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Riferimenti epistemologic

2. Parte seconda Macroanalisi dei diritti umani: dinamiche e criticità

4.1 Riferimenti epistemologic

Esplicitare i riferimenti epistemologici della ricerca empirica aiuta ad integrare gli aspetti teorici con quelli dell’indagine sul campo, a mantenere una certa unitarietà e coerenza generale in un percorso certamente non facile, ad inquadrare meglio gli orientamenti investigativi, ad adottare scelte metodologiche appropriate, a capirne i limiti intrinseci43.

La riflessione su questi riferimenti non poteva che portare - si potrebbe oggi dire ovviamente - a prendere le distanze dal classico scientismo positivista e neopositivista convinto di poter comprendere con certezza e completezza la natura e le leggi dell'universo, della società e dell'uomo grazie a quella razionalità e metodo empirico che hanno nel tempo mostrato evidenti limiti. Ha invece assunto immediatamente credito quel relativismo introdotto dal pensiero kantiano per il quale non è la realtà (la materia sensibile) a modellare la nostra mente su di sé, ma è la mente che modella la realtà attraverso le forme a priori con le quali la percepisce. La realtà ci appare come fenomeno (mundus intellegibilis) e non nella sua dimensione oggettiva, che non è conoscibile (noumeno).

La relatività della conoscenza umana viene via via sottoscritta da molte figure autorevoli in campo filosofico e scientifico. Fra questi, Spencer che ammette per primo i limiti della

43 Non si nasconde a questo proposito la difficoltà incontrata nel muoversi su un terreno piuttosto ostico per i non addetti ai lavori, al cui superamento ha fortunatamente contribuito una esercitazione svolta nell’ambito del corso di dottorato, consistente nella preparazione di una bozza di paper in materia di orientamenti epistemologici.

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conoscenza scientifica (cfr. Spencer, 1867); Boutroux che critica il principio di causalità ammettendo la sussistenza di ‘contingenze’, che generano sempre qualcosa di nuovo (cfr, Boutroux, 1874); Popper che sottolinea come la conoscenza umana sia di natura congetturale e ipotetica, proceda per tentativi ed errori, sia sottoposta costantemente al principio di verificazione (cfr. Popper, 1934); Fleck che fa notare come ogni fatto scientifico assuma significato all’interno di uno specifico ‘stile di pensiero’ condiviso da un ‘collettivo di pensiero’, che a sua volta incontra più volte il percorso di altri collettivi (cfr. Fleck, 1935). Dunque, l’oggetto della conoscenza non può essere dissociato e reso indipendente dallo stile entro cui nasce e che impone cosa osservare e contemporaneamente cosa negare all’osservazione (cfr. Fleck 2009:144-146); Russell secondo il quale “tutta la conoscenza umana è incerta, inesatta e parziale” (cfr. Russell, 1948); Kuhn, secondo il quale il progresso scientifico procede non per accumulazioni successive del sapere ma attraverso rivoluzioni scientifiche (Kuhn, 1970); Feyerabend, che arriva a sostenere una teoria anarchica della conoscenza negando la possibilità di un metodo scientifico universalmente valido (cfr. Feyerabend, 1975). Parallelamente, il progresso scientifico porta a superare definitivamente il paradigma razionalistico cartesiano che separa l'osservatore dal processo di conoscenza (cfr. Capra, 2001:52) con l'affermazione del noto principio di indeterminazione di Heisenberg (1927: 147-182): “Ciò che osserviamo non è la natura in sé stessa ma la natura esposta ai nostri metodi di indagine”. Il passaggio dal pensiero analitico e meccanicistico a quello organicistico e sistemico fa emergere poi l'esigenza di ricomporre il sapere superando le barriere disciplinari, come provano a fare - su piani diversi - la teoria dei sistemi di von Bertalanffy (1983), le scienze della complessità, l'archeologia del sapere di Foucault (1971), il metodo scientifico generale proposto da Morin (2002), la rete della vita di Capra (1996), la teoria di Santiago avanzata da Maturana e Varela (1984). Centrale diventa l'idea di una conoscenza approssimata, mai completa e definitiva, ma comunque fonte di fiducia e forza per la comunità scientifica: “Nella scienza ci si occupa di descrizioni limitate e approssimate della realtà” (Capra, 2001:54).

In campo sociologico la matrice positivista di una conoscenza scientifica oggettiva compare con alternante prospettiva: è presente in Durkheim (1895), per il quale i fatti sociali vanno osservati ed analizzati nel modo più imparziale possibile, mentre Weber (1974) avanza l'idea che l'interpretazione della realtà sia resa possibile dalle risorse culturali di cui l’attore sociale dispone, moltiplicandone di conseguenza l’esito. Simmel

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non mette in dubbio che vi sia un fondamento valido per tutto il sapere, tuttavia riconosce che la struttura stessa della nostra conoscenza cambia continuamente categorie e questo rende difficile cogliere la verità del mondo in maniera esclusiva (Simmel, 1927).

