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UN MODELLO DI ANALISI PER LA METAFORA VISIVA IN PUBBLICITÀ

2. LA RETORICA DELLE IMMAGIN

2.1 Possibili definizioni di una retorica visiva

La celebre analisi di Roland Barthes della pubblicità Panzani4 verte sulla lettura semiotica dell’immagine e sulla definizione di una sua possibile retorica. L’immagine pubblicitaria viene scomposta in tre livelli: il messaggio linguistico, la componente iconica denotata e la componente iconica connotata. Mentre tra il messaggio linguistico e la componente iconica c’è una differenza sensibile, denotazione e connotazione coesistono simultaneamente nella stessa immagine. Il ruolo della lingua in un contesto visivo può assumere, per Barthes, due funzioni: ancoraggio e ricambio. L’ancoraggio è l’atto stesso della denominazione, è una funzione di controllo che guida il lettore nella selezione di uno dei significati possibili dell’immagine, intenzionalmente marcato. È l’etichetta che viene data all’immagine, la parola che identifica e che risponde alla domanda “che cos’è?”. La funzione di ricambio, invece, si colloca in un rapporto di complementarietà con l’immagine e l’unità del messaggio si forma a un livello superiore, che è quello della diegesi. È il rapporto tra parole e immagini che troviamo, ad esempio, nei fumetti o nel cinema.

La componente iconica può assumere un significato sia denotativo che connotativo. Il significato denotativo è quello che ci permette di riconoscere gli elementi rappresentati nella pubblicità Panzani come pacchi di pasta, parmigiano, pomodori e funghi. La connotazione è, invece, la nostra interpretazione del senso

3 U. Eco, La Struttura Assente, op. cit.

4 R. Barthes, Retorica dell’immagine, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III,Torino, Einaudi, 1985, pp.

delle immagini. Ogni elemento rappresentato è, infatti, anche un elemento simbolico, la cui lettura può variare da individuo a individuo ma è anche fortemente legata a un sapere sociale. Rimanda, insomma, a quello che la linguistica cognitiva chiamerebbe dominio o frame o schema. Nel caso della pubblicità Panzani, gli elementi connotano freschezza, genuinità ma, soprattutto, italianità – almeno il concetto di italianità che poteva essere generato dalla cultura francese degli anni Sessanta. L’ambito comune ai significati di connotazione, l’ambiente in cui tali significati vengono condivisi, è chiamato da Barthes ideologia, la quale è “unica per una società e una storia determinante5.” A ogni ideologia corrispondono dei significanti connotativi, detti connotatori. L’insieme dei connotatori costituisce una retorica, che è il “volto significante dell’ideologia6.” I connotatori possono appartenere a sistemi di segni diversi, dalla letteratura alle immagini. Quindi Barthes arriva a concludere che la retorica specifica delle immagini è certamente condizionata dal medium, ma ha caratteri che possono essere generalizzati, in quanto le “figure”, intese come figure retoriche, non sono altro che rapporti formali tra elementi. Questa retorica specifica necessita di un inventario molto ampio, ma non potrà prescindere dalla figure già individuate dagli antichi. Ad esempio, il pomodoro nella pubblicità Panzani indica l’Italia per metonimia. La retorica classica deve comunque essere ripensata in termini strutturali e solo così sarà possibile stabilire una retorica generale o linguistica dei significati di connotazione, validi per il suono articolato, l’immagine, il gesto7.

Dunque, una retorica delle immagini è possibile, se non necessaria, ma ha bisogno di strumenti adeguati che derivino ma non rispecchino in modo automatico le classificazioni retoriche tradizionali. Dal punto di vista cognitivo, si fa ancora più urgente una definizione delle strutture retoriche che tenga conto di abilità cognitive più ampie e dei meccanismi di costruzione del significato; una definizione, insomma, che prescinda dalle restrizioni linguistiche e comprenda anche espressioni di tipo non verbale.

