, tecnicamente persone rifugiate dentro i loro rispettivi

Stati. A questi, la Convenzione non conferisce alcun diritto a ricevere assistenza. Oggi nel mondo ci sono circa 20 milioni di sfollati che non sono protetti da leggi internazionali, per il semplice motivo che non vi sono strumenti relativi al loro stato giuridico e vincolanti per gli Stati. Esistono, invero, dei principi guida sugli sfollati predisposti nel 1998 da Francis Deng, ex Rappresentante del Segretario Generale per gli IDP, ma gli Stati non sono obbligati in alcun modo ad aderirvi.108

Vi sono, poi, quelle parti della Convenzione che possono essere fonte di equivoci, nello specifico l’articolo 1D della Convenzione che spiega:

«Art. 1D: questa Convenzione non si applica a persone che attualmente ricevono protezione o assistenza da organi o agenzie delle Nazioni Unite diversi dall’UNHCR.»109

106 Lauterpacht e Bethlehem 2003, p. 140.

107 Afghanistan, Andorra, Arabia Saudita, Bahrain, Bangladesh, Barbados, Bhutan, Bielorussia, Brunei, Corea del Nord, Cuba, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Grenada, Guyana, India, Indonesia, Iraq, Isole Comore, Isole Marshall, Giordania, Kuwait, Laos, Libano, Libia, Malesia, Maldive, Mauritius, Myanmar, Micronesia, Moldavia, Mongolia, Nepal, Oman, Pakistan, Palau, Qatar, St. Kitts & Nevis, St. Lucia, San Marino, Singapore, Siria, Sri Lanka, Thailandia, Trinidad e Tobago, Ucraina, Uzbekistan, Vanuatu, Vietnam.

108 Al-Madmad 2008, p. 56. 109 UNHCR 1951.

Il significato finale che si può dare a quest’articolo è che taluni rifugiati, sebbene abbiano tutti gli attributi per essere definiti tali, non possono godere della protezione di questo strumento. Come dichiarato dalla nota introduttiva alla Convenzione, essa non può applicarsi ai rifugiati palestinesi che sono sotto l’egida di un’altra agenzia delle Nazioni Unite, l’UNRWA. Per sfuggire alle generalizzazioni, è bene dire che sotto l’Art. 1D ricade solo una parte dei rifugiati palestinesi. Susan Akram afferma che due sono, principalmente, i gruppi di palestinesi che beneficiano degli aiuti dell’UNRWA e quindi sono interessati dalla norma in questione:

a) Rifugiati palestinesi del 1948 e loro discendenti; b) IDP del 1967 e loro discendenti.110

Vi è, poi, un terzo gruppo, i cui individui hanno avuto sorti differenti dagli appartenenti ai gruppi a) e b), ma che sono ugualmente al di fuori dei territori palestinesi occupati da Israele a partire dal 1967, per il timore di essere perseguitati e non sono in grado o, a causa di tale timore, non vogliono tornarvi. Per questi palestinesi la validità dell’articolo 1A (2)111 resta tutt’ora in vigore: essi

possono avvalersi del titolo di rifugiato, come stipulato dalla Convenzione di Ginevra.

Il caos normativo che la Convenzione porta con sé già dal principio è, a ben vedere, il motivo per cui moltissimi Stati hanno ratificato solo una delle due versioni, come gli Stati Uniti, una democrazia occidentale che ha ratificato esclusivamente il Protocollo del 1967; numerosi Stati hanno, invece, ratificato esprimendo delle riserve in merito ad alcuni articoli: in particolare l’articolo 12, inerente lo statuto personale, non è stato accolto da nazioni quali Israele, Spagna, Svezia ed Egitto dove quest’ultimo, nella riserva, ha precisato che il suddetto articolo è in contraddizione con la legge interna dello Stato. La norma internazionale, infatti, stabilisce al comma 1 che lo statuto personale del rifugiato è governato dalla legge del paese di domicilio o residenza. Infine, ritroviamo le sopracitate 50 nazioni non firmatarie né della Convenzione né del Protocollo.

