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Rivoluzione: Presupposti storici e basi dottrinarie

La Francia di fine Settecento si presentava come un paese economicamente stremato.

La guerra dei sette anni (1756-1763) aveva portato ad un periodo di crisi finanziaria, cui si era fatto fronte con una serie di isolate riforme, pur rimanendo fermo il quadro politico dello stato assoluto, sotto l’operato di Jacques Necker75.

Va da subito osservato come non si riscontrino nella politica di Luigi XVI, salito al trono nel 1774, i tratti di un dispotismo illuminato sulla scia del modello asburgico e di quello prussiano.

Gli stessi Parlamenti, facendosi fieri alfieri dei propri privilegi, ostacolavano le riforme e mal vedevano il crescere del peso economico da parte della borghesia, che sotto Luigi XIV era diventata la nuova colonna portante della società.

Questo ceto andava sempre più prendendo coscienza di sé e seppe affrancarsi dal ruolo passivo del Terzo Stato76, mostrando avversione per quella parte della nobiltà, che, improduttiva, pesava sulle casse della nazione, che erano prossime alla bancarotta.

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Necker, ministro del tesoro nel 1776, fermo ammiratore di Jean-Baptiste Colbert, tentò di ripianare il debito pubblico, dopo i tentativi di Anne Robert Jacques Turgot, che erano mossi da uno spirito di assolutismo illuminato.

Per Necker, al pari di Turgot, l’opposizione dei Parlamenti e la difesa dei privilegi da parte della nobiltà

rappresentarono cause decisive perché si realizzassero le riforme auspicate, volte a modernizzare l’economia ed a risanare il debito pubblico.

Tale politica avrebbe portato a radicali cambiamenti che avrebbero avuto profonde ripercussioni sociali. Basti pensare, a riguardo, ai Sei Editti, presentati al re dal Turgot nel 1776, con cui si stabiliva per prima cosa l’abolizione dei servizi di corvées, ormai retaggio feudale e la creazione di un unico sistema contributivo comune alla nobiltà e al Terzo Stato.

Lo stesso Turgot pubblicò nel 1778 il suo Mémoire sur les municipalités, nel quale proponeva la costituzione di assemblee municipali, provinciali e nazionali, elette dai proprietari senza distinzione di ordine, alle quali era attribuito una funzione consultiva.

Necker riprese la politica di contenimento dei costi iniziata da Turgot, arrivando ad riprenderne l’auspicio della nascita di assemblee locali, in cui lo stato nobiliare contribuisse all’adozione di riforme.

Necker fu, per questa politica, sentito come avverso dagli ambienti di corte e dall’alta aristocrazia, e vicino alla borghesia, di cui comprese l’influenza decisiva nella convocazione degli Stati Generali nell’agosto del 1788. Fu destituito dal suo incarico per ben due volte nel giro di due mesi (maggio-luglio 1789) dietro pressioni di corte rivolte in tal senso al re Luigi XVI, tornando infine al potere però fino al settembre del 1790, quando diede le dimissioni.

Proprio il suo secondo licenziamento (11/7/1789) fu una delle cause contingenti che portarono all’assalto della Bastiglia.

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Emmanuel Joseph Sieyès, detto l’abate Sieyès, (1748-1836), fu uomo politico francese che giocò un ruolo importante nella Rivoluzione e nell’instaurazione del potere napoleonico.

Dettò infatti il giuramento della Pallacorda e ricoprì una parte determinante nel colpo di stato del 18 Brumaio. La rivoluzione si apre idealmente con una sua riflessione contenuta in un opuscolo intitolato Qu’est ce que le Tiers

Etat? (1789).

Lo scritto è volto ad individuare il ruolo del Terzo Stato nella Francia dell’inizio del 1789, ancora caratterizzata dai forti privilegi della nobiltà e del clero.

In tale sede Sieyès si pone interrogativi sul significato di sovranità e nazione e si dà risposte sulla base del pensiero politico rivoluzionario che si affermerà nel 1789.

Ed anche all’interno dello Stato nobile e del clero si riscontrava una netta separazione tra le fasce più basse e quelle più alte, che godevano di privilegi particolari; le prime legheranno le loro sorti al Terzo Stato nella sala della Pallacorda.

