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CAPITOLO 8: L’OSSESSIONE PER LA ROBA 8.1 Il concetto di «roba» ed il suo significato

8.3 Il romanzo Mastro-don Gesualdo

Il Mastro-don Gesualdo308 è uno dei romanzi italiani dell’Ottocento che più toc-cano i grandi processi di trasformazione che si sviluppano in Sicilia tra il 1820 ed il 1848.309 È la seconda opera del ciclo dei «Vinti»: venne pubblicato a puntate nel 1888 sulla «Nuova Antologia» e uscì in volume presso l’editore Treves un anno più tardi, ma datato 1890.

Esso è ambientato a Vizzini e narra la storia dell’omonimo protagonista, che da muratore (mastro) diventa, con fatica e dedizione, latifondista ed imprenditore borghese (don). Per permettersi tale ascesa sociale, decide di sposare Bianca Trao, appartenente ad una famiglia nobile in decadenza ed incinta del cugino Ninì Rubiera, con il quale aveva avuto una relazione prematrimoniale: il mastro-don sacrifica fin dall’inizio la sfera dei sentimenti (l’amore per Diodata, sua serva umile e fedele, dalla quale aveva avuto due figli), in nome dell’utile e del profitto. Le nozze non portano alcuna felicità a Gesualdo, che si sente escluso dall’aristocrazia locale, la quale non lo accetterà mai, a causa delle sue umili origini, e dalla moglie, che si dimostra fredda e distaccata nei suoi confronti.

Quando nasce la figlia Isabella, egli la educa con ogni cura, scegliendo per lei il collegio migliore ed ostacolando la sua relazione con Corrado, povero ed orfano, costrin-gendola poi ad accettare un matrimonio riparatore con il duca di Leyra, al quale Gesualdo si vede obbligato ad elargire buona parte del proprio patrimonio come dote per la ragazza. Nel frattempo la morte di Bianca, il rifiuto di partecipare ai moti insurrezionali del 1848 e l’assalto ai suoi magazzini lo spingono a rifugiarsi in campagna e poi presso l’odioso genero, a Palermo, dove la sua salute peggiora sempre di più ed in maniera inar-restabile a causa di un cancro incurabile. Tra l’indifferenza e l’ostilità di tutti gli abitanti del palazzo, compresi i domestici, Gesualdo muore in totale solitudine.

308Per il Mastro si è parlato di “realismo”, anche di tipo simbolico, più che di verismo, poiché tale romanzo presenta, a differenza de I Malavoglia, una forte valenza patetica, che allontana la narrazione dall’oggettività.

I fenomeni storici che si manifestano al tempo in cui si snoda la vicenda del ro-manzo sono la progressiva decadenza della vecchia aristocrazia agraria e l’ascesa di una nuova classe sociale, che cerca di sostituirsi ad essa in maniera sbrigativa e spregiudicata: si tratta di un processo che scatena egoismi ed individualismi, avidità e meccanismi di competizione tra gli uomini, tutti in lotta tra loro per migliorare la propria condizione.

L’opera, divisa in quattro parti piuttosto ampie, celebra la scalata di Gesualdo e le sue capacità di self-made man, anche attraverso le sue stesse riflessioni, che rievocano le tante sofferenze patite, le notti a vegliare, i sacrifici compiuti per riuscire ad arrivare dove si trova ora:

Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! […] Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. – Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche! … La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui! … Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del fi-gliuolo, per provare che era il padrone in casa sua! … Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un rosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria; - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi – le liti fra tutti loro, quando gli affari non andavano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi, per dire soltanto «vi saluto», le strette di mano inquiete, coll’oc-chio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore […].310

Il passo fornisce l’idea dell’epopea dolorosa che ha dovuto e voluto affrontare il protagonista per raggiugere quel grado di benessere di cui va tanto fiero: Gesualdo viene presentato alla stregua di un eroe, che affronta e supera dei riti iniziatici combattendo contro le condizioni sfavorevoli, come gli umili natali, la dura disciplina lavorativa, il sacrificio dell’amore per Diodata, fino a macchiarsi di hybris e ad iniziare una lenta ca-duta verso il basso, già preannunciata dall’atteggiamento della figlia nei suoi confronti:

Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliola l’allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao – bel guadagno che ci aveva fatto! – La piccina diceva sempre: - Io sono figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao.311

La rievocazione dell’ascesa del protagonista è preceduta dalla descrizione di una giornata lavorativa di Gesualdo, tutta improntata all’azione, al movimento, al dinamismo, alla concitazione, alla corsa per spostarsi di qua e di là, per tenere sotto controllo i nume-rosi affari: una rappresentazione, si potrebbe dire, che racchiude in sé lo «spirito del ca-pitalismo».312

Il paesaggio circostante è ricco di elementi carichi di significati simbolici negativi, funerei, che assurgono quasi al ruolo di portatori di tristi presagi per il protagonista: ciò si nota bene nei due viaggi da lui compiuti per recarsi dal frantoio di Giolio al paese e da quest’ultimo al cantiere: le case appaiono nerastre e rugginose, le croci dei campanili instabili, pronte a cadere da un momento all’altro, le rupi sono brulle, i monti foschi per via della caligine. Il sole picchia forte mentre i corvi gracchiano sinistri: è una visione allucinata, quasi onirica, della realtà, che prelude alla triste destinazione del tragitto del protagonista, che si sta, in verità, dirigendo verso la morte.

Tali immagini di decadenza ritornano anche nella vicenda della baronessa Ru-biera, madre di Ninì, colpita da apoplessia, provocata dai dispiaceri dovuti al figlio:

La baronessa stava lunga distesa sul letto, simile a un bue colpito dal macellaio, con tutto il sangue al viso e la lingua ciondoloni. La bile, i dispiaceri, tutti quegli umori cattivi che doveva averci accumulati sullo stomaco, le gorgogliavano dentro, le uscivano dalla bocca e dal naso, le colavano sul guanciale. E come volesse aiutarsi, ancora in quello stato, come cercasse di annaspare colle mani gonfie e grevi, come cercasse di chiamare aiuto, coi suoni inarticolati che s’impastavano nella bava vischiosa.313

La serva Rosaria accorre per aiutare la donna, tormentata da un male che la lascerà inchiodata ad una sedia per il resto della vita, senza che ella possa più muoversi o parlare, totalmente disumanizzata al punto tale da regredire alla condizione animale, tanto che la domestica dirà di lei, lamentandosene:

è diventata cattiva come un asino rosso! …Mangia come un lupo!314

311Ivi, p. 187.

312MASIELLO, Icone della modernità inquieta, pp. 92-104. 313Cfr. VERGA, Mastro-don Gesualdo, p. 179.

Si assiste, tra l’altro, ad un rovesciamento della prospettiva: all’inizio, quand’era in salute, era la Rubiera a dare della «bestia» alla propria serva, (della quale Verga sotto-linea l’aspetto spesso sporco, spettinato ed alquanto scimmiesco, con un procedimento di analogia zoomorfa), mentre, ora che è inferma e non può controbattere, viene ella stessa paragonata agli animali per il suo carattere insofferente e la sua voracità.

Tale descrizione della condizione di sfacelo della donna fa da anticipazione, da prefigurazione del destino di Gesualdo stesso: quasi come per una legge del contrappasso, tutti coloro che si dedicano alla «roba» ed alla ricchezza, finiscono per essere, in qualche modo, divorati dalla loro stessa manìa, come se scontassero, tutti in una volta, i tanti anni trascorsi a trascurare la propria salute, la propria famiglia, i propri sentimenti.