di Stefano Ner
2. La riduzione dei posti letto tra ospedale e territorio
Esiste un ampio spettro di motivi che ha spinto alla razionalizzazione del sistema ospedaliero e al calo dei posti letto, soprattutto di quelli per acuti. Negli anni ’80 e ’90 del Novecento, in Italia è avvenuta una “transizione epidemiologica” (Omran, 2005), che ha portato in tutti i paesi occidentali al drastico calo dell’incidenza delle malattie infettive, con la “remissione” delle pandemie, sostituite come cause più importanti di morte dalle patologie car- dio-circolatorie e cronico-degenerative. Nel 2017 (dato più recente disponi- bile) in Italia la causa principale di morte sono state le malattie del sistema circolatorio (con un tasso standardizzato di 30,31 decessi per 10.000 abitanti) e i tumori (25,04), seguiti a distanza dalle malattie del sistema respiratorio (6,03 per 10.000 abitanti, di cui quasi la metà per malattie croniche delle basse vie respiratorie), dalle malattie del sistema nervoso (4,04) come il morbo di Parkinson e di Alzheimer e dalle patologie endocrine, nutrizionali e metaboliche (3,92) tra cui il diabete. Le malattie infettive hanno invece avuto un’incidenza molto minore sulla mortalità, per quanto i decessi per polmonite (1,74 per 10.000 abitanti) siano da tempo in aumento (Istat da- tawarehouse, http://dati.istat.it/, per un approfondimento si veda Neri, 2020).
La prevalenza delle patologie croniche, che possono essere curate per lo più in ambito domiciliare e ambulatoriale, ha favorito uno spostamento di risorse dall’ospedale al territorio, giustificando la contrazione dei posti letto. La deospedalizzazione è stata agevolata dal progresso tecnologico, che ha reso possibile l’effettuazione in ambulatorio, a domicilio o in day hospital di prestazioni una volta erogabili solo mediante ricovero ospedaliero. Inoltre, il territorio, inclusa la medicina generale, meglio si presta allo sviluppo di atti- vità di prevenzione e promozione della salute, la cui importanza è ormai am- piamente riconosciuta.
La normativa ha concentrato l’attenzione sulla chiusura e riconversione dei piccoli ospedali, quelli di dimensioni inferiori ai 120 abitanti, non solo per ridurre la capacità produttiva, ma anche per concentrarla in strutture di dimensioni maggiori. Da una parte, si ritiene infatti che un grande ospedale possa essere più efficiente, in quanto in grado di conseguire economie di
scala nella produzione di servizi ospedalieri. Dall’altra parte, si pensa che una struttura di dimensioni maggiori possa garantire di più la qualità delle prestazioni rispetto ai piccoli ospedali, dato che può sfruttare in modo più completo le risorse professionali in essa operanti, assicurando quella continuità nella pratica e nell’esercizio delle competenze che risultano fondamentali per la qualità del lavoro, soprattutto nelle prestazioni chirurgiche.
Il legame tra dimensione dei presidi e efficienza nella gestione delle ri- sorse, da un lato, e efficacia delle cure, dall’altro, è solo parzialmente con- fermato dalla letteratura specializzata. Dopo avere condotto una piccola ras- segna degli studi, Neri, Turati concludono che esistono
evidenze empiriche che supportano la chiusura dei presidi di più piccola di- mensione per ragioni di efficienza, ma non sembrano esserci risultati che giu- stificano la costruzione di ospedali di grandi dimensioni. In altre parole, men- tre appare giustificata la riorganizzazione dei presidi con meno di 120 posti letto, appare difficile supportare la costruzione di presidi con 400-600 posti letto.
Inoltre,
le evidenze sulla efficacia delle cure al crescere della dimensione sono molto più difficili da interpretare: probabilmente, almeno per alcune operazioni chi- rurgiche sono giustificate delle soglie minime al di sotto delle quali nessuna struttura dovrebbe operare; anche in questo caso, tuttavia, sembra difficile sostenere che si possono avere cure più efficaci in ospedali di grandi dimen- sioni (Neri, Turati, 2009, p. 229).
In ogni caso, al di là delle evidenze della letteratura, le politiche ospeda- liere si sono orientate in modo deciso verso la concentrazione dei posti letto e delle risorse nelle grandi strutture, perseguendo chiaramente obiettivi di razionalizzazione organizzativa. Allo scoppio della pandemia, la struttura dei grandi nosocomi ha probabilmente favorito la diffusione del contagio all’in- terno degli ospedali. Ma soprattutto, la configurazione organizzativa dei ser- vizi ospedalieri e la chiusura delle piccole strutture hanno finito in molti casi per privare il territorio di un sistema adeguato di cure di prossimità. Questo elemento è più evidente nei piccoli Comuni e nelle aree interne e ciò ha pro- babilmente inciso nella prima fase di diffusione del contagio, che ha colpito più pesantemente la provincia rispetto alle grandi aree urbane. Tuttavia, è pre- sente anche nelle città di medio-grandi dimensioni e in quelle metropolitane.
Com’è noto, le politiche di de-ospedalizzazione avrebbero dovuto essere accompagnate dalla costruzione o dal rafforzamento di un sistema di servizi di assistenza territoriale e domiciliare, di quantità e qualità adeguata ai
bisogni della popolazione. In realtà in buona parte del Paese ciò non è avve- nuto: i servizi territoriali e, in particolare, le cure primarie sono stati forte- mente penalizzati nell’ambito delle scelte di politica sanitaria, effettuate in condizioni di ristrettezza delle risorse finanziarie.
