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LA RETORICA RISTRETTA E L’ENIGMA METAFORA DA ARISTOTELE AL COGNITIVISMO

2. RETORICA E RAZIONALITA’: UNA BREVE STORIA

2.1 Da Aristotele al mondo latino

L’histoire de la rhétorique c’est l’histoire de la peau de chagrin1.

Ricoeur cita Balzac, a sua volta citato da Genette2, quando, all’inizio di uno dei più importanti studi sulla metafora, illustra lo sviluppo storico della retorica. Come la pelle di zigrino, infatti, la retorica è stata oggetto di un progressivo restringimento, tanto da giustificare la nota definizione di Genette di retorica ristretta3.

La riduzione lamentata da Genette, e su cui c’è un generale accordo tra gli studiosi, coinvolge le cinque parti che tradizionalmente4 costituiscono la retorica: inventio, dispositio, elocutio, actio, memoria. Le prime tre parti si riferiscono alle tre fasi di costruzione del discorso; le ultime due riguardano quella che oggi potremmo definire la performance dell’oratore. L’aspetto pratico, l’uso della retorica, la funzione sociale e politica che essa svolgeva nella Grecia antica sono fondamentali sia per capire la struttura interna della disciplina, sia per comprendere il rapporto di complementarietà e opposizione che si instaurava con la filosofia, la logica, la poetica, la dialettica. Ricoeur5, su questo punto, ripercorre il testo di Aristotele, inevitabile punto di partenza per ogni discorso intorno alla retorica, il quale distingue l’uso del discorso nei due diversi ambiti della retorica e della poetica. L’argomentazione retorica ha come fine la persuasione e si basa, dunque, su alcune prove che mirano ad ottenere il consenso dell’uditorio; il discorso poetico, al contrario, ha una funzione catartica, dunque una struttura e un fine completamente diverso.

La retorica, continua Ricoeur, è, al contempo, la più vecchia alleata e la più vecchia nemica della filosofia6. Platone la condannava in quanto contraffazione della giustizia e analogo della culinaria, che corrispondeva alla contraffazione della medicina, (così come la sofistica, contraffazione della legislazione è l’analogo

1 P. Ricoeur, La Métaphore Vive, Parigi, Seuil, 1975, p. 13. Trad. It., La Metafora Viva. Dalla retorica

alla poetica : per un linguaggio di rivelazione, Milano, Jaca Book, 1976.

2 G. Genette, Rhétorique restreinte, «Communications», 16, Parigi, Seuil, 1970, pp. 158-171. 3 Ivi.

4 Sarà il trattato Rhetorica ad Herennium di Cornificio a fissare le cinque parti della retorica (cfr. più

avanti). Aristotele comprendeva, invece, tre grandi aree: inventio, elocutio, compositio.

5 P. Ricoeur, La Metafora Viva, op. cit. 6 P. Ricoeur, ivi, p. 11.

dell’arte dell’agghindarsi, che corrisponde alla contraffazione della ginnastica7). La

contrapposizione della retorica alla filosofia si basa sul principio che il “dire bene” può non corrispondere al “dire il vero”, fine del discorso filosofico. Il grande merito di Aristotele è l’aver cercato di definire la retorica non in opposizione, ma a partire dalla filosofia, ridefinendo in termini filosofici il concetto di probabile e verosimile. Il discorso retorico, come abbiamo già ricordato, è inscindibile dalla sua funzione sociale e pubblica. Le decisioni che si discutono rientrano nel dominio della doxa, dell’opinione suscettibile di cambiamento e non rispondente ad una verità assoluta. La retorica non si occupa dell’episteme, ma non per questo è da considerarsi un genere inferiore. Il pericolo della manipolazione, dell’adulazione e della seduzione non è costitutivo della retorica, ma deriva dal suo uso improprio. È invece necessario, soprattutto nelle questioni giudiziarie, “attirare a sé l’ascoltatore8” attraverso tecniche precise. Scrive Aristotele:

poiché è evidente che il metodo tecnico concerne le persuasioni, che la persuasione è un tipo di dimostrazione (è soprattutto allora, infatti, che persuadiamo, quando cioè supponiamo di aver dimostrato), che una dimostrazione retorica è un entimema e questo, per esprimerci brevemente, è il più importante tra le persuasioni, che l’entimema è un tipo di sillogismo, che è compito della dialettica speculare parimenti attorno ad ogni sillogismo […] È chiaro che colui che soprattutto è in grado di scorgere questo, vale a dire da quali cose e come si produce un sillogismo, costui sarà soprattutto atto a costruire entimemi, se in più ha compreso intorno a quali cose verte l’entimema e quali differenze ha rispetto ai discorsi sillogistici. In effetti è proprio della medesima facoltà scorgere sia il vero che ciò che è simile al vero, e al tempo stesso gli uomini sono sufficientemente in rapporto con il vero e il più delle volte conseguono la verità. Per questo l’essere nella condizione di ben mirare rispetto alle opinioni notevoli è proprio di chi si trova in una condizione simile anche rispetto alla verità.9

