• Non ci sono risultati.

La parabola storica della Rivoluzione, così come ben esemplificata nella “carriera” di Sieyès, si chiuderà con il colpo di stato del 18 brumaio, cui seguiranno gli anni del Consolato e dell’Impero napoleonico, al termine del quale il nuovo pensiero liberale aprirà punti di incrocio tra le due strade del costituzionalismo moderno.

Gli anni di Napoleone saranno caratterizzati da un profondo pragmatismo, che lasciò poco spazio alle elaborazioni di correnti dottrinarie, anche perché la Francia, per alcuni aspetti, era tornata al passato.

Lo stato poteva dirsi di nuovo assoluto, seppur nel suo significato più basso, ovvero quello connotato da autoritarietà e dispotismo.

Allo Stato nobiliare si era sostituito un ceto di nuovi privilegiati, ovvero quella borghesia che aveva saputo approfittare degli sconvolgimenti della Rivoluzione e che ora si fregiava dei titoli e degli onori conferiti per i servigi resi all’Impero.

La religione riprende il suo compito di instrumentum regni in linea con la dottrina del gallicanismo. In tale contesto il pragmatismo di Napoleone si riconosce nella condanna, da parte di questi, delle diverse ideologie, che configurano “questa tenebrosa metafisica che, ricercando scrupolosamente le cause prime, vuol fondare su queste basi la legislazione dei popoli, in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore umano e alle lezioni della storia”126.

Infine Napoleone, ormai al potere, pronuncerà la celebre frase: “Abbiamo chiuso il romanzo della Rivoluzione, bisogna iniziarne la storia”.

Ma il suo regime sarà, de jure condito, la negazione di Rivoluzione, collassata essa stessa su basi friabili a causa del peso degli ideali utopistici di uguaglianza, libertà e fraternità.

Su una visione moderata di questi valori dimenticati nascerà un pensiero liberale in Francia che si rifarà al modello inglese, come si osserverà nell’evoluzione in senso parlamentare della forma di governo della monarchia costituzionale pura adottata con la Restaurazione.

Ma andiamo con ordine: si affronteranno i percorsi, quello politico e quello dottrinario, del nascente liberalismo di inizio Ottocento per poter meglio scorgere le connessioni tra i due percorsi del

costituzionalismo moderno.

126

Va subito premesso che questo costituzionalismo liberale non ebbe rapporti univoci con il sistema politico incentrato sul potere autoritario napoleonico.

Lo stesso Constant, uno dei maggiori esponenti del costituzionalismo liberale francese, si mostrò favorevole alla Restaurazione borbonica, pubblicando articoli fortemente polemici contro

Napoleone, fuggito dall’Elba.

Ma Constant fu sedotto, al pari di vasti strati della borghesia, dal ritorno al potere da parte di Napoleone, che appoggerà durante i Cento Giorni, collaborando anche alla stesura dell’Atto

addizionale (22 Aprile 1815) alle costituzioni dell’Impero.

Dopo Waterloo si fece fautore, nelle vesti di capo del partito liberale, di una monarchia costituzionale in cui fosse introdotto l’istituto della responsabilità ministeriale.

La forma parlamentare diveniva dunque un caposaldo del pensiero liberale, che caratterizzava gli animi del ceto borghese, che usciva come il vero vincitore della Rivoluzione, una volta tramontati gli ideali democratici più radicali.

E tale direzione in senso parlamentare si vedrà in quel confuso biennio 1814-1815127, gli anni che avrebbero dovuto rappresentare l’inizio, in Francia, della monarchia costituzionale pura, ispirata, seppur non in modo pieno, al principio della separazione di poteri.

Tale corso politico prese le mosse dai più disparati documenti costituzionali, tra i quali molti rimasero allo stato di progetti.

Tra quest’ultimi vanno ricordati quelli di un senato conservatore (6 aprile 1814) e di una costituzione (29 giugno 1815), elaborata dalla Camera dei Rappresentanti.

Vanno poi menzionati, a riguardo, l’effimero Atto addizionale, e la Carta costituzionale del 4 Giugno 1814, che reggerà le sorti della Francia fino alla Rivoluzione di Luglio.

Tutti questi documenti costituzionali prevedevano una compartecipazione del potere legislativo, condiviso tra il re e le Camere, una elettiva e una di Pari, assemblee di cui potevano far parte i ministri128.

Si auspicava in tal modo che la forma di governo prendesse la via del parlamentarismo, razionalizzato secondo la costituzione mista inglese, che poteva dirsi, almeno nella sua ratio politica, messa su carta nella Francia restaurata.