In questo contesto la convocazione, dopo quasi due secoli e, precisamente, l’8 agosto 1788, degli Stati Generali da parte di Luigi XVI rappresentò la vera sconfitta dell’assolutismo francese. Queste assemblee erano chiamate a cooperare con la Monarchia, come era nella tradizione medievale, ma, di fatto, questo non poteva essere più concepibile.

Era infatti venuto meno quel senso di medietà, che aveva caratterizzato la costituzione consuetudinaria francese e con esso il suo equilibrio nei rapporti tra i vari ordini.

Anzi, come già osservato, all’interno di quest’ultimi si riscontravano gravi disarmonie, che non tarderanno a manifestarsi, allorché si raduneranno gli Stati Generali.

Basti pensare, a riguardo, a quella nobiltà sostenitrice dello stato assoluto che non poteva più condividere le sorti politiche con quella parte dello stato aristocratico che difendeva un mondo di privilegi feudali.

E il pensiero va anche al clero, quello basso, così lontano dagli ambienti opulenti dei “ più alti colleghi”, che non tarderà a farsi “costituzionale”.

Di questo diffuso malcontento erano diventate manifesto le Cahiers de doléances, presentate al re dagli Stati Generali nel 1789, attraverso i quali i tre ordini, ma soprattutto la borghesia che

emergeva dal Terzo Stato, formulavano le più varie istanze di revisione, che andavano dall’abolizione di diritti feudali all’uguaglianza di fronte all’obbligo impositivo.

Né mancavano, nelle Cahiers, parti in cui si richiamava all’attenzione del re la situazione della giustizia, in particolare penale, nell’amministrazione della quale l’estesa discrezionalità dei giudici portava spesso a pene eccessive e sproporzionate.

Sul punto forte si manifestava l’influenza del pensiero dell’Illuminismo, che animerà gli animi politici della nascente borghesia77.

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Appare opportuno ricordare come non mancasse una corrente dell’Illuminismo, rappresentata da Étienne Morelly (1717-1778), in cui l’autore (Codice della natura, 1755) auspicava l’abolizione della proprietà privata in ragione di utopie che potremmo definire comuniste.

La fine della proprietà privata avrebbe dunque portato ad un’uguaglianza tra i consociati.

Ma Morelly non può certo definirsi un comunista nel senso più stretto, poiché la sua analisi non può prende le mosse dallo studio della contrapposizione delle classi sociali e dei rapporti economici tra quest’ultime, fenomeni storici che sorgeranno solo a seguito della Rivoluzione industriale.

Il comunismo di Morelly si manifesta principalmente legato a quel filone letterario legato a modelli politici idealistici come l’Utopia di Tommaso Moro (1478-1535) e, soprattutto, la Città del sole di Tommaso Campanella (1568-1639), in cui si auspicava la fine della proprietà privata.

Quest’ultima distrugge infatti lo stato di natura; della stessa opinione si presenta Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), fautore di un egualitarismo che ha come modello Sparta, ma che, allo stesso tempo, non conserva la distinzione tra gli ordini.

I fatti seguenti sono ben noti, ma sembra necessario ripercorrerli, seppur sommariamente, al fine di evidenziare il rapido declino dello Stato assoluto; si trattò di un processo storico che però non portò alla rinascita della costituzione medievale, come avvenne nell’Inghilterra dopo la dittatura di Cromwell e le due rivoluzioni del Seicento.

Furono fissate le modalità di elezioni dei tre Stati, che si mostrarono assai complicate per quanto concernente il Terzo78.

I tre Stati, riunitisi a Versailles (5 maggio 1789), si divisero subito sulla questione del voto per categoria o individuale; nel primo caso i primi due Stati, pur minoritari per numero complessivo di rappresentanti, avrebbero potuto dare un freno decisivo alle velleità riformistiche del Terzo Stato, ma anche a quelle delle ali della piccola nobiltà e del basso clero più vicine a quest’ultimo. Infatti le frange, che potrebbe essere definita “costituzionale”, rappresentava una minoranza all’interno dei deputati dei primi due ordini.

Diversamente la procedura di voto auspicata dal Terzo Stato, volta a conteggiare complessivamente le volontà dei singoli rappresentanti, al di là della loro appartenenza al ceto in cui fossero stati eletti, avrebbe determinato un affermarsi dell’indirizzo del Terzo Stato.

Non si trattava dunque di una mera scelta di carattere procedurale; vi era in discussione la stessa tradizione.