Non è un caso che tra i primi studiosi interessati a stabilire una relazione tra retorica verbale e retorica visiva ci sia uno psicologo della percezione. John Kennedy, infatti, dedicò, negli anni Ottanta, una serie di studi all’analisi dei tropi nelle

5 Ivi, p. 38. 6 Ivi, p. 39.

immagini. Nel suo saggio più importante8, rifacendosi all’elenco delle figure retoriche

elaborato da Fowler9 nel 1926, Kennedy seleziona quindici figure retoriche che

possono manifestarsi anche in modo pittorico: allegoria, anti-climax, catacresi, cliché, eufemismo, endiadi, iperbole, litote, meiosi10, metonimia, ossimoro, paronomasia, ironia, personificazione e prolessi, a cui aggiunge allusione e sineddoche. Nonostante la menzione dell’esatta terminologia di ogni figura, Kennedy le riassume tutte sotto la generica dicitura di metafora, considerando metaforico ogni uso non canonico del disegno ritenuto appropriato per veicolare un preciso significato. Non solo usa il termine metafora per riferirsi ai tropi in generale, ma sovraestende la distinzione tra tenor e vehicle che Richards aveva applicato ai due termini della metafora in senso stretto. Ne risulta una profonda confusione, aggravata dall’uso del termine treatment in alternanza a vehicle e dalla mancanza di una precisa ridefinizione dei concetti. Per ogni figura presa in esame, Kennedy fornisce un esempio tratto dal linguaggio pittorico. Sebbene molti dei suoi esempi possano dirsi pertinenti, il loro numero (uno o due per figura) è insufficiente a validare la sua teoria, di cui manca, peraltro, una discussione articolata. Nella sua trattazione sono, comunque, presenti alcuni punti degni di nota. In particolare, l’idea che lo spettatore debba saper distinguere i caratteri rilevanti e irrilevanti di un’immagine; che la metafora, intesa qui come figura retorica in generale, sia il frutto di una violazione intenzionale del codice visivo; l’influenza del contesto e delle differenze individuali e culturali nell’interpretazione delle immagini.

Nel 1987, Jacques Durand11 intraprende la via di un approccio semiotico e cerca di trovare una trasposizione delle figure retoriche nelle immagini pubblicitarie. A tale fine, egli comprende la necessità di una ridefinizione più formale delle figure stesse. Fornisce, dunque, una griglia di classificazione dei tropi basata sulla combinazione di operazioni (addizione, soppressione, sostituzione, scambio) e relazioni (identità, similarità, differenza, opposizione, falsa omologia), in cui possiamo notare l’influenza della Rhétorique Générale12 del Gruppo . La

8 J. Kennedy, Metaphor in Picture, in «Perception», 11, 1982, pp. 589-605.

9 H. W. Fowler, A Dictionary of Modern English Usage, Oxford, Oxford University Press, 1926. 10 Kennedy definisce la meiosi come un caso particolare di litote e come contrario dell’iperbole; è,

dunque l’attenuazione di un argomento. Cfr. Kennedy, op. cit., p. 596.

11 J. Durand, Rhetorical Figure in the advertising Image, in J. Umiker-Sebeok, (a cura di), Marketing

and Semiotics: new direction in the study of signs for sale, Berlino, Mouton de Groutier, 1987, pp. 295-

318.

classificazione pare, comunque, incompleta e priva di un’adeguata giustificazione teorica. Molti tropi sono esclusi dall’elenco, forse per la difficoltà di rintracciarli sul piano pittorico. Inoltre, l’individuazione delle figure retoriche nella pubblicità risulta essere arbitraria, e l’analisi viene inficiata dal presupposto che i tropi non possano co- occorrere.

La necessità di integrare la tradizionale analisi della retorica nel linguaggio verbale con esempi di natura non verbale è alla base del manuale di Ghiazza e Napoli dall’eloquente titolo Le figure retoriche. Parola e immagine13

. Le autrici partono dalla constatazione che la retorica, nel senso moderno del termine, sia al centro di ogni fenomeno comunicativo e che si esprima sistematicamente in modalità visive. Si considera una figura retorica “ogni fenomeno inerente il discorso (verbale o iconico) in cui sia riscontrabile uno scarto dalla forma consueta dell’espressione tale da colpire l’attenzione14.” Il testo si apre con una classificazione delle figure retoriche che nasce dall’intersezione di tre modelli descrittivi classici: i modelli di Lausberg15, Fontainier16 e del Gruppo 17. Le figure sono classificate attraverso tre criteri: l’appartenenza a una delle operazioni manipolative fondamentali (addizione, sottrazione, spostamento, sostituzione); l’effetto sul significante, sul significato o su entrambi; l’estensione lessicale, dal fonema all’intero enunciato. La metafora, ad esempio, rientra tra le operazioni di sostituzione, agisce sul significato a livello della parola-sintagma. Ogni figura è trattata sia livello verbale che iconico. In ogni sezione, sono presenti esempi presi, principalmente, dalle arti figurative di tutte le epoche e dalla pubblicità, senza una precisa distinzione tra le due tipologie. Lo scopo è rintracciare nel linguaggio iconico le stesse strategie retoriche e manipolative usate nel linguaggio verbale, attraverso una trasposizione diretta da un ambito all’altro18.

