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C Seguaci di Powers alle esposizioni dell'Accademia fra il 1842 e il 1848 (Shobal Vail Clevenger e Joseph Mozier).

Parte IV. Scultori statunitensi all'Accademia di Belle Arti: 1828-1850.

IV- C Seguaci di Powers alle esposizioni dell'Accademia fra il 1842 e il 1848 (Shobal Vail Clevenger e Joseph Mozier).

In un articolo del «Boston Miscellany of Literature and Fashion» del 1 gennaio 1842, Edward Everett dava conto della presenza di scultori americani in Italia. «At the present time, besides several artists of great merit or great promise living at home, there are several in Italy, who have either already attained or bid fair to attain a degree of excellence, which would reflect credit on any country in any period»423. Egli individuava, a Roma, lo scultore Crawford, e, a Firenze, Horatio Greenough, Hiram Powers, e, particolarmente, Shobal Vail Clevenger.

Quest'ultimo proveniva da Cincinnati (città natale di Powers), nell'Ohio, dov'era nato il 22 ottobre 1812424. Era il terzo figlio di dieci fratelli. Pochi anni dopo la nascita di Shobal, la famiglia si trasferì da Cincinnati a Ridgeville e, successivamente, a Indian Creek. All'età di quindici anni Clevenger abbandonò i genitori per trasferirsi con uno dei suoi fratelli a Centerville, sempre nell'Ohio, e qui divenne uno stone cutter, potenziando un'innata capacità per l'arte plastica che poi migliorò quando, poco più grande, a Louisville, nel Kentucky, entrò nello studio di un certo Guiou. 422 «Giornale del Commercio», 7 ottobre 1846.

423 Everett, 1842.

424 Su Clevenger vedi «Southern Literary Messenger», aprile 1839 (5, 4, p. 262), e, in particolare, Brumbaugh, 1966; sui rapporti fra quello scultore e il milieu artistico fiorentino vedi, invece, Hyland, 1981, pp. 252-256.

Dopo aver sposato Miss Elizabeth Wright, Clevenger si recò in Europa per perfezionarsi nella scultura. Fu quindi a Parigi e, dopo poco tempo, a Firenze, città nella quale giunse in compagnia della moglie negli ultimi mesi del 1840. In Toscana rimase per qualche anno, dopodiché si trasferì a Roma. A Firenze, col tramite di Powers, trovò una sistemazione e uno studio provvisorio che abbandonò esattamente un anno dopo, quando ne prese in affitto un altro, in via de' Serragli, che condivise con lo scultore Henry Kirke Brown, conosciuto alcuni anni prima a Cincinnati.

Clevenger fu in Toscana per studiare i capolavori della scultura rinascimentale custoditi nella capitale. Ciò, gli avrebbe permesso di affinare uno stile fino a quel momento rozzo, frutto della volontà dello scultore di avvicinarsi il più possibile al vero lavorando direttamente sul «rude block, without molding any model previously in clay, with the living form before him, and with chisel in hand, in his little shop»425.

L'Accademia di Belle Arti di Firenze fu per lui, così come per tutti gli altri scultori americani che, oltre a Powers, fra i primi anni Quaranta e l'inizio del decennio successivo esposero frequentemente alle mostre autunnali (Chauncey Bradley Ives, Joseph Mozier, e Alexander Galt426), l'occasione per farsi conoscere, contribuendo nel contempo al consolidamento del gusto estetico locale. L'eclettismo che caratterizzava l'arte fiorentina nel quinto decennio del secolo ammetteva – almeno in scultura –, da un lato, opere ispirate al più crudo naturalismo, di cui Dupré, come dicevamo, fu il maggiore interprete, almeno nei primi anni Quaranta; e, dall'altro, opere in cui la natura veniva studiata attraverso il filtro di reminiscenze greco-romane e rinascimentali, secondo un indirizzo che trovava la sua piena affermazione nell'opera di Pietro Tenerani e di Luigi Pampaloni. Quest'ultimo, difatti, calibrando la commistione di elementi dedotti da quelle due epoche, scolpì pezzi che, per un verso, muovevano «sentimenti dolcissimi», e, per l'altro, appagavano lo sguardo con composizioni eleganti e armoniche427.

