• Non ci sono risultati.

UNA TEORIA USAGE-BASED PER L’APPRENDIMENTO LINGUISTICO

CAPITOLO III METAFORA E DIDATTICA

2. UNA TEORIA USAGE-BASED PER L’APPRENDIMENTO LINGUISTICO

Fodor, uno dei più importanti esponenti del cognitivismo classico e tra i più forti sostenitori della teoria dell’innatismo, elabora un modello di sviluppo fondato sul principio della mente modulare1. Secondo Fodor, la mente è divisa in moduli, incapsulatori di informazioni, specificatamente deputati a codificare ed elaborare i dati di un preciso ambito: esisterebbe, dunque, un modulo per il linguaggio, uno per il calcolo e così via. I moduli sono innati e indipendenti l’uno dall’altro. L’unico comune denominatore tra i diversi moduli è una sorta di sistema centrale che elabora le informazioni e le converte in un linguaggio di tipo proposizionale, che Fodor chiama, suggestivamente, mentalese.

La mente sarebbe dunque preimpostata per ricevere determinati stimoli, suddivisi per tipologia; l’apprendimento si configura, quindi, come un’attivazione dei vari moduli e delle loro capacità di elaborazione. In questo modello notiamo un’applicazione concreta della metafora della mente-computer: i moduli corrispondono a software specifici che elaborano i dati ricavati dall’ambiente; quest’ultimo non ha un ruolo significativo nel processo di apprendimento. La conoscenza che deriva dal modello modulare innatista non può essere che di tipo procedurale: quando il bambino si trova ad affrontare un problema, cerca una regola da applicare. Nel caso del linguaggio, possiamo fornire l’esempio del passato dei verbi irregolari: se il bambino non conosce il passato del verbo “coprire”, applicherà di default la regola dei verbi regolare in –ire e produrrà la forma scorretta “coprito”. La forma corretta sarà riprodotta solo quando il bambino avrà imparato tutti i paradigmi dei verbi irregolari2.

1 J. F. Fodor, The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, Boston, MIT Press, 1983. 2 Cfr. D. Corno, La scrittura. Scrivere, riscrivere, sapere di sapere, Catanzaro, Rubbettino, Soveria

Un modello del genere non tiene conto di molti elementi. Il primo è l’effettiva flessibilità delle strutture del cervello. Ad esempio, in caso di danno a una zona cerebrale designata a un compito specifico, un’area diversa può sopperire, in parte, alla zona danneggiata. In secondo luogo, il modello non riesce a spiegare il fenomeno diffuso per cui i bambini, attorno all’età di 6 anni, mostrino un sensibile peggioramento delle prestazioni linguistiche: in altre parole, bambini che avevano sempre prodotto la forma corretta di “coprire”, possono iniziare a produrre forme scorrette. Questo fenomeno viene definito décalage comportamentale.

Un approccio di tipo usage-based, qual è quello propugnato dalla linguistica cognitiva, descrive in maniera diversa il processo di apprendimento. Michael Tomasello, uno dei principali studiosi di acquisizione del linguaggio nei bambini, opera proprio all’interno di tale prospettiva. L’autore parte dal presupposto che i bambini imparino il linguaggio dal linguaggio, senza necessariamente aver bisogno né di un sistema specifico che codifichi i dati linguistici (in opposizione a dati di altro genere, come ad esempio quelli motori e sensoriali) né della formulazione di regole procedurali che ne guidino la comprensione la produzione. L’apprendimento linguistico non segue la grammatica, almeno non la sua forma canonica: il bambino non impara una lingua organizzandone gli elementi in categorie grammaticali come nomi, verbi, preposizioni. Tuttavia, questo non significa che la sistemazione dei dati linguistici operata dal bambini nella primissima fase dell’apprendimento sia del tutto arbitraria e indipendente da una categorizzazione di tipo linguistico. Scrive Tomasello:

the most useful description [of language] for developmental researchers come from Functional and Cognitive Linguistics, because these approaches allow researchers to talk explicitly about symbols, conceptualization, and communicative functions that constitute human linguistic competence, and they allow them to do this in a way that can be adapt flexibly to changes that occur over developmental time3.

3 “La descrizione [del linguaggio] più utile per gli studiosi dello sviluppo deriva dalla Linguistica

Funzionale e dalla Linguistica Cognitiva, perché questi approcci permettono ai ricercatori di parlare in modo esplicito di simboli, concettualizzazioni e funzioni comunicative che costituiscono la competenza linguistica umana, e lo permettono in un modo che può adattarsi flessibilmente ai cambiamenti che occorrono durante la fase delle sviluppo.” M. Tomasello, Cognitive Linguistics and First Language Acquisition, in D. Geeraerts e H. Cuyckens (a cura di), The Oxford handbook of Cognitive Linguistics, New York, Oxford University Press, 2007, pp. 1092-1112, cit. p. 1093, trad. mia.

