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La Spagna del secolo XVIII: la nascita dello Stato assoluto sotto i Borbone; costituzione mista e riformismo politico

Il Settecento spagnolo si apre con la Guerra di Successione (1701-1714); tale conflitto, che scoppiò alla morte di Carlo II (1661-1700), vide lo scontro tra Luigi XIV e l’imperatore Leopoldo I, che avevano sposato entrambi due sorelle del defunto re e che erano entrambi nipoti di Filippo III di Spagna194.

Il primo sosteneva il diritto di successione al trono del nipote Filippo d’Angiò, mentre Leopoldo I sosteneva quello di suo figlio, l’arciduca Carlo (il futuro imperatore Carlo VI).

Carlo II, che fu l’ultimo degli Asburgo di Spagna e non aveva lasciato figli, aveva designato con testamento Filippo d’Angiò alla successione della Corona; questi, giunto a Madrid nel 1701, venne incoronato re con il nome di Filippo V e regnò per quasi tutta la prima metà del secolo XVIII; con la pace di Utrech (1713) gli venne riconosciuta la Corona di Spagna, pur dovendo rinunciare, tra gli altri, a numerosi territori in favore di Carlo VI, imperatore di Germania (tra cui Napoli, Milano e i Paesi Bassi).

La Spagna del Settecento sarà dunque retta dalla dinastia dei Borbone, che favorirà un

afrancesamiento della vita politica, sociale e culturale; in primis va ricordato il definitivo

consolidarsi di una Monarchia assoluta fondata su uno Stato, che, sulla scia del modello francese di Luigi XIV, potremmo definire moderno e centralizzato, pur rimanendo tuttavia vivi i sistemi locali di derecho foral, eredi della tradizione politica della Reconquista.

Lo stato assoluto rappresenterà, allo stesso tempo, l’alveo in cui si muoverà il dispotismo illuminato che reggerà le sorti del paese fino all’invasione francese del 1808, anno che può essere considerato il “1789” spagnolo e che vide la cruenta fine dell’antico regime in Spagna.

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Ma, come necessaria premessa, bisogna allora soffermarsi sul quadro politico e sociale della Spagna del Settecento.

La Spagna usciva da un secolo, il XVII, di governo degli Asburgo, in cui il dominio delle rotte atlantiche era stato perso in favore dell’Inghilterra e dei Paesi Bassi; inoltre l’economia interna non aveva tratto giovamento dalle grandi ricchezze provenienti dai domini coloniali americani, dal momento che le stesse non avevano contribuito a cambiare un’economia che rimaneva stagnante e legata al latifondo: di conseguenza le stesse casse dello Stato si trovavano in una condizione di profondo deficit finanziario.

La stessa identità spagnola si presentava lungi dall’essere unitaria; alla formazione di tale identità diede tuttavia il suo contributo la Chiesa cattolica, che esercitò la sua influenza culturale attraverso l’Inquisizione spagnola; va tuttavia ricordato che tale istituzione, creata nel 1479, dietro

approvazione pontificia, dai Re Cattolici, agì sempre sotto il controllo della Monarchia e non della Chiesa di Roma.

L’Inquisizione spagnola contribuì infatti all’espulsione dei marranos (ebrei) e dei moriscos (musulmani)195 che non fossero divenuti conversos negli anni subito successivi alla caduta di Granada (1492) e rappresentò un decisivo argine alla diffusione della Riforma e di qualsiasi corrente di pensiero non “ortodossa” in Spagna196.

La Spagna, che nasceva dall’unione personale dei Re Cattolici, Fernando di Aragona e Isabella di Castiglia, aveva mantenuto, al suo interno, una netta divisione politica.

Questa si era mantenuta sotto gli Asburgo e anche sotto il regno di Filippo V (1700-1746): la

Castiglia e la fedele Navarra mantenevano privilegi, benefici e fueros che avevano radice nella metà del Basso Medioevo, mentre la Catalogna subiva il sistema politico e burocratico importato da Madrid, dove aveva sede la dinastia asburgica.

E la presenza dell’autorità castigliana veniva certo sentita in Barcellona solo nella macchinosità e nel carattere invadente dell’apparato statale, con le sue schiere di funzionari regi (corregidores). La vita economica si spostò tuttavia nei porti Aragónesi grazie al traffico internazionale che

interessava i medesimi nelle rotte del Mediterraneo e in quelle atlantiche, grazie anche al decreto di Carlo III (1759-1788), datato 1778, con il quale si poneva fine al monopolio andaluso del

commercio americano.

