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Ryl I 58 (28) V d.C ∼ Maiuscola Ogivale Inclinata

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La molteplicità di fenomenologie grafiche che emergono da questo quadro permette forse qua e là di far luce sulla realtà culturale delle epoche e degli ambienti in

cui questi specimina del testo demostenico sono stati prodotti138.

Nella maggior parte dei casi è in uso una scrittura libraria, ovvero «una scrittura ‘adatta ai libri’, studiata in funzione di questi, quindi calligrafica o almeno chiara e

composta, alla quale l’opera letteraria potesse essere affidata»139. In due casi, tuttavia, si

trovano scritture riferibili a un ambito diverso.

Si è già notata la singolarità di P.Ryl. I 59 (1), che fin dall’origine, con buona probabilità, doveva essere un foglio isolato. La priorità cronologica tra le due facce non sarebbe di immediata identificazione, dal momento che la scrittura è perfibrale su entrambe le facce e mancano κολλήϲειϲ, se non fosse per un piccolo danno materiale che consente di affermare che il recto è individuabile nella faccia che contiene l’incipit del De Corona, ripetuto almeno sei volte. La peculiarità di questo esercizio grafico sta proprio nella scrittura in uso, una stilizzazione confrontabile con la celebre Maiuscola Cancelleresca di Subaziano Aquila, magistralmente rappresentata da P.Berol. inv.

11532140, datato al 27 dicembre 209 d.C. I motivi di interesse non finiscono qui, poiché,

sull’altra faccia, identificabile con il verso, si possono leggere le tracce di un emistichio omerico (Γ.130). In questo caso, l’innaturale inclinazione a sinistra dell’asse delle lettere e la morfologia dei caratteri permettono ancora una volta l’identificazione della scrittura con una maiuscola cancelleresca, riferibile però all’età adrianea. Anche su questa faccia, quindi, siamo davanti a un esercizio calligrafico, vergato non da un semplice scolaro, ma da una mano esperta che si esercita con una stilizzazione tipica della cancelleria. Ne deriva che, su entrambe le facce del supporto, la finalità dello scrivente fosse quella di guadagnarsi competenze professionali, con l’esercizio di calligrafie complesse ed elaborate. A tale scopo, però, è interessante rilevare che non si usa il testo di un documento, ma una breve frase tratta in un caso da Omero, nell’altro da Demostene.

Riflettendo su questo caso particolare, Turner141 sosteneva che: «The fact that a budding

chancery scribe should practice by coping a line of Demosthenes seems to confirm that

138 Su questo aspetto si veda TURNER 2002, p. 107.

139 CAVALLO 2005, p. 73. Sulla definizione di scrittura libraria si vedano anche HUNGER 1961, p. 77 e

TURNER - PARSONS 1987, pp. 1-4.

140 Per l’editio princeps cfr. ZUCKER 1910, pp. 710-713. Per l’analisi paleografica cfr. SCHUBART 1966,

pp. 87-89, CAVALLO 2005, pp. 216–249.

51 principle of the absence in the ancient world of a sharp division between bookhands and documentary hands […]». In realtà, per quanto autorevole sia tale parere, forse l’assunto andrebbe rivisto. P.Ryl. I 59, infatti, non può testimoniare il superamento di una divisione tra scritture documentarie e scritture librarie, poiché l’uso dei testi letterari che qui viene fatto è del tutto servile e strumentale all’esercizio di una mano che mira ad acquisire familiarità con la scrittura di cancelleria. Al di là dell’aspetto strettamente paleografico, pur fondamentale per confermare la lunga vitalità della cancelleresca di Subaziano Aquila e una sua fase di compresenza con la cancelleresca di età adrianea, è da notare l’elemento culturale messo in luce da P.Ryl. I 59: la conoscenza e l’utilizzo, seppure servile ed estemporaneo, di autori classici nell’ambiente della cancelleria, non solo Omero, classico tra i classici e fondamento della cultura greca, ma anche Demostene, con una delle sue orazioni più studiate.

Per il resto, i testimoni presi in analisi presentano scritture librarie, più o meno facilmente riconducibili a categorie o a stili individuati dagli studi paleografici e papirologici.