La soluzione liberale, scartata dall’imperialismo napoleonico, venne, come osservato, intrapresa anche nei Cento Giorni in Francia come dalla monarchia borbonica in esilio a Gand.

A Parigi la Camera dei Rappresentanti consolida infatti le sue prerogative, tanto da far sentire Napoleone costretto a governare coadiuvato da Ministri che riscuotano il consenso della Camera. A Gand il governo in esilio assume un’identità propria.

127

Ma anche e soprattutto nella genesi della monarchia orleanista.

128

Un’ordinanza del 9 luglio 1815 dispose che il Governo dovesse avere una composizione collegiale e fosse preseduto da un proprio presidente, Charles Maurice di Talleyrand-Périgord; tale organo sarebbe stato considerato autonomo rispetto al Consiglio privato del re.

E dopo Waterloo Talleyrand conoscerà la spietata logica parlamentare; messo in minoranza dalla maggioranza ultra-royaliste, rassegnerà le sue dimissioni il 23 settembre del 1815.

La Camera dei Rappresntanti vivrà la stagione politica della Restaurazione in un’ottica bipartitica, che contemplava una fiera contrapposizione tra i “whig” ed i “tories” francesi.

Il bicameralismo diverrà in tal modo ben presto impefetto, poiché il Governo non poteva esistere senza la fiducia della Camera elettiva.

Ma l’equilibrio tra poteri sarà rotto fino al momento in cui il partito conservatore avrà la maggioranza e incarnerà, per dirla con le parole di Montesquieu, il Court party, cioè la fazione fedele alle sorti della Corona.

L’”idillio” politico verrà infatti spezzato con i liberali al Governo, in un contesto di scomoda, ma necessaria, coabitazione ante litteram con la Corona, che pur manteneva poteri di politica attiva. Questo avverrà con la caduta, nel 1829, del Governo Martignac, che, nonostante l’apertura in senso liberale -con l’approvazione di un’avanzata legge sulla stampa nel luglio 1828-, si era trovato non più supportato da una maggioranza conservatrice a seguito delle elezioni della nuova Camera bassa. In tale frangente politico “i liberali diverranno i campioni della Carta”.

Si tratta della Carta del 1814 che Luigi XVIII, il 16 marzo 1815, aveva giurato di osservare. Ma questo solenne patto avrebbe funzionato per l’appunto fino a quando ci sarebbero mantenuto l’equilibrio tra la casa regnante e un partito realista con maggioranza nel ramo camerale elettivo. La Francia, che stava assimilando il parlamentarismo, non avrebbe potuto soffrire, senza gravi ripercussioni, avvicendamenti del potere in senso liberale.

Lo stesso Talleyrand, che siederà a lungo all’opposizione tra lo sfarzo dei Pari, aveva certo incarnato uno spirito liberale e godeva di un prestigio politico assai ampio, avendo salvato “il salvabile” per la Francia nel Congresso di Vienna, nel corso del quale aveva auspicato con fermezza il ritorno dei Borbone dopo la prima caduta di Napoleone.

La fine del Governo Martignac, come si accennava, avrebbe dovuto portare all’instaurazione di un governo liberale, che avrebbe certo ricevuto l’appoggio della Camera bassa.

La salita al potere del reazionario Polignac (novembre 1829), per volere del re, ruppe invece

l’equilibrio e la stessa logica del governo parlamentare, che aveva funzionato, fino a quel momento, in senso univoco ovvero fino al momento in cui la maggioranza della Camera bassa avesse

In tale contesto la Monarchia avrebbe potuto “scoprirsi” politicamente fino a che si fosse fatta scudo di un Governo, che fosse appoggiato dai Rappresentanti.

E proprio la Monarchia borbonica pagherà nel 1830 questo suo “scoprirsi”, allorché l’impopolare governo Polignac decretò le illiberali ordinanze del 26 luglio 1830.

Tutto avvenne poi con la solita precipitazione.

Il popolo parigino si sollevò nelle “tre giornate gloriose” (27-29 luglio); rovesciati i Borbone, il processo costituente prese le mosse con impeto il 4 agosto seguente e si concluse con l’adozione della Charte del 14 agosto del 1830129, sulla quale giurò Luigi Filippo d’Orlénas130, il re

“borghese”, e incentrata su un modello di monarchia parlamentare francese.