La rinascita economica e lo sviluppo industriale catalani finirono per interessare l’intera Spagna, anche se la Castiglia rimaneva ancorata ad una gelosa politica di fermo e deciso accentramento.

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La cacciata degli Ebrei avvenne nel 1492, mentre quella dei Mori nel 1502, pur se quest’ultima andò continuando nei due secoli che seguirono: tali accadimenti avevano portato in modo rapido al declino delle attività commerciali nella penisola.

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Ciascun territorio, a sua volta, rappresentava mondi in cui gli hidalgos (la piccola nobiltà), il clero e le popolazioni rurali si manifestavano profondamente legati a tradizioni plurisecolari e dove la borghesia faticava a trovare una propria identità unitaria e, più spesso, a presentarsi come un ceto a sé stante.

Se, in base ad una prima approssimazione, il dispotismo illuminato aveva portato ad un fiorire delle attività commerciali e di scambio, come nel caso del regno di Maria Teresa d’Austria (1740-1780), tale linea politica richiedeva un rafforzamento dello stato assoluto; detto consolidamento andava di certo contro il sistema di radicate autonomie locali, che componevano la Monarchia spagnola. L’accentramento del potere nelle mani della Monarchia significò anche una decisa esclusione di ogni influenza culturale esterna; ciò portò all’espulsione dei gesuiti (1767), con la conseguenza che l’istruzione fu secolarizzata.

Ma ritroviamo anche altri provvedimenti volti a modificare il tessuto sociale ed economico. Tra questi vanno ricordati la creazione di una rete di comunicazioni stradali e la colonizzazione da parte dei repobladores di vaste zone agricole, lasciate spesso al latifondo, dopo la fine della

Reconquista.

Ma si diede inizio anche ad un processo di desamortización dei patrimoni ecclesiastici e al conseguente ingresso dei beni liquidati nel ciclo degli affari commerciali.

Il dibattito su tale desamortización fu particolarmente sentito e interesserà anche gli anni cruciali che vanno dall’invasione napoleonica (1808) alla Restaurazione assolutista (1814).

La lotta alla manomorta, come la cacciata dei gesuiti, si collocava sempre nella politica della Monarchia volta a subordinare al proprio volere la Chiesa di Roma in Spagna o ad evitare che la stessa potesse continuare ad esercitare un’influenza diretta nei confini spagnoli.

Le riforme borboniche puntavano in primis all’unificazione e centralizzazione amministrativa; questo avvenne già durante i primi anni del regno di Filippo V, grazie ai Decretos de Nueva Planta. Nel primo Decreto de Nueva Planta (29 giugno 1707) per i regni di Aragona e Valencia, emerge l’equilibrio tra il potere militare, quello del governo civile e quello finanziario, nelle mani,

rispettivamente, del capitán general, della Chancillería e della superintendencia. Il primo assunse i poteri dell’antico viceré.

Il Decreto del 1707 statuiva implicitamente non solo l’abolizione di fueros, privilegi, esenzioni e libertà dei regni di Aragona e Valencia, ma anche l’abolizione delle loro istituzioni di diritto pubblico (Cortes dei singoli regni, viceré, governatori, Justicia Mayor de Aragón197, istituzioni territoriali con funzioni giudiziali, fiscali e municipali).

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Organo con il compito di dirimere le controversie tra i vassallí e il re e tra gli ecclesiastici e i secolari; era coadiuvato da cinque lugartenientes e, più in generale, poteva prendere provvedimenti in nome re in diverse circostanze come quando si presentasse la necessità di far rispettare il diritto dei fueros.

In loro luogo venne dato spazio alle istituzioni castigliane: intendentes e corregidores. Rimaneva ugualmente soppresso il diritto privato di entrambi i regni. L’unica traccia del diritto valenciano, anteriore alla Nueva Planta, si conservò in virtù di quanto disposto dal Decreto del 29 del luglio 1707; il Decreto del 3 aprile del 1711 avrebbe introdotto un’importante novità rispetto al regime del decreto di abolizione dei fueros del 1707 ovvero la possibilità di giudicare le cause civili secondo “las leyes

municipales de este Reyno de Aragón” per “todo lo que sea entre particular y particular”.