L’interlocutore a cui si rivolge polemicamente Tomasello è l’approccio innatista e generativista che abbiamo descritto attraverso il modello di Fodor. I limiti non sono solo nell’incapacità di rendere conto di alcuni fenomeni osservabili, ma nell’impostazione metodologica della ricerca. I generativisti considerano la grammatica, il core della lingua, innata: questo significa che bambino e adulto fanno riferimento alle stesse regole grammaticali. Non solo: tutte le competenze linguistiche che esulano dal core e che costituiscono, invece, la periferia, dal lessico alla pragmatica, si strutturano successivamente attorno alla grammatica. Dato che quest’ultima non si sviluppa ontologicamente, il linguaggio infantile è analizzato alla luce del linguaggio adulto, attraverso, cioè, la sua grammatica. A questa prospettiva adult- centered, Tomasello oppone una visione child-centred, che consideri in primo luogo come il bambino usa la lingua per comunicare. La grammatica cognitiva, enfatizzando la priorità dell’uso rispetto alle regole, o meglio, considerando le regole come emergenti dall’uso che si fa di una struttura linguistica, appare la cornice ideale entro cui collocare lo sviluppo del linguaggio. Questo procede non dalle regole alla lingua ma, al contrario, dalla lingua alle regole. Il bambino non impara regole ma pezzi di linguaggio che associa, prima di tutto, a una funzione comunicativa. Il bambino non è sensibile alla grammatica ma a quello che riesce a fare attraverso una parola o una struttura linguistica. Il repertorio acquisito viene, successivamente, ordinato e organizzato attraverso schemi e categorizzazioni. I due processi cognitivi coinvolti in questa fase sono l’intention-reading e il pattern-finding4. Il primo è di fondamentale importanza, non solo per lo sviluppo del linguaggio, ma per l’evoluzione stessa della specie umana. L’uomo, infatti, ha la singolare capacità di “leggere le intenzioni degli altri”. Fin dai primissime mesi di vita, questa facoltà di esprime attraverso l’attenzione congiunta5, fenomeno in cui il bambino riesce, ad

esempio, a indirizzare lo sguardo nella stessa direzione in cui guardano gli occhi della madre. Questa comunione attentiva, che si realizza da subito, è, secondo Tomasello, indispensabile per lo sviluppo. Si tratta di una teoria non lontana da quella dei neuroni specchio di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Infatti, capire le intenzioni degli altri deriva dalla capacità di riconoscere quelle intenzioni come familiari e dotate di uno scopo preciso. Nel caso dell’acquisizione del linguaggio, è l’intenzione

4 M. Tomasello, Acquiring Linguistic Constructions, in D. Kuhn e R. Siegler (a cura di), Handbook of

Child Psychology, New York, Wiley, 2006, pp. 256-293.

5 M. Tomasello, First steps for a usage-based theory of language acquisition, «Cognitive Linguistics»

comunicativa a guidare le scelte del bambino: questi ripete e imita il linguaggio degli adulti ma, almeno all’inizio, lo usa secondo regole comunicative e non grammaticali. Un esempio è la costruzione detta pivot-schema, che compare attorno ai 22 mesi, dopo il periodo delle olofrasi. In queste costruzione, c’è un elemento invariabile (il perno: ad esempio “dove”, “più”, “andato”) che determina la funzione comunicativa della frase, associato a un elemento variabile, come in “dove palla?” In altri casi, i bambini possono riprodurre correttamente un’espressione più complessa, interamente copiata dagli adulti, ma solo perché hanno imparato ad associarla a una funzione comunicativa. In questa fase, infatti, il bambino non è ancora in grado di generalizzare e non possiede nessuna consapevolezza grammaticale.

Successivamente, il bambino ricorre al processo del pattern-finding, ovvero la capacità di categorizzare e organizzare in schemi la propria conoscenza linguistica. Ad esempio, dopo aver acquisito lo schema “lanciare x”, smetterà di usarlo solo in associazione con parole che ha sentito dagli adulti e sarà capace di estenderlo attraverso la creazione della categoria di “oggetti che si possono lanciare”.

La sintassi è quasi sempre subordinata alla semantica. Questo punto è un altro forte contatto con la linguistica cognitiva: non solo le prime categorizzazioni dei bambini derivano da riflessioni semantiche, ma la semantica prevale spesso sulla sintassi nella comprensione di frasi nuove. Tomasello riporta un esperimento in cui i bambini a cui veniva chiesto di rappresentare alcune frasi attraverso l’uso di giocattoli si appellavano più alla plausibilità semantica che alla struttura sintattica6. Ad esempio, messi di fronte alla frase “il cucchiaio calcia il cavallo”, rappresentavano il cavallo che calcia il cucchiaio, seguendo l’idea generale che l’animato compie l’azione sull’inanimato7.

