3 “L’emergenza” dei profughi di guerra: prime prove di gestione
3.3. LA SECONDA GUERRA MONDIALE E LA CONVENZIONE DI GINEVRA
Il diritto internazionale dei rifugiati ha le sue origini come abbiamo visto nel periodo tra le due guerre. Tuttavia sin dal principio è stato sempre sottoposto al conflitto tra il diritto di asilo e la sovranità nazionale e i suoi egoismi che in questa fase hanno sicuramente prevalso. I tre strumenti di analisi presi in considerazione nel capitolo precedente non sono più distinguibili, o almeno non sono più strumentali alla costruzione di un diritto internazionale o per meglio dire sovranazionale.
Se è vero che soprattutto dopo la seconda guerra mondiale si cerca di costruire un diritto internazionale universale che possa valere per tuti i rifugiati, è vero anche che la forza dell’elemento nazionale prevale indiscutibilmente, riducendo il rapporto tra soggetto e potere ad un’accettabilità subordinata a determinate condizioni d’inclusione che non solo non possono prescindere dall’elemento nazionale ma che ne sono fortemente influenzate e dipendenti.
Abbiamo visto come in Francia, nonostante la breve esperienza del Fronte Nazionale, gli egoismi e la lotta antisemita e xenofoba non siano affatto sopiti ma anzi crescenti. Anche nel resto d’Europa e non solo assistiamo al montare incessante degli egoismi nazionali che tentano gli uni di prevaricare sugli altri. Il trionfo dei nazionalismi negli anni trenta ha spinto fino al parossismo i principi nati circa mezzo secolo prima; in Spagna ad esempio questo si traduce in una guerra civile che obbliga circa mezzo milione di repubblicani ad attraversare i Pirenei con risultati catastrofici. In Germania la difesa “dell’identità tedesca” da parte del partito nazional-‐socialista porta ad una politica etnica che conduce a degli spostamenti massicci di popolazione.
Nel 1935 le leggi di Norimberga privano delle loro nazionalità diverse centinaia di ebrei tedeschi spingendone un gran numero all’esilio. A partire dal 1938 le annessioni territoriali in Europa centrale si accompagnano ad una politica di raggruppamento dei coloni tedeschi affidata all’organismo delle SS, il Volksdeutsche Mittelstelle (VOMI), che assicura il trasporto l’indottrinamento politico degli individui “di origine tedesca”.
Con questo piano circa cinquecentomila tra loro vengono spostati dalle regioni annesse alla Germania nel 1939 e una parte viene arruolata nel Waffen SS o nello STO. Le frontiere dell’Europa centrale sono necessariamente riorganizzate.
Gli stati baltici, la Bielorussia e l’Ucraina vengono separate dall’URSS grazie all’oculata politica di Hitler che mette a profitto il nazionalismo dilagante in queste regioni e l’odio per il comunismo. Vengono spostate nei territori annessi nell’Europa dell’Est le popolazioni considerate come “etnicamente” tedesche, i veri Ariani e quelle più politicamente affidabili: in particolare questo avviene in Austria nei Sudeti ma soprattutto nelle regioni di recente annessione dell’Europa dell’est.
Senza contare che quando gli Alleati iniziano a bombardare massicciamente la Germania si organizza un’evacuazione di civili, soprattutto donne e bambini verso la Slovacchia, l’Ungheria ecc. tanto che si stima che nel 1943 circa due milioni e mezzo di cittadini tedeschi vivessero fuori dalle frontiere.
E’ vero anche che l’avanzata dell’Armata Rossa sancisce l’inizio di un movimento inverso per cui queste popolazioni si spostano in fretta verso la Polonia, la Jugoslavia e l’Austria.94
Anche la politica di Stalin, in misura minore, porta a dei movimenti dello stesso tipo: l’annessione della Polonia porta a degli spostamenti massicci d’individui verso la Siberia, gli Urali o il Caucaso per sopperire alla mancanza di manodopera. Nel 1940-‐41, l’URSS occupa i paesi baltici e procede ad un’epurazione radicale; vagoni pieni di persone vengono deportati in Siberia.