Viene soprattutto sottolineato lo “scarto”, la deviazione dalla norma, sia linguistica che rappresentativa. Nel caso della metafora, gli esempi comprendono pubblicità del WWF (in cui il globo terrestre è rappresentato come un sacco della spazzatura), il

13 S. Ghiazza e M. Napoli, Le figure retoriche. Parola e immagine, Bologna, Zanichelli, 2007. 14 Ivi, p. IX.

15 H. Lausberg, Elementi di Retorica, Bologna, Il Mulino, 2002, ed. orig. Elemente der Literarischen

Rhetorik, München, Hueber, 1949.

16 P. Fontanier, Les Figures du discours, Parigi, Flammarion, 1977. 17 Gruppo , Retorica generale. Le figure della comunicazione, op. cit.

18 Le autrici giustificano tale procedimento appellandosi al concetto di traduzione intersemiotica di

Jakobson, che “consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici”, R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di Linguistica Generale, Milano, Feltrinelli, 1966, cit. p. 57.

quadro Le Grazie naturali di De Chirico e la cappella di Notre-Dame du Haut progettata da Le Corbusier. L’analisi non è condotta attraverso una definizione rigorosa di target e source, ma attraverso una discussione generica sull’immagine e sull’accostamento, più o meno ardito, di elementi visivi diversi volto a provocare un effetto di straniamento. Alla fine di ogni sezione, ci sono degli “esercizi di riconoscimento” sia per quanto riguarda il linguaggio verbale che quello iconico. Un limite del manuale potrebbe essere proprio la facilità con cui le strutture linguistiche sono tradotte nel dominio visivo.

Le autrici fanno riferimento, come già detto, alla retorica generale del Gruppo , ma nell’analisi degli esempi visivi sembrano non seguire le indicazioni fornite dal gruppo di Liegi in un testo più recente, dedicato specificatamente alla retorica visiva: il Trattato del Segno Visivo19. Il Trattato si apre con una descrizione dettagliata delle

caratteristiche del canale visivo (non verbale) rispetto al linguaggio (che può darsi attraverso il canale sonoro o quello grafico-visivo). Vengono citati i capisaldi della teoria della percezione della Gestalt, a partire dal rapporto figure/ground, e messi in relazione con le dinamiche fisiche e fisiologiche che regolano la percezione visiva. Queste sembrano una premessa necessaria per formulare teorie intorno al segno iconico, se è vero che, come scrive Eco, questo riproduce “alcune condizioni della percezione dell’oggetto, ma dopo averle selezionate in base a codici di riconoscimento e averle annotate in base a convenzioni grafiche. […] Se il segno iconico ha proprietà in comune con qualcosa le ha non con l’oggetto ma con il modello percettivo dell’oggetto20.” A partire da queste osservazioni, il Gruppo propone una definizione del segno iconico21 secondo uno schema triadico, in cui troviamo referente, stimolo, significante e type. Il referente è l’oggetto a cui rimanda il segno visivo. Lo stimolo è il supporto materiale del segno (macchie, tratti, colori). Il significante è l’insieme modellizzato di stimoli visivi che rimandano a un type stabile. Il type è una rappresentazione mentale di natura enciclopedica che si forma attraverso un processo di integrazione e stabilizzazione di esperienze anteriori. Possiamo definire il type come uno schema iconico, cioè un modello mentale che ci siamo formati attraverso l’esperienza e che ci permette di riconoscere, ad esempio, un volto

19 Gruppo , Trattato del segno visivo. Per una retorica dell’immagine, a cura di T. Migliore, Milano,

Mondadori, 2007; ed. orig. Traité du signe visuel. Pour une rhetorique de l’image, Parigi, Seuil, 1992.

20 U. Eco, La struttura Assente, op. cit., pp. 114-117.

21 Il trattato è articolato in due sezioni, l’una dedicata al segno iconico, la seconda al segno plastico. Ai

fini della presente trattazione, ci riserviamo di considerare e discutere solo la parte relativa al segno iconico.

da alcuni tratti stilizzati22. La funzione iconica del type è quella di garantire

l’equivalenza tra lo stimolo e il referente, i quali, sia in fase di produzione (dal referente allo stimolo) che di ricezione (dallo stimolo al referente) subiscono delle trasformazioni che devono, però, mantenere intatto il rapporto di co-tipia tra gli elementi. In altre parole, è necessario che rimanga, nella “copia”, una traccia dell’originale.