Merton, nella sua analisi della scienza come struttura autoregolamentata (Merton, 1973), ne presenta ancora una immagine idealistica universale per effetto dei suoi valori e norme di condotta (gli imperativi istituzionali) e dei metodi impersonali e logici (cfr. Bucchi, 2004), ma il relativismo si fa sempre più strada anche in sociologia, fino alla completa affermazione del principio di influenza dell’osservatore sulla realtà osservata ed alla formalizzazione del metodo della osservazione partecipante. La Science Studies Unit (SSU) di Edimburgo, fondata nel 1966 e basata sulla interdisciplinarità degli studi, teorizza la Sociology of scientific knowledge sostenendo che ogni forma di conoscenza, comprese le parti più astratte, è sempre sociale (cfr. Bloor, 1976). "Le persone producono conoscenza sulla base della conoscenza ereditata nell'ambito della propria cultura, dei propri scopi collettivamente situati e dell'informazione che ricevono dalla realtà naturale” (Shapin, 1982:196). Anche la Scuola di Bath adotta la tesi secondo la quale la scienza è una pratica inseparabile dalla sfera culturale, sociale e politica (cfr. Collins, 1981:6-19; Boisvert, 1997), condivide l’obiettivo di studiare il modo in cui i fattori sociali intervengono nelle attività scientifiche ma senza ricercarne i nessi causali e sostiene il relativismo metodologico secondo cui ogni conoscenza è radicata in un particolare contesto culturale (cfr. Fazzi, 2008). I cosiddetti Studi di Laboratorio mettono infine in luce come anche nel processo di ricerca scientifica viga un principio di negoziabilità su: “(…) che cos'è una cellula e che cos'è un artefatto, chi è un buon scienziato e che cos'è un metodo appropriato, se una misurazione sia sufficiente o se occorrano diverse ripetizioni” (Knorr Cetina, in Jasanoff et al., 1995, p. 152).

Il fatto scientifico non può pertanto essere tale e acquisire solidità senza il sostegno di un insieme di attori-reti, che sviluppano negoziazioni continue per costituire associazioni di sostenitori ed imporre i propri enunciati-fatti-alleanze. Secondo la actor-network theory, occorre considerare il fatto scientifico come il risultato di una complessa rete di alleanze costituita da attori umani ed actants, strumenti più o meno complessi che entrano nei processi di trasformazione e distribuzione della conoscenza - quali software, elenchi, laboratori ed altro - ma capaci di agency (cfr. Grasseni, 2004). Latour (1979) considera determinante il ruolo della tecnica nel lavoro scientifico (cfr. Bucchi, 2004): essa consente

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la produzione di articoli, relazioni, rapporti, comunicazioni, perizie, libri; ne fanno parte strumenti quali i dispositivi di visualizzazione dei testi scientifici, i portavoce (quelli che parlano per quelli che non parlano), i laboratori (luoghi dove sono riuniti gli strumenti), e tutti quegli altri actants che supportano le reti (Latour e Woolgar, 1979). In conclusione, la sociologia della scienza mette in risalto come il processo di ricerca, sperimentazione, validazione dei risultati non possa prescindere da istanze di natura sociale; come il procedere della scienza derivi inevitabilmente dal contesto sociale e culturale; ancora, come le norme che ne regolano lo sviluppo siano intrinsecamente legate a valori e principi ispiratori condivisi socialmente; come le comunità scientifiche - se libere da condizionamenti esterni - costituiscano un presidio irrinunciabile di generazione di avanzamenti sociali; come infine i progressi scientifici avvengano obbligatoriamente entro contesti, stili e collettivi di pensiero. Ne consegue che sulla scena della ricerca empirica non compaiono solamente il soggetto e l'oggetto. Altri attori ed elementi intervengono a comporre una fitta rete di relazioni significative per l'esito della ricerca, che vanno considerati in sede di pianificazione e sviluppo: collaboratori, alleati, destinatari, comunità di riferimento, e poi il contesto socio-culturale - inclusi i collettivi e gli stili di pensiero - nel quale la ricerca prende corpo, gli actants - reti e strumenti telematici, informatici, materiali che supportano i vari processi di costruzione e diffusione della conoscenza. Nell’ambito della controversa dinamica della formazione della conoscenza scientifica, sembra insomma assumere crescente consistenza quella dia-logica (nel senso moriniano di compresenza di aspetti antagonisti e complementari al tempo stesso) fra realismo e costruttivismo che è fonte di ispirazione per la ricerca empirica. Come noto, il realismo deriva da quella concezione della realtà di matrice cartesiana che la considera res extensa, esterna ed indipendente da chi la osserva, il quale - per farla emergere nella sua oggettività - deve limitarsi ad un ruolo descrittivo neutrale, asettico, estraneo, non contaminante con l'oggetto osservato. Il realismo spinge la ricerca empirica, anche in campo sociologico, ad affidarsi a procedure standardizzate e tecniche statistiche che consentano di far emergere la realtà oggettiva, ma il risultato - per quanto inseguito - appare poco credibile: basti pensare all'influenza esercitata dal ricercatore nel predeterminare gli strumenti di indagine, alla perdita di conoscenza legata alle operazioni di selezione condotte dal ricercatore, alla tendenza della elaborazione statistica a spostarsi progressivamente verso tecniche qualitative (cfr. Baraldi, 1998:39-42). Di contro, il costruttivismo, aldilà dei vari indirizzi che lo compongono ed in linea generale, sostiene l’inafferrabilità della realtà esterna: la