La firma dell’armistizio non mette fine a questo movimento incessante anzi al contrario; gli alleati decidono a loro volta, con la Conferenza di Postdam del 1945, di trasferire in Germania nove milioni di persone di “origine tedesca” stabilite nei campi di rifugiati e esposti all’odio delle popolazioni vicine.
A questi si aggiungono i prigionieri di guerra, i nuovi rifugiati che a partire dal 1945 fuggono dall’URSS e i paesi satelliti per non essere sottoposti al giogo comunista e ottocentocinquanta mila refrattari che rifiutano di rientrare nei paesi sotto il controllo sovietico. Senza contare i milioni di rifugiati che la guerra ha provocato fuori dall’Europa, specialmente in Asia.95
Tornando alla guerra possiamo dire che essa rappresenta più di ogni altro evento un tornante decisivo nell’evoluzione del diritto di asilo, per una serie di motivi, sia perché da una parte provoca l’indebolimento generale degli Stati europei,
94 Cfr.. J. Vernant, Les Réfugiés dans l’après-‐guèrre, Monaco, Editions du Rocher, 1953. 95 Noiriel, Réfugiés et sans papiers, cit. pp. 117-‐120.
dall’altra perché contribuisce a mettere in moto il movimento di rifugiati più massiccio che il mondo abbia mai conosciuto.
Si è stimato che circa trenta milioni di persone siano state obbligate a fuggire il loro luogo di abitazione abituale in quell’epoca.
Come specifica Lisa Malkki:
“The Refugee as a specific social category and legal problem of global dimensions did not exist in its full modern form before this period. There were specific displaced populations and treaties, but not a more encompassing apparauts of administratives procedures. The standardizing, globalizing process of the immediate postwar years occurred, importantly, in the istitutional domain of refugee camp administration, and in the emerging legal domain of refugee law.”96
Come evidenziato da questo breve estratto bisogna tener conto del fatto che in realtà non è che prima della seconda guerra mondiale i rifugiati non esistessero, o il problema non si fosse posto, diciamo che veniva posto in termini diversi.
Abbiamo visto ad esempio le misure prese da Nansen che vedeva l’emergenza come temporanea e sperava di risolverla con la questione del rimpatrio, o gli innumerevoli trattati e accordi internazionali tutti inevitabilmente sottoposti alla logica degli interessi nazionali. Come sostiene la Malkki il rifugiato come specifica categoria sociale e come specifico problema legale inizia ad esistere in seguito al secondo conflitto mondiale grazie alla creazione di un apparato amministrativo e alla messa in pratica di procedure specifiche per risolvere la questione che raggiunge in quel periodo proporzioni inimmaginate.
Fu attraverso la seconda guerra mondiale che il campo profughi divenne impiegato come una misura standard e generalizzabile nel gestire una diaspora di massa. Il campo profughi inizia a rappresentare uno strumento vitale di potere, il concentramento spaziale e ordinato di persone che esso implica facilita le procedure burocratiche e amministrative e comporta importantissime conseguenze sul lungo periodo.
3.3.1. Lo spazio “deterritorializzato” dei rifugiati: l’approccio dei refugee studies.
A questo punto apriamo una piccola parentesi sul concetto di spazio nei refugee studies.
In questo campo di studi l’esperienza dei rifugiati acquista una specifica dimensione in relazione ad alcuni strumenti di analisi e in particolare proprio a quello del sottile equilibrio fra spazi etnico-‐culturali/nazionali/internazionali. Nei refugee studies il dibattito si è concentrato, soprattutto a partire dagli anni ’90, sulle relazioni tra persone/luogo e identità.
All’interno di questi studi la principale distinzione può essere fatta tra due concezioni dello spazio: il primo approccio concepisce lo spazio come statico, come una superficie immobile e in esso il luogo è rappresentato come un posto fisso, che non cambia e unico.
Secondo questa concezione ogni persona ha un posto naturale nel mondo così i rifugiati strappati al loro luogo di origine, sono necessariamente privati della propria cultura e della propria identità. Questa concezione spesso si accompagna all’idea di appartenenza delle persone non solo a uno spazio in particolare ma anche ad una nazione, considerata omogenea, tanto per identità quanto per cultura.