Quando un’immagine viene manipolata, è il type che ci permette di riconoscerla e darle un senso. La possibilità di manipolare un’immagine introduce la questione centrale del testo: è possibile una retorica delle immagini? E, se sì, questa combacia automaticamente con ogni tipo di trasformazione che il segno iconico subisce? Per essere considerata “retorica”, la trasformazione o manipolazione del segno deve costituire uno scarto e creare, dunque, una tensione tra il grado percepito e il grado concepito23. È quindi necessario, come prima cosa, verificare se è possibile o meno individuare uno scarto del segno iconico e metterlo in relazione con una norma. Gli autori recuperano la distinzione tra una semiotica fortemente codificata e una semiotica debolmente codificata. La prima fa riferimento a un sistema consolidato che costituisce un “grado zero”; la seconda non ha un sistema globale di riferimento, ma è possibile rintracciarvi un “grado zero locale” dato dall’isotopia del singolo enunciato (inteso, anche, come enunciato visivo). Secondo tale distinzione, è comunque possibile individuare uno scarto e, di conseguenza, identificare una retorica visiva, di cui viene esposto il programma24:

1) elaborare le regole di segmentazione delle unità che saranno oggetto delle operazioni retoriche, sul piano plastico e su quello iconico;

2) elaborare le regole di lettura degli enunciati, plastici e iconici; 3) elaborare le regole di lettura retorica degli enunciati;

4) descrivere le operazioni retoriche che sono in atto in questi enunciati;

22 Rumelhart e McClelland avevano proposto una spiegazione simile al riconoscimento delle lettere in

fase di lettura. Siamo infatti capaci di riconoscere correttamente una lettera a prescindere dalla sua veste grafica (scritta a mano, al computer, con font differenti). Per fare ciò ricorriamo a un modello mentale astratto corrispondente alla lettera che prevede un certo grado di arbitrarietà ma anche dei vincoli precisi; ci sono, in altre parole, alcuni tratti stabili associati a una lettera che non possono essere modificati o soppressi senza che la comprensione venga meno. Cfr. D. Rumelhart, R. McClelland,

Microstruttura dei processi cognitivi, Bologna, Il Mulino, 1991; ed. orig., Parallel Distributed Processing: Explorations in the Microstructure of Cognition, Cambridge, MIT Press, 1986.

23 Gruppo , Trattato del segno visivo. Per una retorica dell’immagine, op. cit. p. 155. 24 Ivi, pp. 156-157.

5) descrivere le diverse relazioni possibili tra gradi percepiti e gradi concepiti e ricavare da qui una tassonomia di figure;

6) descrivere gli effetti di queste figure.

Il passo successivo è definire quali tipi di operazione retoriche possono applicarsi al segno iconico e fornirne una classificazione. Vengono proposte quattro categorie25 date dalla combinazione di manifestazione attraverso cui possono darsi i significanti in un contesto visivo: in absentia congiunta (gli elementi occupano lo stesso luogo dell’enunciato, per sostituzione totale l’uno dell’altro); in absentia disgiunta (una sola entità è manifestata mentre l’altra, esterna all’enunciato, si proietta su quest’ultimo); in praesentia congiunta (le due entità sono congiunte in uno stesso luogo, ma con sovrapposizione parziale); in praesentia disgiunta (le due entità occupano luoghi diversi, senza sostituzione). Per intenderci, il paragone o la similitudine apparterebbe all’ultima categoria, mentre la metafora alla terza. L’esempio proposto è quello della celebre chafetière, locandina realizzata da Julian Key per il caffè Chat Noir. Nella locandina possiamo vedere, simultaneamente, un gatto a forma di caffettiera o una caffettiera a forma di gatto. I due elementi, dunque, coesistono nello stesso luogo per sovrapposizione parziale. L’esempio è ancora più interessante perché il nome della locandina presenta il fenomeno linguistico che gli autori associano al procedimento di manipolazione in praesentia congiunto: le parole- valigia. Allo stesso modo, ciascuna delle quattro categoria manipolative corrisponde a una strategia manipolativa presente nel linguaggio verbale. Risulta dunque chiaro come l’intento del gruppo sia quello, da una parte, di enfatizzare le specificità del dominio visivo, dall’altra, di creare un parallelismo tra una retorica del linguaggio verbale e una retorica visiva, secondo l’assunto che “obiettivo di una retorica generale è quello di descrivere i funzionamenti retorici dei sistemi semiotici con operazioni che siano potenti e dotate di una certa forza di generalizzazione26.”