L’antica costituzione, legge fondamentale per gli Stati, prevedeva che gli stessi si manifestassero attraverso il voto per categoria.

Gli Stati si accingevano in tal modo a diventare un’assemblea politica in senso moderno, assemblea unitaria i cui rappresentanti sedevano appunto insieme, nella consapevolezza di un’uguaglianza giuridica professata dall’Illuminismo e trasposta su un piano politico, seppur utopistico, grazie al pensiero di Rousseeau.

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In base alle lettere reali del 24 gennaio 1789 i nobili elessero i loro rappresentanti nel proprio capoluogo del baliato; per il clero tutti i preti furono elettori, ma vi fu un solo voto per monastero.

Per eleggere i deputati del Terzo Stato gli elettori di ciascuna parrocchia si riunirono in assemblea per designare i delegati, che, nel capoluogo del baliato, insieme ai delegati delle corporazioni delle città, eleggessero i deputati che sarebbero seduti nella sala di Versailles.

Ogni ordine, in occasione delle elezioni, redasse le Cahiers de doléances, da presentare al re alla riunione degli Stati Generali.

Le elezioni, tenutesi lungo di quattro mesi a partire dal febbraio del 1789, furono caratterizzate da un non trascurabile tasso di astensionismo; i deputati, che ammontavano a più di 1100, di cui 270 nobili, annoveravano una parte, seppur minoritaria, animata da spirito riformista; sedevano poi, per gli ecclesiastici, 300 deputati, tra i quali la parte,

proveniente dal basso clero, si presentava incline a profondi cambiamenti; 600 erano, infine, i rappresentanti del Terzo Stato.

In conclusione, tornando alle elezioni “primarie” del Terzo Stato si mostra interessante osservare che tale processo di elezione di più basso grado si svolgeva nelle parrocchie come nel caso della procedura prevista dalla costituzione di Cadice del 1812 (artt. 34 ss.).

Gli Stati, rectius, il Terzo e le fazioni costituzionali dei primi due, non volevano dunque continuare a presentarsi solo come forieri di doléances nel rispetto dell’ordine secolare costituito dell’antico regime, ma, di quest’ultimo, volevano rifondare le basi.

Il Terzo Stato, abbandonando i lavori nella sala di Menus-Plaisirs, si proclamava, il 17 giugno, Assemblea nazionale e tre giorni dopo venne pronunciato il celebre giuramento della Pallacorda, in base al quale i rappresentanti del Terzo Stato si impegnarono a non dividersi fino a quando non avessero dato una costituzione alla Francia.

Il clero e la nobiltà si unirono, per ordine di un titubante Luigi XVI, all’Assemblea, che divenne in tal modo costituente.

“L’ordine antico fu allora infranto con un patto giurato-senza dubbio contrastante con la legalità anteriore, perché la tradizione degli Stati generali esigeva che i rappresentanti dei tre ordini

discutessero e deliberassero separatamente, convergendo tutti con votazioni diverse su un medesimo testo, che sovvertì le basi stesse dell’equilibrio cetuale dell’antico regime”79.

Si tratta di un patto giurato, che si poneva alla base di un nuovo corso istituzionale, o, per meglio dire, di una nuova sponsio, che era alla base del costituzionalismo medievale.

Ma in quest’ultimo la sponsio si muoveva pur sempre nei limiti dell’antica costituzione (e non in contrasto con essa).

E analogie solo apparenti si possono osservare in relazione al Bill of Rights.

Quest’ultimo adottato dalle Camere e giurato dal nuovo re Guglielmo d’Orange, portava anch’esso al declino di ogni possibile manifestazione dello Stato assoluto in Inghilterra.

Di certo a simile conclusione era indirizzato il giuramento della Pallacorda.

Ma, a ben vedere, con quest’ultimo va a riformare la costituzione stessa, cancellando la tradizione. Tradizione che proprio attraverso il Bill of Rights si voleva una volta per sempre proteggere da derive dispotiche della monarchia.

Del resto il giuramento della Pallacorda contiene in sé la forza dirompente e fondante del contratto, in cui è presente l’ideale politico di Rousseau, filosofo che troverà fortuna agli albori della

Rivoluzione, mentre il Bill of Rights si avvicina più al pactum unionis lockiano, retto da un pregnante un empirismo80.

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Padoa-Schioppa, op. cit., 431-432.