Lo status di rifugiato è strettamente connesso a questa idea: quando una persona è costretta a muoversi dal proprio luogo di origine questo pone una sfida al “national order of things”.97
Secondo questa concezione il rapporto tra persone, spazio e identità è statico e fisso quindi è evidente come lo spazio “de-‐territorializzato” rappresenti sempre un ordine, per quanto nuovo, ad ogni modo temporaneo: rappresentare il rifugiato come un” fuori-‐luogo”, un “non soggetto” significa sempre attribuirgli una temporaneità nel loro luogo di arrivo molto forte. Il rifugiato non appartiene mai al territorio in cui chiede asilo. Le soluzioni che si prospettano indicano sempre, necessariamente, la fine di questo status per l'appunto precario, tramite l’integrazione o la “ri-‐localizzazione”, o il rimpatrio, forzato o volontario. Vedere l’integrazione o la “ri-‐localizzazione” come una soluzione al problema dei rifugiati è un’idea basata sulla concezione pe cui il rifugiato assorbirà la cultura del nuovo paese e rigetterà nel tempo la sua “vecchia identità”.
Abbiamo visto inoltre come il rimpatrio è stato a lungo percepito come il modo più naturale di risolvere il problema che in realtà appunto non veniva contestualizzato nei giusti termini e dimensioni perché era appunto specchio di una visione statica del rapporto tra persone identità e luoghi, cosa che diventa sempre più difficile accettare perché in sostanza non concepisce lo spazio multiculturale.
Una seconda concezione, contestando la prima, concepisce lo spazio come separato dall’identità in modo tale che una persona costretta a spostarsi dal suo luogo di origine non perda la propria identità e capacità di esercitare il potere. Questa idea suggerisce una perdita della stretta connessione tra spazio e persone, considerando il fatto che molti individui nel mondo vivono in uno spazio “deterritorializzato” e che questo dà luogo ad un’infinita possibilità di nuove organizzazioni sociali.
Solo in questo senso si può concepire il multiculturalismo e la “riterritorializzazione” intesa come possibilità di perdere un territorio ma di poterne costruire uno nuovo, una nuova comunità che può essere anche in un campo profughi, lo spazio “deterritorializzato” per eccellenza.
Questa seconda visione suggerisce che il proprio posto sia costruito a partire da una molteplicità di relazioni sociali attraverso lo spazio, in cui si trova il luogo, la propria sistemazione intesa come un particolare momento di quella rete di relazioni, una particolare articolazione. 98
Sebbene molti rifugiati sognino una vita altrove, aspirino a esistere in un altro luogo è vero che in realtà vivono fisicamente nel presente in uno spazio costruito dalle loro azioni che li rende, almeno per quanto concerne la loro collocazione spaziale, non più vittime inermi ma agenti in azione per se stessi e per la propria identità. Può sembrare contraddittorio pensare che i migranti vivano in un determinato posto ma che in realtà vagheggino di vivere altrove ma è anche questo che costruisce il loro nuovo posto e la loro cultura.
“Riterritorializzare” in un certo senso significherebbe proprio ricomporre questa contraddizione ricostruire uno spazio di vita quotidiana con nuovi confini, nuovi rapporti di potere. Lo spazio deterritorializzato del campo implica che i rifugiati
98 Cathrine Brun, “Reterritorializing the Relationship between People and Place in Refugee Studies”, in
debbano attraversare dei confini nazionali ben definiti per raggiungerlo e trovarsi poi all’interno di uno spazio costruito al di fuori della comunità che di fatto appunto implica il loro essere degli “out of place”.
Ancora più che per i migranti spinti da ragioni economiche per i rifugiati la “deterritorializzazione” rappresenta non solo uno spazio simbolico ma “uno spazio di negoziazione giuridica e politico-‐istituzionale fra il singolo individuo, la comunità di appartenenza e gli stati-‐nazione, e fra questi e la comunità internazionale”.99
All’interno dello spazio “deterritorializzato” bisogna tenere in considerazione inoltre la ridefinizione dei rapporti tanto tra i rifugiati stessi che tra i membri delle organizzazioni giuridiche e internazionali umanitarie e non.
