1.2 I Disability Studies
1.2.3 Relational Model
334 Cfr. Ivi; Gerben G. Dejong, M.P.A. Independent living. From social movement to analytic
paradigm, in «Arch Phys Med Rehabil», n. 60, 1979, pp. 435-446.
335 E. Valtellina, Storie dei Disability Studies, cit., p. 41.
336 Luca Pampaloni, militante politico e intellettuale colpito da una forma di disabilità piuttosto
grave, è tra i fondatori dell’Associazione Vita Indipendente in Toscana.
Negli anni Ottanta del secolo scorso nei paesi del Nord Europa si è sviluppato il relational model originato dalla precedente intuizione detta della normalizzazione, intesa come intervento della società a supporto delle disabilità che ha attivato un sistema di welfare particolarmente significativo338 e riscontrabile solo in questi Paesi. Questo modello, che si innesta su un contesto in cui lo stato sociale del cittadino è supportato con un corposo sistema di interventi, considera la disabilità come un fenomeno contestuale e situazionale generato dalla mancata correlazione tra persona e ambiente. In questa prospettiva la disabilità nasce nella relazione tra la persona con disabilità e il contesto in cui vive, ovvero tra le difficoltà della persona e l’ambiente che può fungere da facilitatore oppure porre barriere ed ostacoli alla partecipazione della persona stessa.
Esso ritiene inoltre che nessuna teoria, approccio, metodo o modello possa portare a tutte le risposte e divenire così modello di riferimento ma che si debbano utilizzare diversi modi e approcci e continuare a cercarne di nuovi in quanto la complessità dell’esistenza umana per sua natura, al di là della disabilità, richiede metodi e approcci multipli e complessi 339.
Questo modello vede l’origine della disabilità nella relazione tra persona e ambiente, ovvero tra il funzionamento dell’individuo e le richieste della società e dell’ambiente340, posizione sostenuta anche da T. Shakespeare che, abbandonato l’approccio sociale forte a cui faceva riferimento, propone una nuova visione della disabilità.
L’approccio alla disabilità che propongo di adottare vede sempre la disabilità come interazione tra fattori individuali e strutturali. Anziché fossilizzarsi sul definire la disabilità come un deficit o uno svantaggio culturale, o in alternativa come prodotto del discorso culturale, occorre una concezione olistica. In altre parole, l’esperienza di una persona disabile risulta dal rapporto fra fattori intrinseci dell’individuo e fattori estrinseci che nascono dal contesto più ampio in cui si trova. Tra i fattori intrinseci figurano temi come: la natura e la gravità della menomazione, l’atteggiamento dell’individuo verso la menomazione, le qualità e abilità personali e la personalità. Io
338 Cfr. W. Wolfensberger, Normalization. The Principle of Normalization in Human Services,
National Institute on Mental Retardation, Toronto, 1972.
339 Cfr. A. Gustavsson, The role of theory in disability research. Springboard or strait-jacket? In
«Scandinavian Journal of Disability Research, Special Issue», Understanding Disability, 6(1), 2004, pp. 55-70; J. Tøssebro, Understanding disability. Introduction to the special issues of SJDR, in «Scandinavian Journal of Disability Research, Special Issue», Understanding Disability. 6(1), 2004, pp. 3-7.
340 Cfr. R. Mallett, K. Runswick-Cole, Approaching Disability: Critical Issues and Perspectives,
accetto che i fattori contestuali possano influenzare questi fattori intrinseci: la menomazione può essere causata dalla povertà o dalla guerra; la personalità può essere influenzata dall’educazione e dalla cultura, e così via. Tra i fattori contestuali figurano: gli atteggiamenti e le reazioni degli altri, l’influenza abilitante o disabilitante dell’ambiente, nonché i più ampi problemi culturali, sociali ed economici che si ripercuotono sulla disabilità all’interno della società341.
Secondo l’autore quindi “le persone sono rese disabili sia dalla società sia dal proprio corpo”342 come risultato di una relazione tra “fattori intrinseci (menomazione, personalità, motivazione, ecc.) e fattori estrinseci (ambienti, sistemi di supporto, oppressione, ecc.)”343 ovvero “come il risultato dell’interazione tra fattori individuali e contestuali”344. Lo studioso fa inoltre esplicito riferimento al modello relazionale nordico e a ciò che C. Thomas definisce come ‘effetti della menomazione’345 anche se riconosce che “la menomazione è un fattore necessario ma non sufficiente”346 per poter comprendere cosa realmente sia la disabilità. Questa visione fornisce elementi di continuità con la concezione di disabilità sostenuta dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute – ICF con il modello bio-psico- sociale. È ancora lo stesso T. Shakespeare ad evidenziare che il modello bio-psico- sociale non situa mai la disabilità né nel solo individuo né nel solo ambiente, ma nella relazione tra questi due fattori e nella gestione dei processi di questa inevitabile relazione347.
Nel proseguo del suo lavoro l’autore solleva la questione delle disabilità gravi, che necessitano di maggiori e differenti interventi e ritiene utopica e parzialmente inutile la rimozione di tutte le barriere nell’ottica dell’universal disign in quanto esisterà sempre un essere umano che, con le proprie caratteristiche individuali, potrebbe non rientrare nell’universalità di questa nuova società348. Coerentemente con la propria visione relazionale, confuta quindi sia l’idea per la quale tutti gli esseri umani siano
341 T. Shakespeare, Disability Rights and Wrong revisited. Second edition, Routledge, London and
New York, 2014, trad. it., Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali, cit., p. 106.
342 Ivi, p. 107. 343 Ivi, p. 108. 344 Ivi, p. 110.
345 Cfr. C. Thomas, Female forms. Experiencing and understending disability, Open University
Press, Buckingham, 1999; C. Thomas, Sociologies of Disability and Illness: Contested ideas in disability studies and medical sociology, cit.