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Il Bill of Rights costruisce dunque il nuovo patto politico sulla base della costituzione; ad occhio attento non mancherà di scorgere analogie con la Charte del 1830, su cui fonderà la Monarchia di Luglio.

Il costituzionalismo moderno francese prende dunque il via nei primi giorni dell’estate del 1789, resi ancora più caldi dallo scoppio della Rivoluzione il 14 luglio.

E colpo ancor più grave verrà inferto alle basi dell’ordinamento allorché il 4 Agosto l’Assemblea Costituente voterà la fine dei privilegi e dei diritti feudali; si configurava come una scelta politica che gli Stati Generali di antico regime non avrebbero mai potuto adottare nel rispetto della

costituzione consuetudinaria81.

La parola “costituzione” veniva ora intesa nel senso che ci risulta più familiare, in tutta la sua forza innovatrice, ma anche riformatrice del previgente ordinamento; ma costituzione anche come norma fondante contenuta in un immodificabile patto giurato82, che può essere contratto nuovamente solo a costo di rifondare le basi dell’ordinamento.

Ma, di certo, questo costituzionalismo rivoluzionario non sarà espressione solo del pensiero illuministico come sviluppatosi nel Settecento.

Basti osservare la netta separazione dei poteri presente nella Costituzione del 3 Settembre 1791, ispirato al modello della monarchia costituzionale pura, in cui l’esercizio del potere esecutivo rimane nelle mani del re di fronte al potere di normazione primaria che spetta ad un Corpo legislativo.

Si tratta di una netta divisione dei compiti istituzionali: il re non partecipa all’iter legislativo83 e non può sciogliere la suddetta assemblea.

Il pensiero va al modello inglese della separazione dei poteri84 come descritta da Montequieu e da de Lolme, ma non risulta presente negli intenti del Costituente francese quel senso di moderazione e giusto mezzo che regge l’equilibrio la costituzione inglese, il quale si manifesta, a livello

parlamentare, nella contrapposizione tra Lords ed Commons.

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Va però ricordato come però non manchino segni di continuità tra l’antico regime e l’innovazione apportate dalla rivoluzione.

In tal senso basti pensare all’ordinamento amministrativo, che portò la ripartizione del territorio francese in 83 dipartimenti, divisi in distretti, a loro volta formati da cantoni per mezzo della legge 26 febbraio 1790 che abolì la frammentazione in regioni storiche che aveva caratterizzato il regno.

Quest’ultime godevano d una rilevante autonomia interna, che andrà diminuendo con il rafforzamento dell’apparato burocratico dello Stato assoluto sotto il regno di Luigi XIV.

Tale processo accentratore sarà appunto continuato con la citata riforma amministrativa e sarà completata da Napoleone con la crezione dei prefetti, dipendenti direttamente dal governo di Parigi.

Il suddetto processo di rimodellamento dell’ordinamento amministrativo è descritto da Alexis de Tocqueville nel suo

L’ancien régime et la Révolution (1846), nel quale l’autore evidenzia come tale politica di rafforzamento dell’autorità

centrale, iniziata nel periodo assolutistico, si sia continuata a sviluppare sotto la Rivoluzione.

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Immodificabile, ma solo rispetto alle vie legali; se il patto era destinato dai contraenti a durare non si avverte la necessità di prevedere formule per modificarlo.

Si aprono qui due gravi problemi: il primo riguarda, in una parola, la possibilità di vincolare i padri alle scelte politiche dei figli, già sentito nel dibattito costituzionale statunitense.

Ma, soprattutto, il pensiero va alla nascita della nozione di rigidità e flessibilità costituzionale.

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“Il re può soltanto invitare il Corpo legislativo a prendere un oggetto in considerazione” (tit.III, cap. III, sez.I, art. 1).

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Infatti, in Francia, quel desiderio di egualitarismo porta, come osservato, alla nascita di un’unica assemblea legislativa, in cui sedevano indistintamente i rappresentanti dei cittadini senza

distinzione di état.

Veniva introdotto, sul modello inglese, il ruolo della giuria nell’esercizio del potere giudiziario (tit. III, cap. V), ma il giudice rimaneva solo la bocca della legge; significativamente l’art. 19 del cit. cap. recita: “vi sarà per tutto il regno un solo tribunale di cassazione posto presso il Corpo Legislativo”.