L’evoluzione della costituzione inglese in Francia era così compiuta nel corso di pochi anni; l’ideologia liberale aveva finalmente una configurazione politica.

La Francia guardava ancora una volta avanti, senza poter volgersi al suo passato, come era avvenuto sotto la Restaurazione, che non sancì il ritorno all’assolutismo.

Doveva costruire il nuovo ordine politico della Monarchia di Luglio.

Vi era certo fiducia nel futuro, anche se la soluzione di alcuni nodi costituzionali veniva rimessa a successivi interventi.

In tal senso va letto l’art. 69 della Charte che rinvia a una futura disciplina, da adottarsi “nel minor tempo possibile” la materia della responsabilità dei ministri, fino ad allora solo penale (questione che si riaprirà con la crisi di governo del 1838).

Fautore di questo nascente liberalismo sarà François Pierre Guillaume Guizot (1787-1874), il vero protagonista politico tra il 1840 e il 1848, anno della nascita dell’effimera Seconda Repubblica. Guizot rivalorizza gli accadimenti rivoluzionari nella misura in cui le conquiste del 1789 possano recare supporto favorevole alle sue idee liberali131.

Guizot ragiona con la pacatezza di chi, non avendo vissuto la Rivoluzione, ne scorge i pregi e i difetti: per questo si mostra assai fermo sia contro un ritorno dell’assolutismo sia contro una deriva democratica. Anche Louis Adolphe Thiers (1797-1877) fu allo stesso tempo uomo politico di spicco e alfiere della dottrina liberale132.

La sua Histoire de la Révolution, terminata nel 1827, presenta la forma di governo parlamentare come risultato di un’evoluzione storica.

129

De facto si trattava di una modifica, seppur profonda, della Charte del 1814. 130

Questi inaugura il corso liberale sulla base di un nuovo patto che ha ad oggetto la Charte del 1814; a riguardo forti analogie possono scorgersi con la salita al trono di Guglielmo d’Orange, che diviene re dopo aver accattato il Bill of

Rights, approvato dalle Camere, documento che segna una tappa fondamentale dell’evoluzione della costituzione

inglese.

131

V. Du gouvernement représentatif et de l’état actuel de la France (1816).

132

L’anglomania si manifestò anche nell’adozione di una terminologia politica, che affondava le sue radici nella Rivoluzione, attraverso l’utilizzo di parole come budget, cabinet, club, coalition,

convention, jury, legislature, motion, parlamentaire, session e vote, ma, soprattutto, radicalisme, libéralisme e conservatorisme.

In una parola, nel contesto di quel nascente regime parlamentare all’inglese in Francia, si riscopriva la teoria dello Stato misto, che si voleva modellare nel paese d’oltralpe secondo una ragione, eredità dell’illuminismo, le cui conquiste non potevano essere certo considerate perse nella Francia

rivoluzionaria.

Del resto non va dimenticato come Montesquieu e Voltaire, pur profondamente diversi, già guardavano con ammirazione al modello inglese.

E proprio quel modello inglese, in un sistema liberale, si tenterà di riscrivere nel solco

dell’illuminismo, i cui valori, una volta travalicati i confini nazionali, saranno ripresi dalla filosofia politica tra la fine del Settecento e l’Ottocento133.

Ma la stessa tradizione dell’antico regime non sarà di certo disconosciuta, anche nella stessa Francia restaurata.

Viene infatti recuperato il valore dello studio della storia nell’ambito di un romanticismo politico e, in particolar modo, l’attenzione per quella storia medievale che era stata cancellata dalla modernità rivoluzionaria; e stretto si presenta, a riguardo, il collegamento con il liberalismo, che in Inghilterra si era sviluppato sulla secolare costituzione mista.

In Francia il romanticismo politico, che si svilupperà dopo il 1815, troverà degli antesignani nei teorici della c.d. controrivoluzione Joseph de Maistre (1753-1821), nobile savoiardo, e Louis Gabriel Ambroise, visconte di Bonald (1754-1840), nei quali gli accostamenti al pensiero di Burke si presentano assai significativi.

La vicenda personale di Maistre con la sua conversione si mostra assai interessante: questi si era infatti formato leggendo Voltaire e, avvicinandosi alle idee razionalistiche, subì l’influenza dell’Illuminismo e della massoneria.

Gli eventi del 1789 e l’invasione della Savoia134 da parte della Francia nel 1792 lo spinsero in una direzione antirivoluzionaria.