346 T. Shakespeare, Disability Rights and Wrong revisited. Second edition, Routledge, London and
New York, 2014, trad. it., Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali, cit., p. 107.
347 Cfr. Ivi. 348 Cfr. Ivi.
uguali (riconoscendo come uguale solo il valore morale) sia l’idea che possa esistere un mondo artificialmente universale: “porre fine al disabilismo – l’ingiusta discriminazione contro i disabili – non risolverà tutti i problemi delle persone disabili. Anche se gli ambienti e i trasporti fossero accessibili e non ci fosse una discriminazione iniqua basata sulla disabilità, tante persone disabili sarebbero ancora svantaggiate”349.
Seguendo il pensiero dell’autore si giunge a dover trattare una questione indispensabile per comprendere l’approccio relazionale attraverso il concetto di equità. T. Shakespeare ritiene che “se i disabili hanno lo stesso valore morale dei non disabili – e politicamente sono considerati uguali come cittadini – allora, perché ci sia giustizia, le disposizioni sociali devono compensare le menomazioni causate dalla lotteria naturale e sociale. Non basta creare un campo di gioco uguale per tutti: occorre ridistribuzione per promuovere la vera inclusione sociale”350. Il passaggio ritenuto indispensabile è quello di abbandonare la visione egualitaria e di pari opportunità per approdare a quella di ridistribuzione, nella consapevolezza che questa operazione presuppone l’impiego di molte risorse da parte di una società che voglia intraprendere questo percorso351.
A tal proposito J. Bickenbach sostiene che “negare opportunità e risorse non è un problema di discriminazione, ma di ingiustizia distributiva: una distribuzione iniqua delle risorse e opportunità sociali che si traduce in limiti per la partecipazione a tutte le aree della vita sociale”352.
L’approccio del Nord Europa sembra quindi rispondere a questa visione tramite l’attivazione di un sistema di welfare state volto a garantire una redistribuzione equa delle risorse e degli interventi che si basa però su interpretazioni e etichette mediche e psicologiche353. È opinione di F. Monceri che “il discorso italiano sulla «disabilità» possa essere ricondotto in generale all’adesione, nella maggior parte dei casi implicita e che sarebbe forse anche esplicitamente negata, a un modello che pare affine a quello «relazionale» in uso nei paesi nordici”354.
349 Ivi, p. 123. 350 Ivi, p. 125. 351 Cfr. Ivi.
352 J. E. Bickenbach, Physical disability and social policy, University of Toronto Press, Toronto,
1993, p. 110.
353 Cfr. C. Barnes, Understanding the Social Model of Disability. Past, Present and Future, cit. 354 F. Monceri, Etica e disabilità, cit., p. 48.
Il modello relazionale sembra incontrare molti sostenitori anche in relazione a quella che D. Goodley chiama ‘svolta realista’, ovvero il riconoscimento della menomazione, sguardo che però porta a riaprire le porte al modello medico- individuale355. Rischio ben rappresentato da quanto sostiene T. Shakespeare nel momento in cui si riferisce alle diversità funzionali come problemi, sostenendo che “la realtà è che le persone disabili sono afflitte dai problemi fisici e psicologici tanto quanto dalle barriere esterne”356. L’autore sembra porre sullo stesso livello la responsabilità sociale e quella che lui stesso definisce ‘lotteria naturale’, riaprendo così ad una qualche forma di responsabilità individuale legata a qualche attributo, ritenuto problematico, di una singola persona. Per cui, a fronte di un’innegabile responsabilità sociale corrisponderebbe, in una relazione bidirezionale, una responsabilità soggettiva,
nel senso che anche l’individuo intralciato deve in qualche modo adeguarsi a un concetto di «normalità», che nel suo caso viene impedito dal fatto stesso dell’intralcio. Ne consegue che in questo tipo di modello, in tutte le sue varie forme, rimane presente, per quanto lo si possa negare, una sorta d’imperativo alla «normalizzazione» come ideale che l’individuo disabilitato deve perseguire, attraverso un superamento dell’intralcio in virtù d’interventi medici che dovrebbero condurre quell’individuo a vivere una vita il più possibile «normale», il che significa una vita che ricada entro l’intervallo di valori definiti normali dall’imperativo dell’abilità357.
In questa direzione sembra andare il concetto di ‘accomodamento ragionevole’ la cui definizione è stata fornita dalla Convenzione O.N.U. sul diritto alle Persone con Disabilità dove si può leggere che l’accomodamento ragionevole “indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali”358.
Questo modello riscuote diverse adesioni e risulta socialmente funzionale e moralmente accettabile se posto in contrapposizione con il modello medico-individuale. Nella sua forma attuale risulta però fondato sulla concezione bio-psico-sociale della ‘disabilità’ che vede l’impairment come ‘menomazione’ “sulla quale è necessario
355 Cfr. D. Goodley, Disability Studies. An interdisciplinary introduction, cit.
356 T. Shakespeare, Disability Rights and Wrong revisited. Second edition, Routledge, London and
New York, 2014, trad. it. Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali, cit., p. 115.
357 F. Monceri, Etica e disabilità, cit., pp. 49-50.
intervenire sulla base del sapere medico attualmente disponibile e della sua autorità […] [in] una rinnovata riconduzione all’imperativo dell’abilità, che viene soltanto mascherato dal riferimento a una «natura relazionale» della disabilitazione, perché essa continua a riproporre il radicamento dell’intralcio in una realtà totalmente indipendente da qualsiasi giudizio di valore culturale, in quanto mero dato di fatto biologico”359.