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Riduzione dei consumi idrici attraverso pratiche colturali

Nel documento RISPARMIO IDRICO IN AGRICOLTURA (pagine 70-75)

In alcuni casi la riduzione dei consumi idrici può ottenersi attraverso opportuni interventi modificativi delle pratiche agronomiche tra i quali particolare interesse riveste l’aridocoltura; con tale termine si intende definire l’insieme delle pratiche agronomiche messe in atto al fine di ottenere un risultato ottimale dalle piante agrarie coltivate, senza l’ausilio dell’irrigazione, in ambienti dove scarseggiano gli apporti idrici naturali (Figura 3.7). In altre parole, l’aridocoltura è l’agricoltura degli ambienti aridi e di quelli sub-umidi con siccità estiva, in assenza di acqua irrigua. Dato che i terreni su cui scarseggia l’acqua si estendono su circa il 65% della superficie terrestre, appare evidente come la scienza agronomica debba costantemente tenere presente questo fenomeno.

Figura 3.7 Tecniche di aridocoltura

Negli ambienti tipicamente caldo-aridi gli accorgimenti agronomici dovrebbero mirare essenzialmente al raggiungimento dei seguenti obiettivi:

a) favorire l’aumento delle disponibilità idriche per le colture; b) ridurre le perdite inutili di acqua;

c) migliorare l’utilizzazione delle risorse idriche disponibili.

La quantità di acqua disponibile per le colture può essere incrementata attraverso strategie diverse: a) aumentando lo spessore di terreno esplorabile dalle colture con il proprio apparato radicale; b) aumentando la capacità di ritenzione idrica del terreno; c) favorendo l’immagazzinamento dell’acqua di pioggia e/o d’irrigazione nello strato di terreno esplorabile dalle radici. In assenza di falda superficiale, lo spessore di terreno esplorabile dall’apparato radicale delle piante può essere

limitato per la presenza di strati impermeabili poco profondi che, oltre ad impedire l’approfondimento delle radici, riducono la capacità d’invaso del terreno e favoriscono, durante la stagione delle piogge, la formazione di falde superficiali pensili con conseguenti fenomeni di asfissia. La rottura di detti strati, con aratri da scasso, benne e/o macchine frangisassi, favorisce l’approfondimento delle radici e determina un aumento della capacità d’invaso del terreno. Questa tecnica si è notevolmente estesa nella seconda metà del secolo in molte aree, in particolare dell’Italia meridionale, dove sono stati registrati aumenti delle rese delle colture attribuibili in gran parte alla maggiore efficacia produttiva dell’acqua di pioggia. In terreni sabbiosi, caratterizzati da eccessiva macroporosità, si potrebbe aumentare la capacità di ritenzione idrica aumentando il contenuto di sostanza organica, modificando la granulometria con l’apporto di materiale fine o tramite il rimescolamento degli strati a diversa tessitura in terreni stratificati. Le prime due tecniche sono molto onerose e poco convenienti per le colture non irrigue, che forniscono, in genere, redditi relativamente modesti. Al fine di valorizzare le risorse idriche naturali, rivestono particolare importanza le tecniche che favoriscono l’infiltrazione dell’acqua di pioggia nel terreno e che riducono le perdite per deflusso superficiale. Possono, con tali obiettivi, essere adottate pratiche agronomiche diverse, quali la sistemazione superficiale dei terreni, la pacciamatura con paglia o con residui della coltura precedente che, aumentando la rugosità, rallenta i deflussi. La pacciamatura così realizzata, inoltre, evita gli effetti negativi sugli aggregati strutturali, causati dall’azione battente della pioggia; i deflussi diminuiscono in tali condizioni fino al 50%.