133

È datata 1797 la Die Metaphysik der Sitten in cui Immanuel Kant (1724-1804) propone le sue riflessioni sugli eventi rivoluzionari francesi, che guarda con ammirazione pur biasimandone gli eccessi. La propensione politica di Kant si indirizza in senso liberale; l’ordine politico deve costruirsi intorno alla costituzione, fonte del diritto pubblico. Quest’ultimo costituisce “un sistema di leggi per una pluralità di uomini, che, stando tra di loro in un rapporto di influenza reciproca, abbisognano di uno stato giuridico sotto la volontà che li riunisca, abbisognano cioè di una costituzione, per essere partecipi a ciò che è di diritto” (cit. in Matteucci, Organizzazione cit., 225).

Il singolo agisce con razionalità e sotto la legge morale, cui è subordinata la stessa politica. Kant in questo modo raccoglie le speranze dell’Illuminismo tradite dalla Rivoluzione.

Se tanto infatti aveva ammirato le conquiste dell’Illuminismo, parimenti si rendeva conto di come quest’ultime erano state vanificate dall’impeto della Rivoluzione.

Quest’evento contiene un qualcosa di catastrofico, ma, allo stesso tempo, di provvidenziale135, quasi fosse, come per Burke, un diluvio universale.

Amico di Bonald, che superò nel successo dovuto alla diffusione del suo pensiero politico, Maistre rappresenta il massimo esponete di un tradizionalismo che si oppone alla Rivoluzione.

Maistre valorizza, nelle sue opere, la fede, il comune sentire e la legge non scritta; fa l’apologia del potere spirituale e temporale pontificio136 (Du Pape, 1819) e dell’Inquisizione spagnola, mostrando, a riguardo, un aspetto reazionario.

Maistre è schierato contro l’universalismo: e se una delle conquiste della Rivoluzione era il superamento dei particolarismi locali, il filosofo savoiardo risponde:

“Nella mia vita io ho incontrato francesi, italiani, russi, ecc; ma quanto all’uomo dichiaro di non averlo mai incontrato; se esiste è a mia insaputa”137.

Nella stessa generale direzione politica di Maistre si pone Bonald (Théorie du pouvoir politique et

religieux, 1796).

La religione non è separata dallo Stato, che in tal modo risulta poggiare su basi teocratiche e la cui volontà deve essere sempre rispettata, non potendo essere concepito un diritto di resistenza. Solo con questa chiave di lettura si comprende la giustificazione dell’Inquisizione e

dell’antiprotestantesimo in Maistre e l’antisemitismo in Bonald.

Maistre condanna il governo caotico e confuso del popolo; secondo lo stesso il governo naturale e più affidabile consiste in quello della Monarchia, depositaria di una sovranità unica ed indivisibile; si ripresenta, in definitiva, la teoria di Bodin.

Ma Maistre non è un cultore reazionario dell’antico regime; sembra infatti, prima della condanna della Rivoluzione, che abbia addirittura pensato alla trasformazione, in Savoia, del Senato da corte di giustizia in assemblea legislativa, influenzato da Montesquieu138.

134

Mostra approvazione per il giuramento della Pallacorda e si associa all’entusiasmo generale per la Rivoluzione; accolse senza turbamenti l’abolizione dei diritti feudali, ma la Dichiarzione del agosto 1789 lo allontanò dalle sue posizioni illumiste adottate in precedenza.

135

Considérations sur la Révolution française (1796). 136

Per Maistre il successore di Pietro gode di un privilegio politico universale; ogni autorità temporale deve essere subordinata a questi; tale considerazione spinge Maistre a scontrarsi con le tesi gallicane, proprie della stessa tradizione francese.

137

Condiserazioni sulla Francia (1797), cit. in Touchard, op. cit., 437. 138

La contre-révolution, docrine et action: 1789-1804, Parigi, 1961; La Controrivoluzione: dottrina e azione (1789- 1804), Jacques Godechot, 1988, Milano, 104; trad. a cura di E. Turbiani.

In conclusione Maistre e Bonald non intendono solo delegittimare una Rivoluzione che ha distrutto l’antico regime; manifestano un ritorno alla tradizione deputata da sovrastrutture moderne, come si osserva nell’esaltazione del ruolo politico del Pontefice e nella condanna, da parte di Maistre, del gallicanisimo, che aveva rafforzato lo Stato assoluto nella Francia prerivoluzionaria.

Anzi Bonald si spinge ancora oltre (o indietro in un’ottica diacronica), con la negazione dello stesso contrattualismo, poiché, per questi, la società trova origine nella sola volontà divina.