L’esempio citato, però, solleva anche un’ulteriore questione. Se da una parte conferma la presenza di un fenomeno che può senza dubbio dirsi metaforico in un contesto non verbale, dall’altra denota che l’analisi della metafora è condotta senza un’individuazione precisa dei due elementi metaforici e del mapping che ne deriva.

25 Ivi, pp. 171. 26 Ivi, p. 155.

Il contributo del Gruppo è, dunque, fondamentale per la discussione intorno a una retorica visiva, e apre un campo d’indagine che può probabilmente essere affrontato in modo efficace da un’analisi condotta con gli strumenti della linguistica cognitiva.

2.2. La metafora visiva

Tra le proposte di definizione e applicazione di una retorica delle immagini, troviamo un elevato numero di contributi dedicato alla metafora. L’esistenza di una corposa letteratura sulla metafora ha sicuramente incoraggiato e facilitato il passaggio dalle parole alle immagini. Parte delle ragioni che motivano l’interesse degli studiosi in campi diversi è forse dovuto proprio al successo dell’approccio cognitivo allo studio della metafora27. Il nodo principale della Teoria Concettuale della metafora è, ripetiamolo, che questa non riguardi semplicemente un fatto linguistico ma che abbia a che vedere con il modo stesso in cui pensiamo, percepiamo il mondo e organizziamo le nostre conoscenze. Sebbene sia questo l’aspetto centrale dell’intera teoria, Lakoff e Johnson si sono basati esclusivamente su esempi linguistici. Una delle maggiori critiche mosse agli autori sottolinea proprio il rischio di perdersi in un circolo vizioso “that it starts with an analysis of language to infer something about the mind and body that in turn motivates different aspects of linguistic structure and behaviour.28” Se la metafora è un fatto del pensiero e influenza davvero in modo così pervasivo il nostro modo di esperire il mondo, allora dovrebbe essere possibile una sua manifestazione anche in ambiti non linguistici. Lakoff e Johnson, però, hanno completamente trascurato questo aspetto, nonostante il crescente interesse verso una concezione più ampia delle retorica e della metafora che comprendesse tutti i settori della comunicazione. Non di rado, infatti, alcuni studiosi dei linguaggi figurativi hanno

27 Questo non significa che in precedenza non ci fossero stati studi dedicati alla metafora nel dominio

delle arti visive. Citiamo qui, come esempio, il saggio di E. H. Gombrich, Visual Metaphor of Value in

Art, in L. Bryson, L. Finkelstein, R. M. Maciver, R. Mckeon, Symbols and values: an initial study, New

York/Londra, Harper & Brothers, 1954, pp. 255-281. L’autore analizza il valore metaforico del colore e delle linee in particolari contesti culturali, enfatizzando il rapporto tra la rappresentazione pittorica e il sistema di valori ad essa metaforicamente associato. Non si tratta, comunque, di un analisi puntuale della metafora visiva, quanto di una riflessione storica ed estetica basata sul presupposto che elementi visivi e pittorici siano comunemente usati in senso metaforico.

28 “che inizia con un’analisi del linguaggio per inferire qualcosa a proposito della mente e del corpo

che, a sua volta, motiva diversi aspetti della struttura linguistica e del comportamento.” in R. Gibbs, H. Colston, The cognitive psychological reality of image schemas and their transformation, «Cognitive Linguistics» 6, 1995, pp. 347-378, cit. p. 354.

cercato di utilizzare le teorie sulla metafora sviluppate in ambito linguistico come strumento di indagine nelle proprie analisi.

Richard Wollehim, nella sua lezione sulla metafora nell’arte29, si rifà al linguista David Donaldson30, il quale sostiene che la metafora non deve essere trattata come un fatto semantico quanto, piuttosto, pragmatico. Questo permette a Wollehim di ridurre la predominanza degli aspetti linguistici della metafora e di trasferire l’analisi a livello delle immagini. Allo stesso tempo, però, ammette che i dipinti costituiscono un caso particolare in quanto non possono essere propriamente analizzati da un punto di vista pragmatico. Rimane discutibile, a questo punto, la scelta di usare Davidson come punto di riferimento, soprattutto considerando che volume citato da Wollehim contiene modelli, come quello di Black, più consoni ai suoi propositi ma del tutto ignorati. Da Davidson, ad ogni modo, Wollehim prende alcuni punti chiave: l’idea che il termine metaforizzante non perda il suo abituale valore; che la relazione tra i due termini non sia necessariamente preesistente; che la