In questo passo si mette in evidenza il rapporto tra retorica e filosofia mediante due importanti parallelismi: tra entimema e sillogismo; tra ciò che è vero e ciò che è simile al vero. La dialettica, intesa generalmente come argomentazione, è il ponte che collega le due discipline, sebbene queste abbiano ambiti e scopi differenti. Eppure, si evince da Aristotele, esiste un legame tra chi segue i principi della filosofia e chi

7 Platone, Gorgia, 464 b.

8 Aristotele, Retorica, I, 1354b 30, trad. it. A cura di M. Zanatta, Torino, Utet, 2006, p. 144. 9 Aristotele, Retorica, I, 1355a 5-15, trad. it. A cura di M. Zanatta, op. cit., pp. 144-145.

pratica la tecnica retorica della persuasione: il discorso sarà infatti maggiormente persuasivo quanto più sarà capace di dimostrare la sua tesi, e tale dimostrazione sarà tanto più solida quanto più si avvicinerà al vero.

La distinzione dei campi, dunque, non sancisce una contrapposizione tra filosofia e retorica, quanto invece una sorta di loro complementarietà. È da questa complementarietà che nasce la rifondazione della retorica a partire dalla filosofia.

Il rimando alla tecnica e l’insistenza sull’entimema come principio della persuasione ribadiscono anche il profondo rapporto della retorica con la logica. Tuttavia, non è possibile, in ambito retorico, ricorrere a una pura logica formale, slegata dal contesto e dai contenuti. Per evitare il pericolo e le insidie di una retorica vuota, Aristotele raccomanda all’oratore una precisa preparazione a seconda che si occupi di un genere deliberativo, epidittico o giudiziario. Economia, strategia, politica, saranno i domini di competenza per un discorso deliberativo; una base di etica è necessaria per un’orazione epidittica; per esprimersi in un contesto giudiziario, oltre alla conoscenza delle leggi, sarà utile quella che potremmo definire una competenza psicologica, legata alla comprensione del comportamento umano in relazione a diversi fattori quali la natura, l’abitudine, la costrizione, il caso, il desiderio. La retorica deve quindi comprendere una vasta conoscenza della natura umana e, soprattutto, della predisposizione del pubblico al quale si rivolge. Nella descrizione dell’entimema emerge con forza proprio questa necessità. Infatti, è riduttivo e impreciso sostenere che, rispetto al sillogismo, le premesse maggiori dell’entimema non sono certe ma probabili; queste, infatti, devono essere note, accettate e condivise dall’uditorio, altrimenti il ragionamento sarà inefficace, se non addirittura controproducente. Se, dunque, l’approssimazione al vero contribuisce a costruire un’argomentazione solida, la conoscenza delle opinioni e delle predisposizioni del pubblico sarà decisiva per decretarne il successo.

Diversamente da altre posizioni aristoteliche, queste indicazioni non avranno un largo seguito nei secoli successivi. La retorica e la filosofia tenderanno a prendere strade diverse; di conseguenza, il rapporto della retorica con il vero e con la logica della dimostrazione diventerà sempre più labile fino a cadere del tutto.

Una causa decisiva è sicuramente rintracciabile nel mutamento del ruolo politico della retorica: la parola perse il suo potere quando l’eloquenza smise di essere pubblica. La presenza del pubblico, come abbiamo visto, giustificava e determinava l’uso della retorica. Con la sua scomparsa l’equilibrio tra la persuasione basata

sull’entimema, sulla necessità di dimostrare una tesi attraverso delle prove e l’uso delle varie tecniche retoriche, si sbilancia sempre più verso un abuso di queste ultime.