Il principe, se era diventato sovrano, nel senso più intenso e profondo della parola, con la nascita dello Stato assoluto, ora perdeva questa sovranità che veniva trasferita alla Nazione.

Rimanevano fermi gli attributi della sovranità come elaborati dalla tradizione a partire dall’analisi di Bodin, ovvero indivisibilità, inalienabilità e imprescrittibilità.

E lo stesso costituzionalismo francese non doveva rimanere indenne dagli insegnamenti del “mito” inglese neanche nella celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 Agosto del 1789, documento ben più importante, ai fini della nostra analisi, dei testi costituzionali che si susseguirono in modo frenetico fino alla fine del Settecento.

Non mancano infatti influenze di Locke allorché viene enunciato che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo”, tra i quali è annoverato la proprietà e il diritto di resistenza (art. 2).

Si tratta di un diritto di proprietà che diventa inviolabile e sacro, incarnandone in tal modo la più profonda concezione borghese (art. 17).

Si rinvengono anche tracce del costituzionalismo americano del periodo coloniale inglese85. Nella Dichiarazione il rinvio a Rousseau si presenta decisivo nel momento in cui viene

preannunciata la nuova idea della sovranità, che “risiede essenzialmente nella Nazione” (art. 3). Il filosofo ginevrino viene però tradito, allorché la legge viene configurata come una volontà generale che si manifesta tramite rappresentanti e non semplici commissari (art. 6).

Tale rappresentanza politica presupponeva un’uguaglianza tra gli uomini e la loro originaria libertà, secondo gli insegnamenti del pensiero giusnaturalista (art. 1).

Ma il costituzionalismo inglese, come disegnato da Locke e ammirato da Montesquieu, Voltaire e Mably, trova una sua forma nell’art. 16, che dispone:

“Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha costituzione”.

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La separazione dei poteri, come conquista della costituzione inglese, viene concepita come legata, in modo profondo, alla tutela dei diritti dei singoli86.

Ma, nel contesto francese, tale separazione si tramuterà presto in diffidenza tra Corona e Corpo legislativo, e, quindi, in incomunicabilità tra i poteri, fattore che porterà ben presto

all’ingovernabilità, mancando quell’equilibrio che caratterizzava la costituzione inglese, che poteva in quegl’anni definirsi, per l’appunto, ancora mista.

La separazione dei poteri avrebbe dovuto infatti seguire la logica di un’evoluzione in senso liberale, come avvenne nell’Inghilterra a partire dalla Gloriosa Rivoluzione.

In Francia, diversamente, prese ben presto il sopravvento la corrente giacobina che si richiamava ad una democrazia radicale, che non poteva conciliarsi con i dettami della costituzione inglese.

Montesqueiu aveva ricordato il sistema bipartitico sul modello inglese, che vedeva la

contrapposizione tra il County party ed il Court party, che pur non presentavano una propria

identità politica ben precisa, giacché la stessa veniva delineata solo una volta svoltesi le elezioni per la Camera bassa.

E, in considerazione della reciproca diffidenza tra Corpo legislativo e Corona, non si poteva certo auspicare un’alleanza tra quest’ultima e partito di maggioranza.

Inoltre, pur nascendo in Francia l’odierno significato dell’espressione politica “destra” e “sinistra”, va rilevato come gli stessi girondini e giacobini non siano nati come gruppi politici, bensì come circoli afferenti a una diversa ideologia politica.

Né si affermò mai un netto bipartitismo; e il pensiero va ai Montagnardi, così detti perché sedevano sui banchi più alti dell’Assemblea.

E gli stessi Montagnardi non potevano certo considerarsi un partito politico: tra le loro fila sedeva la media borghesia da cui proveniva buona parte dei Girondini87.

Ma la variegata estrazione sociale dei Montagnardi rappresentò la causa di un programma non omogeneo.

E proprio le aspirazioni democratico-radicali dei Giacobini porteranno alla sconfitta dei Girondini, ma chiuderanno anche la porta ad ogni possibilità di stabilizzazione dello stesso regime.

Quest’ultimo doveva dunque passare attraverso il rifiuto deciso della costituzione inglese, così come esaltata da de Lolme.

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E, più in generale, sembra chiaro come, anche per noi contemporanei, la costituzione non possa avere un significato neutrale circa i suoi contenuti.

A ben vedere la stessa costituzione italiana del 1947 consta di due parte: la prima concerne i diritti, nonché i doveri, dei