In conclusione, i due autori si avvicinano al pensiero di Burke per quanto concerne il bisogno di difesa della tradizione e il ruolo della Provvidenza.

Ma la direzione cui porta tale tradizione non è certo quella del filosofo anglosassone, che diede un decisivo contributo politico, disegnando tasselli peculiari della nascente forma parlamentare nel solco della dottrina liberale.

Non manca infine in Maistre, teocratico della controrivoluzione, una dose di realismo politico. Parimenti si può dire del più grande controrivoluzionario francese Antoine Rivarol (1753-1801). Questi si guadagna ben presto la fama di brillante conservatore; è famoso infatti per il suo sarcasmo nei confronti dell’antico regime, ma da questo mondo, che pur critica, non sa distaccarsi.

Scoppiata la Rivoluzione, lotta per difendere la Chiesa e la Monarchia, pur attaccando in modo duro il titubante Luigi XVI; nel 1792, per le sue idee, dovette riparare in Belgio per poi stabilirsi

definitivamente a Berlino, dove morì, dopo quasi dieci anni di peregrinazioni.

Critica profondamente la Dichiarazione del 1789, che, a suo parere, elenca diritti non adeguatamente bilanciati da doveri, ed i concetti popolari di sovranità e di uguaglianza.

È contrario alle astrazioni e non appare ipotesi peregrina che Burke sia stata influenzato in questo da Rivarol nelle sue Reflections139.

Rivalorol, come detto, era animato da un realismo politico; si mostra conscio di come la scienza politica, a differenza della filosofia, si regga su valori relativi e non assoluti.

Di conseguenza l’animo di Rivarol si presenta aperto al bisogno di riforme, che sarebbero dovuti avvenire per mano regia, senza il contributo degli Stati Generali.

Rivarol si mostrava in tal senso favorevole all’introduzione di un sistema bicamerale140: non poteva essere altrimenti, giacché rinnegava l’astrazione dell’uguaglianza dei cittadini, depositari della sovranità, che aveva come corollario la rappresentanza politica in un’unica assemblea.

Al contempo rinnegava i privilegi del clero e della nobiltà.

L’anno 1792 sancisce, come già accennato, l’esilio di Rivarol e di molti controrivoluzionari.

Questi, insieme alla nobiltà refrattaria alla Rivoluzione, al clero non costituzionale e ad altri Stati in guerra con la Francia, favorirono una vasta ondata controrivoluzionaria, che interessò, in particolar

139

Godechot, op. cit., 56.

140

modo, la regione della Vandea tra l’agosto del 1790 ed il luglio del 1796 e riapparirà nei primi tempi del Consolato e, infine, durante i Cento Giorni.

La Vandea aveva salutato con favore la Rivoluzione, ma ben presto aveva compreso come

quest’ultima si fosse trasformata da francese in parigina, con la conseguenza che il potere sempre più accentrato della capitale andava contro l’autonomia consolidata delle regioni storiche.

La nascita della Costituente e, in seguito, la costituzione civile del clero, nell’estate del 1790, contribuiranno a far nascere una rivolta contadina, provocata dalle frange realiste del clero e dalla nobiltà141.

Ma, tornando a Rivarol, il quadro controrivoluzionario non si esaurisce certo con questi.

Dobbiamo infatti, sul punto, richiamare la figura di Antoine François Claude conte Ferrand (1751- 1825), membro del Parlamento di Parigi e, in seguito, esule, tra i primi, nel dicembre al 1789. In questi si presenta forte l’influenza di Montesquieu, il cui pensiero manifestò certo un’influenza nella Rivoluzione142, ma può essere letto anche con più equilibrio in un’ottica controrivoluzionaria, che appare conforme alla stessa indole politica del barone di La Brède.

Ferrand fonda infatti la sua analisi sulla celebre teoria dei poteri; ministro sotto la Restaurazione, nel suo pensiero politico ritroviamo i lineamenti della monarchia costituzionale pura del 1814. Il potere esecutivo deve essere affidato al re, che partecipa, insieme ad una Camera bassa e ad una alta, a quello legislativo.

Ferrand affronta anche i temi della libertà e dell’uguaglianza, così solennemente proclamate nel 1789, anno in cui abbandona la Francia.

La prima riguarda la sola capacità contributiva fiscale; la seconda è tripartita nel diritto di proprietà, nel diritto alla sicurezza personale ed infine in quello di manifestazione del pensiero.