Filippo V restaurava così, dopo pochi anni, il diritto civile del regno di Aragona, soppresso nel 1707. In seguito Filippo V si dedicò all’ordinamento del Regno di Maiorca, che era stato a lungo

possedimento aragonese a partire dagli inizi del secolo XIII. Con il Decreto del 28 novembre del 1715 venne abolito l’antico sistema di governo delle isole. Il Decreto presenta molte similitudini con quello del 1711 che riguardava l’Aragona. In luogo dell’antico viceré le funzioni di questi furono attribuite al

comandante general, che presiedeva anche la Audiencia e che godeva del potere di decisione negli

affari di governo.

Il Decreto, regolando l’Audiencia, disponeva che i membri della stessa dovessero “conocer las

causas civiles y criminales en la forma y manera que lo hacían antiguamente”. E aggiungrva

che“en el modo de proceder en las causas civiles y criminales, número de escribanos y ministros

inferiores, arencel de derechos (tasse), y los demás, se observarán las pragmáticas y estilos antiguos...”; gli appelli si sarebbero decisi davanti al Consejo de Castilla. Prescriveva allo stesso

modo il Decreto che si mantenesse il Consulado de mar. Di conseguenza, il regno di Maiorca conservava il suo diritto civile, civile, mercantile e processuale.

La Catalogna, da ultima, restava il territorio più restio all’unificazione di un diritto che fosse espressione della volontà accentratrice della Monarchia borbonica: nel Decreto de Nueva Planta de

la Real Audiencia del Principado de Cataluña del 16 di gennaio del 1716 si ripresenta l’intento del

Decreto del 1707, volto ad abolire i fueros.

Il Decreto del 1716 era animato dalla volontà di confermare una sofferta supremazia della Corona di Castiglia sul territorio catalano; contro tale supremazia già nel 1640 la regione si era sollevata contro Filippo IV.

Tale Decreto è il più esteso di tutti quelli promulgati; in esso non si affronta solo la regolamentazione della Audiencia, ma si disciplina anche l’organizzazione territoriale, quella locale e alcun questioni di

Hacienda; per quanto concerne l’ autorità militare il Gobernador y Capitán General del Ejército y Principado, continuava a rivestire la qualità di rappresentante del re in Catalogna, disponendo di poteri

che praticamente non avevano limiti. Era anche a capo della Real Audiencia, assumendo in tal modo competenze di governo.

Delle questioni giudiziali veniva incaricata la Audiencia, che revisionava le sentenze e le decisioni delle altre autorità catalane.

Il Decreto del 1716 non faceva menzione del diritto civile, criminale, processuale e mercantile. Ciò fu interpretato dai giuristi catalani nel senso che le disposizioni che non venivano abrogate

espressamente nel Decreto del 1716, dovevano considerarsi ancora vigenti, precludendo il rinvio alle fonti castigliane quale diritto oggettivo integrativo.

In definitiva i Decretos de Nueva Planta istituirono un trattamento disuguale per ciascuno dei territori che formavano la Corona di Aragona: tutti persero il proprio ordinamento di diritto pubblico e le loro istituzioni politico-amministrative (come nel caso delle Cortes, della Diputación del General e del

Justicia Mayor de Aragón).

La Catalogna e il regno di Maiorca conservarono il loro diritto civile, criminale, processuale e mercantile, mentre il regno di Aragona il solo diritto civile; Valencia, da ultima, vide cancellato completamente il proprio ordinamento forale.

In secondo luogo le Cortes, pur sopravvivendo nei settori del diritto in precedenza menzionati, furono spogliate delle proprie competenze di aggiornamento e revisione dei fueros. Le fonti del diritto si trovavano allora concentrate nelle mani della Monarchia e divennero universalmente valide per tutti i territori annessi alla Corona di Castiglia.

La stessa vigenza dello ius commune appariva dubbia: a riguardo, nei Decretos de Nueva Planta, non si era fatta menzione del diritto suppletivo, il quale potesse identificarsi nello stesso ius commune. Sebbene, in ragione di un’interpretazione stretta dei Decretos, si potesse pensare che il diritto

suppletivo dovesse rimanere abrogato e in suo luogo si dovesse applicare il diritto castigliano, certo è che prosperò l’interpretazione contraria, secondo la quale lo ius commune continuò ad essere vigente come diritto sussidiario nei territori della Corona di Aragona, fatta eccezione per Valencia.