Neppure la distinzione tra nomi e verbi risulta univoca: anche se i dati mostrano che i bambini imparano prima i nomi, questo non significa che siano capaci di fare una distinzione grammaticale. E’ invece plausibile che la distinzione sia di tipo cognitivo, affine a quella proposta da Langacker quando afferma che nomi e verbi possono riferirsi alla stessa cosa ma descriverla in modo diverso (entità/processo). I verbi, in particolare, sono spesso associati a quelli che abbiamo definito image

6 M. Tomasello, Acquiring Linguistic Constructions, op. cit.

7 L’esperimento mostra comunque una differenza tra parlanti inglesi e italiani: infatti, la plausibilità

semantica ha la precedenza soprattutto nelle lingue, come l’italiano, in cui l’ordine delle parole all’interno della frase è variabile. Quindi, di fronte alla frase “il cucchiaio calcia il cavallo”, i bambini italiani tendono maggiormente ad attribuire a “cavallo” la funzione di soggetto rispetto ai loro coetanei inglesi.

schema, generalizzazioni degli aspetti dinamici e relazionali delle esperienze corporee. Tuttavia, Tomasello torna a ribadire che il criterio principale adottato nella categorizzazione è quello comunicativo: le categorie risultano, cioè, dal raggruppare parole e frasi che sono simili in quello che possono fare nella comunicazione.

Per concludere, Tomasello redige un elenco8 delle cinque caratteristiche principali che rendono conto del modo in cui i bambini imparano il linguaggio:

1. L’unità psicolinguistica primaria dell’acquisizione del linguaggio da parte dei bambini è l’enunciato (utterance), che si basa sull’espressione e sulla comprensione delle intenzioni comunicative;

2. I bambini, all’inizio del loro sviluppo, non cercano di riprodurre le parole degli adulti ma gli enunciati degli adulti;

3. I primi enunciati dei bambini sono basati su schemi o costruzioni linguistiche (unità di linguaggio che comprendono molti elementi linguistici usati insieme per una funzione comunicativa relativamente coerente);

4. Le astrazioni derivano dalle generalizzazioni dei bambini a partire dalle variazioni che osservano nel modo in cui i posti vuoti (slot) di un particolare enunciato possono essere riempiti da elementi nuovi, oltre a quelli ricorrenti; 5. I bambini creano nuovi enunciati da soli attraverso operazioni sintattiche usage-based in cui modificano lo schema di un enunciato a seconda delle loro esigenze comunicative.

Possiamo subito derivare da questa impostazione alcune considerazioni. Innanzitutto, il processo di apprendimento è descritto come un processo bottom-up, che risale dalla concretezza del linguaggio alle regole. Queste non coincidono con le regole grammaticali tout court, ma sono principalmente schemi e generalizzazioni guidate dall’uso e dalla funzione comunicativa assegnata ad ogni espressione.

Grazie a questo tipo di apprendimento, il bambino sembra essere in grado di applicare le regole grammaticali – come quelle relative alla formazione del passato dei verbi – senza essere, in realtà, consapevole dell’esistenza delle regola: viene semplicemente ripetuta la forma ascoltata dagli adulti.

Con l’età scolare, le regole grammaticali si sovrappongono alle generalizzazioni elaborate nella prima infanzia. A questo punto, il bambino “impara” che esiste una regola per la formazione del passato. La conoscenza procedurale di tipo

top-down è qualitativamente diversa da quella appresa attraverso un processo bottom- up: per questo la affianca ma non la sostituisce. La regola viene applicata di default, indipendentemente dal contesto, mentre lo schema ha senso solo se collocato entro un contesto preciso. A livello cognitivo, recuperare una conoscenza profonda e flessibile, come quella degli schemi, risulta più dispendioso del recupero della regola. Per questo motivo, non solo il bambino che ha sempre prodotto forme corrette di verbi irregolari potrebbe iniziare a produrre forme scorrette, derivate dall’applicazione acritica e acontestuale della regola; ma potrebbe produrre, nello stesso periodo, sia forme corrette che errate.

Il fenomeno del décalage comportamentale sarebbe impossibile da spiegare se l’apprendimento del linguaggio fosse guidato, fin dall’inizio, da regole. Se così fosse, il bambino commetterebbe maggiori errori nella primissima fase dell’apprendimento, per poi sviluppare in modo lineare la propria competenza. Invece i dati confermano che il concetto di regola subentra successivamente nella sistemazione delle conoscenze linguistiche e può addirittura causare interferenze con la conoscenza precedentemente acquisita.