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sola realtà vera è quella costruita dall'osservatore (Glaserfeld, 1987), il soggetto che interagisce con la realtà senza più la preoccupazione di rispecchiarne l'oggettività, enfatizzando così il carattere di contingenza della ricerca empirica. Il rischio di arbitrarietà è elevato e questo sollecita ulteriormente il senso di responsabilità dell'osservatore, la sua capacità di avvicinarsi quanto più possibile alla realtà oggettiva, la consapevolezza di poter generare solo una conoscenza approssimata offrendola alle critiche della comunità scientifica e rendendola spendibile in termini operativi. Il costruttivismo privilegia le tecniche di elaborazione semantica ed i processi qualitativi basati sulla scoperta di terreni inesplorati, sulle deduzioni derivanti da analogie e differenze, convergenze e divergenze, rendendo spesso difficili le scelte del ricercatore. Alcuni studiosi hanno evidenziato come lo scienziato, quando inizia una ricerca, parta da un certo numero di presupposti, di conoscenze di base, di capacità per realizzare un certo fine, sviluppando una sequenza caratterizzata da tentativi, da prove, da errori e da continue scelte tra diverse strategie possibili: continuare, rinunciare, ripartire da capo, modificare la strumentazione, rivisitare la teoria, ricercare nuove informazioni, modificare il protocollo di ricerca. Da questo punto di vista la ricerca è caratterizzata da un complesso di decisioni prese in situazioni d’incertezza; non esistono regole che indichino come procedere in qualsiasi circostanza (cfr. Collins, 1982).

La dia-logica esistente fra realismo e costruttivismo si rende evidente nel momento in cui la elaborazione quantitativa diventa - a seguito del suo progressivo raffinamento - qualitativa, e inversamente ogni volta che la qualità necessita di una quantificazione: “La differenza fra quantità e qualità non è epistemologicamente chiara, né nel realismo, né nel costruttivismo” (Baraldi, 1998:47). Le implicazioni operative di questa dia-logica sulla ricerca sembrano dunque condurre a scelte oscillanti fra il ricorso a tecniche fondate sul dato statistico e l'impiego di tecniche visive, orali e letterali in grado di produrre nuova conoscenza o, più ragionevolmente, alla integrazione metodologica quali-quantitativa (cfr. Maturo, 1998:114). Quest’ultima sembra infatti presentare uno strumentario adeguato a rispondere ai compiti della sociologia: “Se la ricerca quantitativa è essenziale per

descrivere il fenomeno, la spiegazione richiede una teoria microfondata e il controllo

empirico delle ipotesi può avvalersi sia di tecniche quantitative sia di tecniche qualitative” (Barbera, 2006:15). L’idea che una buona descrizione sia la premessa per una buona spiegazione (Goldthorpe, 2006) riporta ad una concezione di complementarietà fra la ricerca descrittiva o camerale (Boudon, 2002) - con i suoi metodi e tecniche di indagine

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che consentono di descrivere i fenomeni sociali differentemente dal senso comune - e quella scientifica, supportata dalla teoria ed esplicativa di fenomeni che altrimenti rimarrebbero enigmatici44. La presente indagine viene a collocarsi precisamente nella

dimensione della sociologia camerale, sia per le finalità di miglioramento delle politiche pubbliche relative ai diritti umani ed in particolare al diritto dei minori alla salute, sia per l’impiego di tecniche quali-quantitative di rilevazione ed elaborazione delle informazioni, di carattere prevalentemente descrittivo.