Su tale esito ha influito anche la configurazione organizzativa assunta dai servizi di assistenza sanitaria pubblica. La tendenza a riunire le strutture di ricovero all’interno di Aziende ospedaliere separate dalle Aziende sanitarie ha finito spesso per spingere i sistemi sanitari regionali a privilegiare l’assi- stenza ospedaliera, anche perché più rispondente alla logica “produttivistica” dell’aziendalizzazione. Questo vale soprattutto per quelle Regioni che hanno costituito un maggior numero di Aziende ospedaliere. A risultarne penaliz- zati sono stati, da un lato, lo sviluppo di meccanismi di coordinamento e di integrazione tra ospedale e territorio, dall’altro, i settori delle cure primarie, della prevenzione e della salute collettiva, assai trascurate in questo contesto.
Allo stesso modo, il tradizionale ricovero in strutture destinate alla cura delle patologie per acuti avrebbe dovuto essere affiancato e in parte sostituito da un sistema di «cure intermedie», incentrato su forme di assistenza e di ricovero a bassa intensità, di breve o lunga durata, riservate a pazienti preva- lentemente cronici che non possono essere seguiti a domicilio ma non richie- dono trattamenti di alta specialità. Nonostante la diffusione di esperienze im- portanti sul territorio, lo sviluppo di tali forme di assistenza è ancora molto limitato e concentrato solo in alcune Regioni.
La conseguenza del mancato sviluppo del sistema di cure primarie e di assistenza territoriale è stata l’incapacità prevalente di gestire e contenere la pandemia al di fuori dell’ospedale, con il risultato di mandare in grave sof- ferenza le unità di Proto Soccorso e le strutture di ricovero, alle quali afflui- scono grandi quantità di pazienti. Non a caso, le realtà territoriali nelle quali i distretti socio-sanitari delle Asl, la medicina generale e le cure primarie sono state invece valorizzate, sono quelle nelle quali la pandemia è stata go- vernata in modo migliore. Infatti, nel momento in cui è esplosa l’emergenza, era disponibile una rete di servizi sul territorio da destinare abbastanza rapi- damente a fronteggiare il Covid-19, limitando almeno in parte il coinvolgi- mento delle strutture ospedaliere.
Al di là della carenza di posti letto, appare quindi indispensabile lo svi- luppo delle forme di assistenza alternative al ricovero ospedaliero, a partire dalle cure primarie. Se non si rafforzano i servizi territoriali, anche il poten- ziamento delle dotazioni ospedaliere rischia di essere limitatamente utile. Se prendiamo il caso delle terapie intensive, va infatti evidenziato che nel corso del tempo esse siano state rafforzate e non indebolite: secondo i dati del Mi- nistero della Salute (2001; 2013; 2019), se nel 2000 i posti letto in terapia
intensiva ammontavano a 3.679 (6 per 100.000 abitanti), nel 2010 essi erano passati a 4.721 (7,8 per 100.000 abitanti) e nel 2017 a 5.090 (8,42 per 100.000 abitanti). Questa dotazione è risultata inadeguata nella prima ondata della pandemia, nelle realtà territoriali più colpite dal Covid-19 e, nonostante sia stata rafforzata nel corso del 2020, rischia di esserlo anche a fronteggiare la seconda ondata. Per quanto assolutamente opportuna, ogni possibilità rea- listica di potenziamento di queste unità come di altri servizi di tipo ospeda- liero risulta infatti insufficiente a rispondere alle necessità di cura dei pazienti se questi in maggioranza non vengono prima intercettati e gestiti a domicilio e sul territorio.
Conclusioni
L’analisi comparata dei dati relativi al numero di posti letto per acuti e complessivi mostra che in Italia i posti letto siano stati probabilmente ridotti in modo eccessivo rispetto ai bisogni determinati da situazioni di emergenza come quelle di una pandemia. Dato che tali condizioni sembrano perdurare e potrebbero ripresentarsi anche in altre forme, il potenziamento delle unità ospedaliere (strutture ma anche personale e attrezzature tecniche) appare in- dispensabile, anche e soprattutto per creare una dotazione di riserva per le emergenze. Anche la concentrazione delle risorse nei grandi complessi ospe- dalieri va forse riconsiderata, avendo penalizzato eccessivamente la presenza ospedaliera sul territorio.
Tuttavia, stabilire quale sia la dotazione strutturale adeguata all’interno delle strutture ospedaliere dipende fortemente dalla forza dell’assistenza ter- ritoriale, dalla medicina generale, in forte sofferenza, alle cure primarie e intermedie. È infatti lo sviluppo insufficiente di tali forme di assistenza, as- sieme alla carenza di meccanismi di integrazione efficaci tra ospedale e ter- ritorio, che determina in buona parte il sovraccarico del sistema ospedaliero, in misura non gestibile in condizioni di pandemia.
Per cambiare gradualmente questa situazione, occorre certamente investire maggiormente sulle cure primarie e l’assistenza extra-ospedaliera, ma probabil- mente è necessario anche introdurre cambiamenti significativi nella configura- zione organizzativa del sistema dei servizi sanitari pubblici sul territorio.
Bibliografia di riferimento
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