Nella retorica aristotelica manca, in realtà, una definizione puntuale di tali tecniche, se per tecniche intendiamo quelle che verranno classificate, secondo criteri mai del tutto univoci, figure retoriche e tropi. L’opera aristotelica dedica i primi due libri alla fase dell’inventio; in questa fase, troviamo oltre alle indicazioni per l’oratore cui si è già accennato, anche un’accurata trattazione delle passioni umane, che si giustificano alla luce del discorso fatto a proposito della conoscenza del pubblico e della necessità di definirlo in modo preciso in funzione del contesto, dell’età, della condizione sociale. La retorica aristotelica enfatizza, da questo punto di vista, il contatto necessario tra gli uomini, tra oratore e pubblico. Un contatto basato sulla condivisione non solo di doxai ma di emozioni e passioni.

Ancora nel secondo libro, vengono inoltre esposti i topoi, luoghi argomentativi, 28 in tutto, a partire dai quali è possibile costruire entimemi. Nel terzo libro si affrontano, invece, questioni che riguardano la dispositio, l’elocutio e la pronunciatio. Si nota un disequilibrio quantitativo tra lo spazio dedicato all’inventio rispetto alle altri parti; in particolare, è da segnalare il rapporto tra inventio-elocutio, in quanto sarà proprio attorno a questo binomio che si articolerò il dibattito nei secoli successivi.

Aristotele dedica, dunque, ampio spazio al rapporto globale tra retorica, dialettica, filosofia, che risulta essere paritario se non addirittura complementare; tratta approfonditamente il problema della scelta degli argomenti e della loro organizzazione e riconosce al pubblico un ruolo fondamentale e decisivo.

La tradizione latina, tuttavia, non recepisce del tutto questa impostazione, a causa anche dell’influenza che la scuola platonica e, in seguito, le altre scuole retoriche sviluppatesi dopo Aristotele ebbero sulla valutazione generale della retorica greca.

Per quanto riguarda la sistemazione e l’organizzazione delle parti della retorica, un’opera fondamentale è certamente la Rhetorica ad Herennium, per anni erroneamente attribuita al giovane Cicerone, ma con maggiore probabilità redatta da Cornificio10. Il trattato istituzionalizza la nomenclatura latina della retorica, basandosi su calchi e traduzioni dal greco. Il maggiore contributo dell’opera è un’ampia parte

dedicata alla memoria; in questo, l’autore prosegue una tradizione sicuramente di origine greca, ma ha il merito di rendere ufficiale il ruolo della memoria come quinta parte della retorica.

Cicerone rimane, ad ogni modo, la figura cardine della retorica latina, che mantiene il primato come arte delle arti, al servizio dell’impegno pubblico del civis romano. Nel De Oratore11, Cicerone muove da un’aspra critica verso i greci,

colpevoli di aver operato una separazione tra verba e res iniziata con Socrate e Platone e consolidatasi con gli stoici, con il risultato di aver privilegiato l’elocutio rispetto alle altre parti. Per bocca di Crasso, alter ego dell’autore, egli insiste sulla necessità di una retorica non ridotta a pura forma e puro significante. Sul modello aristotelico, la filosofia deve tornare ad essere naturale alleata della retorica, e l’oratore deve essere un uomo esperto in varie discipline per essere capace di padroneggiare correttamente la materia durante le orazioni. Antonio, interlocutore di Crasso nella finzione del De Oratore, ribatte rilevando la difficoltà di un tale compito ed esaltando il ruolo dell’eloquenza; se avrà bisogno di nozioni particolari, l’oratore ricorrerà a degli specialisti. Più avanti nell’opera, tuttavia, Antonio si fa più cauto, discute in modo puntuale dell’inventio e della dispositio, ma esaltando l’ingenium dell’oratore e la sua capacità di adattarsi alla causa, senza dover seguire delle regole come in un manuale. L’oratore ha il dovere di assolvere il triplice scopo di docere – movere – delectare, ma per perseguire tali fini gli è concessa una certa libertà. Crasso conclude l’orazione affrontando i problemi dell’elocutio e dell’actio.

Sebbene Cicerone dimostri quanto la tradizione aristotelica fosse stata offuscata da altre impostazioni, soprattutto dallo stoicismo, possiamo sostenere che, all’altezza del I secolo avanti Cristo, il ruolo della retorica fosse ancora profondamente legato all’impegno pratico e civile e che anzi se ne biasimasse l’uso ornamentale e fine a se stesso. Non solo, era biasimata anche l’eccessiva pedanteria: la retorica non è ancora concepita come una raccolta di regole e indicazioni da manuale; ad una conoscenza puntuale delle tradizionali parti e delle varie strategie si accompagna l’abilità dell’oratore di strutturare il discorso liberamente, a seconda della materia trattata e del pubblico. La retorica non ha quindi perso il suo valore comunicativo e trae ancora la sua ragion d’essere dal rapporto tra l’oratore e il pubblico, dalle finalità pubbliche, politiche e sociali del suo impiego.