Anche le pratiche agronomiche in grado di elevare la permeabilità del terreno assumono un ruolo fondamentale nell’aumentare l’efficacia dell’acqua di pioggia e nel ridurre il ruscellamento. Dopo aver favorito la costituzione di una riserva idrica nel terreno più o meno abbondante, in relazione alle caratteristiche dello stesso e all’andamento pluviometrico, le successive pratiche di aridocoltura mirano a limitare l’evapotraspirazione (ET). E’ noto che l’ET viene influenzata da fattori diversi quali il clima, la copertura vegetale, il terreno. L’ET si può ridurre agendo:

a) sui fattori climatici, attraverso la pacciamatura, l’ombreggiamento ed i frangiventi;

b) sulla copertura vegetale, aumentando la resistenza stomatica con l’uso di antitraspiranti;

c) sul terreno, riducendo la risalita di acqua liquida, attraverso lavorazioni superficiali.

La copertura del terreno per pacciamatura, pratica molto antica, riduce, ad esempio, l’evaporazione diretta dal terreno perché attenua la quantità di energia solare che raggiunge la superficie del suolo e soprattutto il flusso di vapore dal terreno all’atmosfera; l’entità della riduzione varia in relazione al tipo di materiale adoperato, al colore, alla capacità di trasmissione della radiazione solare e al tipo di barriera formata al flusso di vapore. I materiali usati sono diversi (paglia, residui vegetali, pietrame, cartoni catramati, film plastici di vario colore, emulsioni bituminose, ecc.) e sono scelti in relazione agli obiettivi da perseguire ed ai costi. Negli ambienti dell’Italia meridionale la paglia, largamente adoperata nel passato per pacciamare colture orticole, viene ancora utilizzata per pacciamare semenzai di colture a ciclo estivo-invernale con lo scopo di contenere il rapido essiccamento dello strato superficiale del terreno e di evitare la formazione di crosta superficiale. Attualmente la pacciamatura è praticata prevalentemente con film plastici, i quali, oltre ad essere di facile applicazione meccanica, sono di maggiore durata ed assolvono più funzioni.

In ambienti ad elevata domanda evapotraspirativa la pacciamatura si dimostra particolarmente valida durante le fasi di germinazione e di emergenza delle colture, quando l’umidità dello strato superficiale del terreno è determinante per la buona riuscita delle stesse. D’altra parte, considerando che all’aumentare della percentuale di terreno coperto dalla vegetazione l’evaporazione decresce, risulta evidente l’efficacia di questa pratica nelle prime fasi del ciclo colturale.

L’effetto delle barriere frangivento sul contenimento dell’ET risulta evidente se si considera il contributo della ventosità all’incremento del gradiente della pressione di vapore nell’aria circostante le superfici evaporanti.

Altra tecnica utilizzata per ridurre il consumo idrico delle piante consiste nell’applicazione di sostanze, dette antitraspiranti, capaci di attenuare o il

passaggio dell’acqua dallo stato liquido a quello gassoso, a livello di camera sottostomatica, oppure il flusso di vapore dalla camera sottostomatica all’atmosfera. Nel primo caso si usano sostanze capaci di aumentare la riflessione dell’energia radiante, con conseguente riduzione della temperatura delle foglie e dell’intensità traspirativa; nel secondo caso, invece, possono adoperarsi sostanze che, spruzzate sulle foglie, creano una barriera al flusso del vapore acqueo dalle foglie all’atmosfera o formano un film trasparente ricoprente, come le emulsioni di cera o di lattice.