La condizione dei rifugiati rappresenta inoltre una sfida per le democrazie moderne in quanto descrive un nuovo concetto di cittadinanza sganciato dall’appartenenza allo stato-‐nazione che costringe gli stati stessi a trovare nuove forme di comunicazione e mediazione rappresentando inoltre l’elemento fondamentale di ridefinizione dell’ordine internazionale..
Il modo, dunque, con cui rappresentiamo lo spazio è fondamentalmente politico ed ha delle implicazioni nel modo in cui raffiguriamo i profughi soprattutto per quanto riguarda le politiche messe in atto. In particolare quelle adottate dopo la seconda guerra mondiale hanno delle conseguenze di portata epocale; la segregazione di nazionalità intere, l’organizzazione ordinata del rimpatrio e della “ri-‐stabilizzazione” del terzo mondo, programmi medici e d’igiene, quarantene, l’accumulazione di documentazione sugli abitanti dei campi, il controllo dei movimenti e il mercato nero, rafforzamento di leggi e disciplina pubblica, scolarizzazione e riabilitazione alcune delle operazioni che la concentrazione spaziale implica e facilita.. 100
Proprio attraverso questo processo il moderno concetto postbellico di rifugiato emerge come una figura nominabile e un oggetto di conoscenza sociale e scientifica.101
99 Salvatici, Profughe, cit. p. 12
100 Malkki, “From “Refugee studies”to the National Order of Things”, cit., p.498. 101 Ivi.
Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale o spesso anche alla fine della stessa, vennero scritte delle storie sociali e una serie di altri documenti descrittivi sui campi della seconda guerra mondiale che risultano molto utili dal nostro punto di vista per comprendere come realmente venivano messe in atto le pratiche del potere associate alla cura e al controllo dei rifugiati.
Attenti studi di questa prima letteratura hanno mostrato che in realtà agli inizi il problema dei rifugiati non era stato affrontato come un problema internazionale dalle istituzioni. Al contrario negli ultimi anni della guerra e nell’immediato dopo guerra il problema venne identificato come una responsabilità militare e fu affidato alla giurisdizione dello SHAEF( Supreme Headquarter Allied Expeditionary Force).
Durante gli ultimi due anni di guerra iniziò a farsi strada l’idea che in realtà al termine del conflitto si sarebbe trattato di far fronte ad un enorme problema concentrato soprattutto in Germania. Iniziano ad occuparsi della questione anche numerose agenzie di volontari come la Croce Rossa che mettono in atto dei piani specifici per risolvere l’emergenza.
Anche in termini spaziali il modello militare è stato importante; l’amara ironia sta nel fatto che molti dei centinaia di campi di concentramento e di lavoro in Germania furono riabilitati a “Centri di Assembramento” per rifugiati quando la guerra terminò.102
La stessa architettura del campo di concentramento era militare e soprattutto studiata appunto per la concentrazione massiccia di persone che poteva essere utile per contenere le epidemie ad esempio. Molte associazioni civili umanitarie internazionali affiancarono lo SHAEF nella messa in pratica del piano, non senza critiche sulla questione della concentrazione coatta di persone. Infine nel 1951 fu creato l’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees).
A questo punto la questione iniziava già ad essere percepita più che altro come un problema sociale e umanitario internazionale che un’emergenza o responsabilità militare. In questa trasformazione da problema militare a sociale il campo svolse un ruolo importantissimo perché rese accessibile alle persone un’ampia gamma d’interventi, inclusi studi e documentazioni; la figura stessa del rifugiato del dopoguerra prese piede per la maggior parte proprio a partire da questi campi.
I rifugiati e i profughi in generale nei primi anni 40 sono una componente essenziale per comprendere la vita europea di quel periodo. Si deve inoltre considerare che la legislazione internazionale sui rifugiati e gli strumenti legali ad essa correlati ebbero come movente principale quello che può essere considerato il grande senso di colpa, di vergogna e di responsabilità nei confronti di persone che fuggivano dall’olocausto ma a cui fu negata l’accoglienza proprio nel momento in cui avevano più bisogno di asilo. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino fu adottata nel 1948. Come ha osservato Nobel “Refugee law is an inseparable part of the code of Human Rights”103
Inoltre l’articolo 14.1 della Dichiarazione stabilisce che “Everyone has the right to seek and to enjoy in other countries asylum from persecution”. La legislazione internazionale che concerne i rifugiati si sviluppa proprio a partire dalle elaborazioni che scaturiscono dal codice dei diritti umani.