Va da ultimo ricordato, circa i Decretos de Nueva Planta, che gli stessi non portarono neppure all’unificazione pubblicistica di tutti i territori della Monarchia, poiché alcuni di essi, Navarra e le Province basche, conservarono i loro peculiari istituti di diritto pubblico (nonché di diritto privato) come premio per essere rimasti fedeli alla causa di Filippo V.

Se i secoli XVI e XVII marcarono il momento di auge e splendore dello ius commune, il secolo XVIII vide il declino dello stesso. A ciò contribuì il trionfo dell’assolutismo regio, scatenando la tensione Estado moderno-ius commune, che nelle frontiere spagnole, si realizzò in una dimensione tangibile.

Con i Decretos de Nueva Planta furono soppressi organi che contribuivano alla formazione del diritto proprio dei territori della Corona di Aragona. Questo significò, oltre a una quasi totale unificazione del diritto pubblico, il culmine del processo della statalizzazione della legge, nel senso

che, dato che il monarca incarnava lo Stato, la creazione normativa era considerata come uno degli attributi della sovranità; di conseguenza, il re e, dietro sua delega, il Consejo Real -ora con

competenze per tutta il territorio della Monarchia- non solo consolidarono il monopolio legislativo, ma tesero anche progressivamente ad occuparsi di un numero sempre maggiore di rami

dell’ordinamento.

Un primo passo in questo senso si può vedere nell’Auto Acordado del 4 di dicembre del 1713, nel quale si confermava l’ordine di prelazione delle fonti di Alcalá del 1348, confermato dalle Leyes de Toro del 1505 e nella Nueva Recopilación del 1567. El Consejo rappresentava la longa manus della Monarchia e perseguiva la finalità dell’applicazione esclusiva delle leggi del regno e il

mantenimento dello ius interpretandi quale prerogativa del re.

Il diritto romano continuava tuttavia a trovare un grande spazio nell’insegnamento universitario: un nuovo Auto Acordado del 1741 dispose che si studiassero “junto al Derecho de los romanos” le leggi del regno. Il diritto regio si doveva insegnare al fine di evidenziare le concordanze e divergenze con quello romano.

In questo modo si era giunti a una situazione di compromesso tra il diritto regio e quello romano. Molte critiche furono rivolte al diritto romano da parte dei giuristi (González de Frías, Medina y Flores, Mora y Jarabo…).

Da un altro lato, il divorzio esistente tra gli studi universitari e la pratica quotidiana e forense finì con generare tutta una letteratura di Prácticas civiles y criminales nelle quali si poneva manifesto il carattere superfluo del diritto romano e di quello canonico. A ciò si dovevano aggiungere le critiche da parte del giusnaturalismo razionalista, che allora iniziava a diffondersi in Spagna.

Il trionfo del diritto regio arrivò per mano delle riforme che introdusse Carlo III nelle Università spagnole e, specialmente, per mezza di quella del 1771 che stabilì un nuovo cursus studiorum nelle

Facultades de Leyes delle Università di Salamanca, Valladolid e Alcalá, che furono presto imitate

dagli altri atenei. Sebbene non si sopprimesse in forma radicale lo studio del diritto romano, si crearono cattedre specifiche per lo studio del Diritto regio sulla base dei titoli della Nueva

Recopilación198.

Tornando ai Decretos de Nueva Planta, questri rappresentarono dunque la volontà accentratrice della Monarchia borbonica, posta al centro di uno Stato assoluto todopoderoso, influenzato dal modello francese di Luigi XIV, ma anche da nuove istanze, largamente sostenute, volte a un regime di dispotismo illuminato.

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In seguito, con un Ordine del 29 di agosto del 1802, si stabilì che quattro dei dieci anni tra quelli di cui si

componevano gli studi di giurisprudenza fossero dedicati alla conoscenza del diritto regio o patrio; altri quattro al diritto romano e due alla pratica. Nel 1807 il piano di studi si ridusse a 8 anni, nei quali i primi due erano destinati al diritto romano e quattro allo studio del diritto regio.

In tale contesto l’introduzione dello studio patrio, e quindi regio, nelle Università a scapito del diritto comune ebbe un particolare significato ovvero quello di confermare, una volta di più, la predominanza dello Stato assoluto.