Nel giro di pochi decenni, però, le cose cambiano: sull’asianesimo ciceroniano, corrispondente ad uno stile ampio e articolato, prevale l’atticismo, più snello, agile, per un pubblico più esigente che non sopporta più le ampollosità degli “antichi”. Con il passaggio dalla Repubblica al Principato, la retorica ha perso la sua funzione, in quanto non è più un mezzo essenziale per affermarsi e viene dunque ridotta a un mero gioco ornamentale da parte di una gioventù che ha ben lontani i principi del civis. Il passaggio d’epoca è sancito dall’Institutio Oratoria di Quintiliano, in cui viene dichiarata la nostalgia per il passato ma che già si configura come una raccolta enciclopedica di indicazioni, seppur di straordinario acume12.

Da questo momento in poi, il rapporto tra retorica, dialettica, poetica e filosofia sarà sempre di opposizione ed esclusione reciproca; le varie epoche, come brevemente cercheremo di illustrare, privilegiarono la dialettica e la poetica, a discapito della retorica, mentre la filosofia costituì quasi sempre un’avversaria ostile e sospettosa. Il cristianesimo contribuì al bando della retorica che, in quanto scienza del probabile, certo non si sposava con le professioni di fede e le verità dogmatiche. Tuttavia, la sopravvivenza della retorica deriva soprattutto da un paradosso: per quanto fosse denigrata, emarginata, subordinata, non si poteva prescindere dalla sua presenza in ogni testo o discorso13. Il problema fu più spesso quello di imporle una misura e un ruolo che fosse consono alle convinzioni e alle mutevoli esigenze culturali. Negato il suo valore conoscitivo e pratico, la retorica arriva all’XI secolo sottoforma di manuali che ne accentuano il carattere nozionistico: ne conservano, cioè, tutto l’apparato formale svuotandolo di funzione e contenuto.

2.2 La dissociazione della sensibilità

A partire dal Duecento, l’interesse per le discipline analitiche, fisica e matematica, marca un confine tra il pensiero scientifico e il pensiero retorico. La dialettica, associata sempre di più alla logica, si allontana dalla pratica retorica. Il rapporto tra le due discipline rimase conflittuale per tutto l’Umanesimo. Un tentativo di recupero del valore pratico della retorica si ebbe con Lorenzo Valla14, il quale

12 Cfr. R. Barilli, Retorica, Milano, ISEDI, 1979.

13 L’Apologeticum di Tertulliano (II secolo d.c.), accorata difesa contro le terribili e assurde accuse

mosse ai cristiani, altro non è che un perfetto esempio di retorica giudiziaria. Cfr. R. Barilli, Retorica, op. cit., p. 50.

ribadisce la condanna di eccessiva astrazione verso Aristotele e rilancia l’ideale ciceroniano di orator dux populi. Nella sua visione, egli riesce ad integrare anche la teologia, di cui è giusto parlare con uno stile degno e magnifico, lodando, in questo modo lo stile dei Patres e biasimando la scolastica. Sempre nel Quattrocento, la retorica viene fortemente rivalutata in ambito pedagogico, grazie alla scoperta, da parte di Poggio Bracciolini, di una copia completa dell’Insitutio Oratoria di Quintilliano. L’influenza sulla maggior parte dei pensatori è immediata: si tenta di ricomporre la frattura tra retorica e logica, restituendo dignità e valore conoscitivo sia all’inventio che all’elocutio. Il deciso recupero del ciceronismo in età umanistica ebbe tra i suoi effetti addirittura una prevalenza della retorica sulla dialettica15, sempre più associata all’astrattismo teorico aristotelico.

Che retorica e dialettica fossero bene separate e distinte viene ribadito dalla permanenza dello schema del Trivio, in cui le due discipline compaiono insieme alla grammatica. Ma nel Cinquecento avviene la prima vera frattura funzionale tra le due, ad opera principalmente di Ramo16. Questi attribuisce alla dialettica le parti logiche della retorica, cioè inventio e dispositio, lasciandole la sola elocutio. Si vede qui come il ciceronismo abbia esaurito la propria forza e come venga ufficializzata quella spaccatura tra teoria e pratica, tra verba et res lamentata dallo stesso Cicerone e fragilmente ricomposta nel Quattrocento.