La definizione più universale tra le definizioni legali del rifugiato proviene dalla Convenzione di Ginevra del 1951 con soggetto lo status dei rifugiati; fu considerato l’evento critico nell’istituzionalizzazione del regime di gestione delle migrazioni del secondo dopoguerra:
“The term refugee shall apply to any person who…owing to well-‐founded fear of being persecuted for reason of race, religion, nationality, membership of a particular social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is unable or, owing to such fear, is unwilling to avail himself of the protection of that country; or who, not having a nationality and being outside the country of his former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such fear, is unwilling to return it.”104
La definizione contenuta nella Convenzione di Ginevra è sicuramente più inclusiva dei trattati caso-‐per-‐caso fissati fino a quel momento anche se bisogna sottolineare che tutto ciò fu concepito per risolvere il problema dei rifugiati in Europa e ancora non per intenderlo come un fenomeno di portata universale.
103 Nobel P, Refugees and Developmente in Africa, Uppsala, Sweden: Scand. Inst. Afr. Stud., ed 1987, in Malkki op. cit. p.500.
In risposta ai limiti della Convenzione vennero adottati diversi strumenti legali. Ad esempio il Protocollo del 1967 risolse l’eurocentrismo della Convenzione estendendo lo statuto ad una serie di paesi extraeuropei e divenne lo strumento universale della legge sui rifugiati.
La Convenzione di Ginevra rappresenta l’apoteosi di una certa concezione dell’asilo; come mostra Luc Legoux si può dire che abbia due facce, l’una visibile l’altra magistralmente nascosta. La faccia visibile è chiaramente quella in cui vengono difesi i diritti umani, in cui emerge il suo impegno verso la libertà dell’essere e di pensare perfettamente esplicita nella sua definizione del rifugiato come abbiamo appena visto, ossia il fatto che lo statuto riguardi delle persone che temono un particolare tipo di persecuzione legata alla propria appartenenza (razza, religione, nazionalità, gruppo sociale, opinioni politiche). Questa definizione non è né neutra né tantomeno umanitaria perché non riguarda l’uomo in generale a prescindere dalle sue azioni dato che i dittatori e i loro sicari ne sono espressamente esclusi.
La faccia nascosta è in realtà espressa in una frase del preambolo della Convenzione in cui si esprime:
“Le voeu que tous les Etats, reconnaissent le caractère social et humanitaire du problème des réfugiés, fassent tout ce qui est en leur pouvoir pour éviter que ce problème ne devienne une cause de tension entre Etats.”
Risulta evidente dunque come in realtà la faccia nascosta della Convenzione implichi che la difesa della libertà sia subordinata alle relazioni tra gli Stati, ossia ad esempio nel caso in cui lo Stato persecutore sia uno Stato amico, i rifugiati non possono essere accolti che a titolo umanitari.
Ad esempio i dissidenti dei paesi comunisti venivano da un regime nemico in occidente e difendere la loro libertà significava appunto difendere l’ordine capitalista stabilito dai paesi occidentali. I dissidenti dei paesi capitalisti non ebbero la stessa fortuna e la loro accoglienza fu sempre trattata con più riservatezza. Questa duplice e ambiguo aspetto spiega un po’ le evoluzioni successive del diritto di asilo, i limiti della Convenzione e l’impossibilità per una normativa internazionale di essere veramente sovranazionale..105
Da questo importante limite scaturisce una conseguenza fondamentale, gli Stati sono lasciati liberi nell’applicazione della Convenzione, ciò significa che sono appunto liberi di subordinare la sua applicazione, nel proprio territorio, agli interessi della singola nazione. Proprio questa mancanza darà luogo alle successive diverse interpretazioni dello Statuto e legittimerà il ricorso, ormai sempre più frequente, a misure ad hoc per ogni situazione specifica che, a regola, richiederebbe l’applicazione dello Statuto di Ginevra.