Tra le realizzazioni meno calligrafiche si trova P.Kellis inv. P00.23 (14). Il reperto, come si è visto, è un foglio di codice papiraceo ed è stato vergato da due mani differenti sulle due facce. Se è vero che la mano che verga il recto ha un ductus più rapido

di quella che verga il verso, d’altro canto entrambe sono accomunate da un livello di

formalismo molto basso. L’asse ha un’incostante inclinazione a destra, il polimorfismo è frequente, così come ricorrenti sono legature e pseudo-legature. Riferibile su base archeologica e su base paleografica al IV secolo d.C., il frammento doveva provenire da un codice concepito al più come strumento di studio e di lavoro. Un caso simile è rappresentato da P.Köln XIII 498 (25), riferibile al II sec. d.C. e vergato in una scrittura semi-corsiva, che ha poco delle caratteristiche della libraria. Nonostante le dimensioni esigue del frammento, infatti, si possono notare la morfologia delle lettere, che riduce i tempi di esecuzione, l’incertezza nell’asse di inclinazione, la tendenza alle pseudo- legature e lo scarso rispetto per il rigo, tutti elementi tipici di una scrittura rapida, poco curata, propria di una mano forse attenta più al contenuto, che alla resa estetica del volumen.

Vista anche la distribuzione cronologica dei testimoni tra II e III secolo d.C., non stupisce che la maggior parte dei reperti sia vergata con librarie informali rotonde, non

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riconducibili a un unico stile, ma accomunate da un certo gusto per la rotondità unimodulare dei caratteri. In realtà, il grado di formalità raggiunto è differenziato. Nella maggior parte dei casi (3, 4, 5, 8, 24) la pretesa estetica è piuttosto bassa, la mano è rapida, le lettere ammettono diverse realizzazioni, il rispetto per il bilinearismo è scarso. In qualche caso (2, 13, 21, 22), invece, l’attenzione formale è maggiore, fino a raggiungere

livelli di attenzione calligrafica nel complesso molto buoni (10), con una impression

d'ensemble decisamente gradevole, per un rotolo che certamente doveva essere di buona qualità. La scrittura di P.Cair.Mich. II 9 (15), inoltre, si inserisce nelle scritture rotonde, ma mostra un grado di formalità alto; anche in questo caso, l’analisi congiunta degli aspetti bibliologici e paleografici conferma che il frammento doveva far parte di un rotolo di buon livello.

Sempre guardando alla distribuzione cronologica dei reperti, non stupisce che numerose siano anche le attestazioni di quello che Schubart individuò come Stile

Severo142. Lo caratterizza il marcato contrasto modulare tra le lettere e, tendenzialmente,

l’assenza di apici ornamentali. Oggi, più che parlare di Stile, si preferisce fare appello al concetto di “Classe Stilistica”, definizione che riesce a raggruppare testimoni che, al di là di certi elementi analoghi e caratterizzanti della loro classe, mostrino anche declinazioni differenti. I reperti che meglio esprimono questa stilizzazione sono quattro (6, 9, 12, 26).

P.Oxy. III 462 (6), come si è visto, univa una facies grafica curata ed elegante a

dimensioni considerevoli, vista l’altezza della colonna di scrittura e del rotolo. Un testimone (17) contiene una scrittura assimilabile a questa stilizzazione, ma decorata con piccoli ripiegamenti e apici terminali, di per sé estranei alla definizione di Schubart. Analogo il caso di un altro papiro (29), dove pure si ravvisano eleganti apicature terminali, inserite però in un tessuto grafico differente, in cui il ductus è più posato e il disegno delle lettere è meticoloso. In un ultimo caso, PSI XIV 1395 (7), invece, si osserva una mano che, pur guardando ancora allo Stile Severo, realizza un prodotto grafico ormai piuttosto lontano dal suo ideale. L’inclinazione a destra dell’asse è decisa, il polimorfismo

è frequente, molto scarsa è la cura nel disegno delle lettere e nella mise en page. La

142 La definizione dello Stile Severo è di SCHUBART 1925, pp. 124-132. A riguardo, però, si vedano anche

CAVALLO 2008, pp. 105-111 e DEL CORSO 2006, pp. 81-106, dove si trova anche la proposta di un criterio datante sulla base dell’inclinazione dell’asse. In ultimo, si veda il contributo di FUNGHI – MESSERI 1989, pp. 37-42, sulla scrittura di P.Oxy. II 223 + P.Köln V 210 e sulla presenza di un filone “apicato” interno allo Stile Severo.

53 datazione è a cavallo tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d.C. Come detto, questo testimone rappresenta anche una precoce attestazione di codice papiraceo, un prodotto che, sul nascere, assolveva a necessità di uso pratico, senza troppe attenzioni per la resa estetica.

Un testimone (20) è redatto in una scrittura riconducibile allo “Stile P.Herc.

1050”143, con un’esecuzione che è però piuttosto sciatta. Una libraria semi-formale è

quella di P.Oxy. XI 1377 (19). Tale testimone, con ampi margini, altezza del rotolo ragguardevole e lunghezza particolarmente estesa, doveva essere un prodotto non di basso livello, vergato con una scrittura che, sebbene non calligrafica, risulta nel complesso gradevole.