110 Akram 2011. 111 Supra, p. 45.

49 Prendendo in considerazione gli Stati arabo-musulmani, ovvero la regione MENA (Middle East North Africa), possiamo dedurre, dalle considerazioni fatte finora, che almeno due sono le ragioni del rifiuto di questi Stati membri delle Nazioni Unite ma non aderenti allo strumento modellato dall’ONU stesso:

1) Il sistema internazionale in materia di rifugiati è un prodotto della cultura politica e sociale dell’Europa e, più in generale, dell’Occidente; le norme sono state codificate da Stati o ONG occidentali, la cui concezione del diritto tende sempre più a escludere la divinità;

2) Il caos normativo e l’interferenza col diritto interno degli Stati. Se si vuole tornare ancora una volta sul caso dei palestinesi, da sempre questione fondamentale nella storia dei paesi arabi, si potrebbe argomentare che la non adesione della maggioranza di questi paesi alla Convenzione è inammissibile, dato che questo strumento legale internazionale prende le distanze dallo status attribuibile ai palestinesi. Tuttavia il timore delle nazioni arabe – soprattutto quelle ospitanti un gran numero di palestinesi – è che l’azione dell’UNHCR possa espandersi su questo popolo laddove l’UNRWA venisse dissolto.112 Con una tale procedura, la popolazione palestinese

continuerebbe ancora a lungo a risultare rifugiata negli Stati confinanti con la Palestina/Israele potendo, sì, appellarsi al loro diritto di ritornare nelle proprie terre, ma senza vedere adottata una soluzione concreta. Questo perché la Convenzione incoraggia, all’articolo 34, la naturalizzazione dei rifugiati nei territori dove sono stati accolti. In breve, costituisce una minaccia possibile all’identità palestinese.

In realtà, questa tenace opposizione ha, alla base, argomentazioni ancor più profonde. Per garantire la protezione internazionale dei rifugiati, la normativa ha approvato due regole fondamentali: l’asilo e la condivisione dell’onere d’accoglienza, ciò che in inglese è detto burden-sharing. L’asilo è l’obbligo per gli Stati partecipanti alla Convenzione di fornire protezione ai rifugiati nei loro territori. In contrasto, il burden-sharing è l’invito rivolto agli Stati immuni da

ondate migratorie a sostenere le nazioni su cui gravano imponenti flussi di rifugiati. Il problema è che mentre la normativa sull’asilo è regolamentata da un quadro giuridico ben preciso e vincola giuridicamente gli Stati, la seconda è un principio di soft law senza nessuna efficacia vincolante e non disciplinato da un quadro di leggi.113 La discrepanza tra le due norme ha serie conseguenze se si

considera che il numero di rifugiati è in aumento e che molti restano confinati nelle regioni del sud del mondo114 (cfr. global south).115 In pratica, il sud del mondo

è tenuto a fornire asilo e sostenere i costi per la protezione dei rifugiati mentre il nord del mondo, dove abitualmente non si verificano episodi che generano enormi flussi di rifugiati, non sono giuridicamente vincolati a contribuire agli oneri di accoglienza. Betts chiama questo sbilanciamento del regime internazionale in materia di rifugiati “Nord-Sud impasse”. La strategia adottata dagli Stati ricchi e industrializzati del nord del mondo consiste, solitamente, nel riempire le casse dei governi che ospitano un gran numero di rifugiati, tramite la mediazione dell’UNHCR.116 La riluttanza occidentale a ricambiare gli sforzi,

fornendo protezione ai migranti non europei sotto forma di asilo, e la natura facoltativa del contributo finanziario alle nazioni ospitanti un numero altissimo di rifugiati, spiega perché governi dei paesi in via di sviluppo hanno rifiutato, e rifiutano ancora, di diventare membri del sistema internazionale per la protezione dei rifugiati. Questo sistema risulta ai loro occhi un ordine imposto117,

stabilito da potenze occidentali senza la diretta partecipazione di molti Stati del sud del mondo.118 Con un occhio di riguardo ai paesi che in questa sede più

interessano, quelli arabi, si deduce che essi non hanno accettato questo “pacchetto” perché non sono stati persuasi dalla retorica neo-liberale occidentale, secondo cui il regime internazionale in materia di rifugiati avrebbe avuto lo scopo di condividere equamente la responsabilità e i costi.

Nel 1951, così come nel 1967, per Stati come Siria e Giordania ratificare la Convenzione significava essere giuridicamente vincolati ad assicurare una

113 Betts 2009.

114 Il sud del mondo, o global south comprende, convenzionalmente, i paesi dell’Africa, dell’America Latina e i paesi dell’Asia in via di sviluppo, incluso il Medio Oriente.

115 Betts 2009. 116 Kagan 2011, p. 3. 117 Young 1980.

51 soluzione duratura, sotto forma di integrazione locale, a centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dalla Palestina dopo le guerre arabo-israeliane del ’48 e del ’67. È risaputo, in realtà, che ciò è accaduto nonostante Siria e Giordania non abbiano sottoscritto la Convenzione: i palestinesi fuggiti verso queste due nazioni vi sono, perlopiù, rimasti. Eppure, sebbene la Giordania abbia concesso la nazionalità ai palestinesi fuggiti nel 1948, non ha mai cessato di invocare il diritto di queste persone al ritorno, né ha cancellato il loro status di rifugiati.119