Guardando ancora all’organizzazione della Monarchia si può osservare come la costituzione

consuetudinaria, pactada tra la Corona e le Cortes, vada tramontando a tutto vantaggio della prima. A livello locale lo Stato appariva parimenti ramificato e presente, dal momento che le strutture periferiche e le autorità regie delegate prendevano il posto del complesso sistema polisinodial preesistente; l’influenza afrancesada si presentava dunque significativa.

Dal punto di vista economico venne iniziato, come già osservato, il processo di desamortización dei latifondi ecclesiastici, ma anche di quelli immobilizzati in ragione di maggioraschi nobiliari.

Si trattava, in definitiva, per la dinastia borbonica, dell’intento di sostituire al complesso sistema tradizionale delle autonomie locali un potere centralizzato che controllasse le zone periferiche del regno e che si articolasse per materie ben precise.

In tal senso, nel 1714, anno dell’ascesa al potere in Spagna del cardinale Alberoni, una volta

terminata la Guerra di Successione, la segreteria del Despacho, originariamente unica, venne divisa in quattro apparati, che ricordano la struttura dei moderni ministeri.

Il primo di essi si occupava degli affari inerenti, la guerra, la marina e le Indie; il secondo degli affari esteri; il terzo della giustizia e degli affari ecclesiastici; il quarto delle finanze.

I Ministri, a capo delle singole Segreterie, incominciarono a riunirsi per discutere delle questioni più delicate ed importanti per la vita dello Stato e al fine di coordinare l’azione politica.

Sotto il regno di Carlo III nacque l’usanza per i titolari dei vari Despachos di riunirsi e di discutere collegialmente affari comuni a più rami dell’amministrazione (quasi si trattasse di Consiglio dei ministri ante litteram).

Finalmente, nel 1787, si giunse alla creazione di una Junta Suprema del Estado, la cui attività di governo era disciplinata da un regolamento di 443 articoli, che però non servì all’efficiente funzionamento dell’organo.

La nuova Junta, infatti, presentava i difetti ben noti dei vecchi Consejos, e, in primis, una competenza che toccava spesso materie di portata assai generale e la complessità nell’adozione delle deliberazioni.

Il regno di Carlo III rappresentò dunque la massima espressione del dispotismo illuminato

spagnolo, sistema politico, che andrà decadendo, insieme a tutto il mondo dell’antico regime, sotto il regno del successore, il figlio Carlo IV che, salito al trono nel 1788 alla morte del padre, si mostrerà inerme di fronte al regime personalistico del Primo Ministro Manuel de Godoy (1767- 1851).

Tra i Ministri regi si annoverano dunque, sotto il regno di Carlo III, personaggi ilustrados e, più in generale, personalità che domineranno la vita politica anche negli anni di Carlo IV e dell’invasione napoleonica.

Tra questi vanno ricordati Pedro Pablo de Abarca y Bolea, conte di Aranda (1718-1798), Presidente del Consiglio di Castiglia199 tra il 1766 e il 1773 e predecessore di Godoy, che nel 1792, sfruttando l’opposizione del clero a Aranda, ne determinò la caduta; Aranda decise l’espulsione dei gesuiti e fu uno dei più grandi politici ilustrados del suo tempo.

Va annoverata poi la figura di Pedro Rodríguez de Campomanes (1723-1802), fiscal del Consiglio dal 1762 al 1783, e presidente dello stesso tra il 1783 e il 1791); questi indirizzò la propria linea politica tesa a rinvigorire la situazione economica adottando varie misure, tra le quali l’aumento delle tariffe doganali, la messa a cultura della Sierra Morena, la fondazione di una banca nazionale e l’abolizione di antichi privilegi.

Proprio Campomanes con il suo Tratado de la regalía de amortización (1765) si adoperò per impedire che ulteriori e estese proprietà fondiarie rimanessero immobilizzate nella mano della Chiesa.

L’opera venne tradotta fuori della Spagna e fu fonte di ispirazione per misure giurisdizionali, che tuttavia vennero bocciate dal Consiglio di Castiglia nel 1766.

Nello stesso consiglio sedeva poi José Moñino, conte di Floridablanca (1728-1808), uomo del dispotismo illuminato, ministro degli esteri, giustizia e affari ecclesiastici dal 1776 al 1792 e, in seguito, politico di spicco negli inizi della resistenza contro l’invasione napoleonica.

Altra figura riformatrice del regno di Carlo III fu certamente Leopoldo De Gregorio, Marchese di Squillace (1741-1785) (in spagnolo Esquilache), segretario al trono nel 1759 e ministro della guerra