Tra le lavorazioni del terreno, la più diffusa per ridurre le perdite d’acqua è la sarchiatura; con essa si limita sia la traspirazione che l’evaporazione, dato che, nello strato lavorato, la conducibilità idrica in condizioni non sature si riduce notevolmente a causa dell’aumento delle dimensioni medie dei pori e del rapido essiccamento del terreno; pertanto l’acqua in fase liquida, che per capillarità risale dagli strati più profondi, non raggiunge la superficie del terreno, ma solamente l’interfaccia tra strato non lavorato e strato sarchiato. La sarchiatura rappresenta, inoltre, un sistema ecologico di lotta alle erbe infestanti. Negli ambienti caldo-aridi la sarchiatura non è sempre necessaria poiché nei periodi siccitosi, a causa dell’elevata domanda evapotraspirativa, nel terreno non lavorato, si determina, comunque, un rapido essiccamento dello strato di terreno superficiale e una notevole riduzione della conducibilità idrica. In realtà il rapido essiccamento dello strato superficiale provoca una autopacciamatura del terreno. In alcune condizioni la sarchiatura, attraverso l’aumento della porosità del terreno, provoca nello strato lavorato un aumento dell’intensità di flusso del vapore acqueo dal terreno all’atmosfera, favorendo le perdite d’acqua per evaporazione. Nei terreni rigonfiabili, invece, la sarchiatura si dimostra sempre utile in quanto favorisce la chiusura delle ampie fessure e lo strato di terreno lavorato assume funzione pacciamante con conseguente riduzione della superficie evaporante.

In ambienti con limitate risorse idriche disponibili per l’irrigazione, al fine di stabilizzare le rese produttive negli anni, si è fatto ricorso all’irrigazione di soccorso praticata durante le fasi fenologiche principali della coltura e particolarmente sensibili alle condizioni di carenza idrica. Risultati sperimentali dimostrano che in Basilicata, in annate particolarmente siccitose, un unico

intervento irriguo, effettuato su coltura di frumento dopo la semina, ha determinato incrementi di produzione superiori al 100%. Negli ambienti siccitosi si sono sviluppate, nel tempo, forme diverse di aridocoltura in relazione alle caratteristiche climatiche e pedologiche. Tra queste possono essere citati i sistemi di aridocoltura diffusi nella Russia meridionale, nelle zone semiaride dell’India (con alternanza di colture del periodo invernale e colture tipiche della stagione delle piogge), i due sistemi di aridocoltura del Campbell elaborati per zone semiaride degli Stati Uniti occidentali, di cui uno con lavorazione estivo-autunnale, l’altro con lavorazione primaverile-estiva, ecc..

La pratica agronomica più antica e più tipica di aridocoltura resta comunque il “maggese”, che consiste nel lasciare il terreno a riposo per un anno intero praticando lavorazioni periodiche superficiali, sia per liberarlo da infestanti che per favorire l’infiltrazione dell’acqua di pioggia e limitare le perdite per evaporazione. In tal modo in due anni si ottiene un raccolto che dovrebbe beneficiare delle precipitazioni cumulate nei due anni. Quella del riposo a maggese nudo risulta una pratica valida quando la piovosità di un anno è insufficiente a soddisfare le esigenze idriche di una coltura e quando le caratteristiche del terreno sono tali da permettere un accumulo di acqua negli strati profondi. Negli ambienti caldo-aridi meridionali, tale pratica non sempre raggiunge lo scopo di massimizzare l’accumulo d’acqua per l’annata successiva. Nei terreni meno compatti, o comunque a bassa capacità di ritenzione idrica, si può consigliare di intervenire con apporti di sostanza organica per aumentare la capacità di ritenzione dell’acqua.

Poiché in circa tre quarti della superficie terrestre le precipitazioni non sono sufficienti per soddisfare a pieno i fabbisogni idrici delle colture, e poiché l’acqua è una risorsa limitata e le crescenti richieste a scopi civili ed industriali determinano una crescente contrazione delle disponibilità idriche per l’irrigazione, appare evidente l’attualità dell’aridocoltura intesa come insieme di tecniche agronomiche che mirano a ridurre comunque le perdite d’acqua. Tale pratica, adottata in modo razionale e su basi scientifiche, permette effetti produttivi migliori, con maggiori profitti, non soltanto nelle aree non irrigue ma anche in quelle irrigate.

3.6 VALUTAZIONE DEGLI EFFETTIVI FABBISOGNI IRRIGUI

Nel documento RISPARMIO IDRICO IN AGRICOLTURA (pagine 70-75)