Nello stesso periodo, anche il rapporto tra retorica e poetica entra in crisi. Eccezion fatta per la posizione del Valla, la tendenza, a partire dal primo umanesimo, fu quella di privilegiare una poesia sobria e misurata. Nel Cinquecento sono due i fattori che determino l’ulteriore caduta della retorica anche rispetto alla poesia. Il primo fu il recupero dell’aristotelica poetica del verosimile, propugnata in particolar modo da Castelvetro. L’obbligo per il buon poeta diventa l’attinenza ai fatti e alla realtà. Il suo fine non è più di tipo formale e, di conseguenza, i precetti del bene dicere subiscono un declino. I giudizi espressi nell’ Esaminazione sopra la retorica a Caio Erennio, sono in linea con la posizione ramista e, come fa notare Barilli, rispondono a un pensiero moderno di tipo precartesiano17. Il secondo fattore determinante è la diffusione della stampa che cambia in modo decisivo le modalità di fruizione del testo e quindi anche il modo di concepirlo. Da una parte, infatti, il testo,

15 Cfr. Nizolio, De Veriis Principiis et Vera Ratione Philosophandi contra Pseudophilosophos Libri IV.

Cfr. R. Barilli, Retorica, op. cit., p. 77.

16 P. de la Ramée, Dialectique, 1555. Cfr. R. Barilli, Retorica, op. cit., p. 81. 17 R. Barilli, Retorica, op. cit., p. 84.

anche in seguito alla sua disposizione tipografica, mostra una preferenza per la linearità e l’asciuttezza; dall’altra, la lettura come meditazione, come ricerca del vero, si impone come un momento privato, un rito da celebrare in solitudine. La parola letta sostituisce quella parlata, e si spoglia dalle sue componenti acustiche per diventare un fenomeno più che altro visivo. Ulteriore motivo, questo, di decadenza e declino della retorica, anche nella sua dimensione più squisitamente stilistica. Altra conseguenza, più profonda, messa in luce da McLuhan ne La Galassia Gutenberg18, fu la

separazione dell’aspetto logico, lineare, da quello emozionale e istintuale, con una predilezione per il primo che portò a una relegazione del secondo nel mondo dell’inconscio. L’uomo moderno è l’individualista borghese, futuro protagonista della rivoluzione industriale, dominatore della natura; ma è anche colui che reprime le pulsioni estetiche trasformandole in nevrosi.

Il Seicento è una tappa decisiva nello sviluppo del rapporto retorica-pensiero che stiamo cercando di delineare in queste pagine. Le dissociazione e le amputazioni subite dalla retorica nei secoli precedenti vengono acuite e portare alle estreme conseguenze. Lo spirito seicentesco è, infatti, per lo più logico-matematico, analitico, razionale. Scrittori e poeti si oppongono, però, alla tendenza razionalista, valorizzando la dinamicità e la brillantezza dell’ingegno, luogo d’incontro della versatilità e della perspicacia. Ai ragionamenti lineari, lenti e logici viene contrapposta una via diversa per arrivare alla verità, una conoscenza che passa attraverso la rapidità delle associazioni mentali tra le idee. Tesauro, Pellegrini e Pallavicino sono forse, in Italia, gli esponenti principali di questa sfida al razionalismo che sfocerà nel Barocco. Le “acutezze” sono lo strumento retorico attraverso cui raggiungere una nuova conoscenza, a cui viene aggiunto un ulteriore valore dato dalla bellezza. È il momento in cui si ricongiungono docere e delectare. Tale ricongiungimento si nota anche nelle posizioni dei pensatori del Seicento sul ruolo didattico e pedagogico della retorica. Essa viene considerata come sintesi superiore di tutte le arti e delle scienze, da porsi, dunque, alla fine del curriculum didattico19.

Tuttavia, Cartesio influenzerà in modo determinante il pensiero filosofico e scientifico dell’età moderna, contribuendo alla decisiva condanna della retorica. Egli respinge, infatti, l’intera categoria concettuale del probabile. Il filosofo, lo scienziato, il pensatore non devono persuadere ma dimostrare, esporre in modo chiaro e distinto

18 M. McLuhan, La Galassia Gutenberg, Roma, Armando, 1995. 19 R. Barilli, Retorica, op. cit., p. 93.

il loro ragionamento, per cui non devono occuparsi dello stile. La retorica, la dialettica, le funzioni emotive del delectare e del movere diventano del tutto inutili. La sfera delle passioni, del sensibile e del corporale, non è ignorata, ma presa in considerazione in modo forse più radicale e dannoso. Essa è invariabilmente indicata come l’“altro”; ne viene riconosciuta l’esistenza ma anche la netta inferiorità, se non