425 Everett, 1842.

426 Chauncey Bradley Ives espose un busto virile in marmo alla mostra del 1846 (vedi «Gazzetta di Firenze», nr. 120, 6 ottobre 1846); Joseph Mozier inviò all'esposizione dell'Accademia del 1847, come vedremo, il busto di Pocahontas e un busto di «Gentiluomo Americano» in marmo di Seravezza (vedi «Gazzetta di Firenze», nr. 119, 5 ottobre 1847), e, in quella del 1850, un ritratto d'un pittore americano (vedi AABAFi, Atti dell'Accademia dal 1840 al 1858, 6.1/2, p. 222); infine, Alexander Galt esibì alla mostra del 1852 un busto virile (ivi, p. 332).

In accordo con quanti desideravano riscontrare nei ritratti l'assoluto rispetto per fisionomie «quanto mai dir si possano fedeli» al vero428, fra il 1841 e il '42, a fianco dei busti virili di marmo di Powers cui abbiamo fatto già cenno, caratterizzati da una «squisitezza inestimabile»429, Clevenger espose all'Accademia fiorentina alcuni suoi lavori. Si trattava anche in questo caso di busti virili, oggi dispersi – ma che crederemmo non dissimili dai lavori contemporanei di Powers –, la cui «bellezza» (il «Giornale del Commercio» li definì «belli»430) poté esser valorizzata dalla vicinanza di pezzi eseguiti, oltre che dal collega statunitense, da un gruppo di toscani. Fra questi ultimi, c'era l'aretino Benedetto Mori, che da poco aveva eseguito un busto colossale raffigurante il granduca Leopoldo II esponeva un gruppo di ritratti; ma anche lo stesso Dupré, che nel '42 mostrò al pubblico il gesso del suo Abele morente, o, infine, Vincenzo Consani, il cui Teschio del

Precursore fu lodato alla mostra del '42 per l'accuratezza con cui l'autore

aveva imitato le carni e i «bene sfilati e morbidi capelli» del modello431. La composizione e, soprattutto, la purezza formale della citata Proserpina di Powers, esposta come dicevamo alla mostra autunnale dell'Accademia fiorentina nel 1846, fu il modello su cui il collega statunitense Joseph Mozier, giunto in Toscana entro la metà del 1846, compose un busto ideale di Pocahontas (Fig. 76) che poi espose all'istituzione fiorentina nell'ottobre del 1847 insieme ad un ritratto «di un Gentiluomo americano» scolpito in marmo di Seravezza432.

Il «busto in marmo di femmina indiana», oggi conservato al Peabody Institute di Baltimora, combinava «classic beauty with the peculiarities of the Indian physiognomy, and the queenly expression which is said to have belonged to the savage heroine»433. L'opera fu probabilmente scelta dal 428 Vedi A.Z., Busto colossale in marmo rappresentante l'Augusto Leopoldo II scolpito da Benedetto Mori d'Arezzo, in «Giornale del Commercio», 8 settembre 1841.

429 Vedi Izunnia, 1842 (E). 430 Ibidem.

431 Vedi ibidem: «Il teschio del Precursore del sig. L. Consani. Premio a lusinghiera danza della giovinetta Salome è già collocata nel bacile la testa di Lui che additò il Redentore. Chiusi ha gli occhi per non vedere l'abominazine della corte di Antipa, ma credi che ancora dalla socchiusa bocca esca un rimprovero all'incestuoso, e alla superba e impudica Erodiade. Gli austeri lineamenti su cui stese un misterioso velame la morte presentano una maestà religiosa che colpisce. L'esecuzione è accurata nelle carni e ne' bene sfilati e morbidi capelli: solo avrei bramato che il morto capo fosse posto in modo da riposar naturalmente sul piatto fatale».

432 Vedi «Gazzetta di Firenze», nr. 119, 5 ottobre 1847. Pochi sono gli studi su Mozier: rimando soprattutto al capitolo sullo scultore in Hyland, 1981, pp. 266-269.

collegio accademico perché ispirasse l'osservatore a perdersi nella bellezza neogreca ed esotica dell'eroina vissuta in un tempo e in un luogo lontano, e, al tempo stesso, a scorgere oltre la sua apparente sensualità (la fanciulla mostra un seno scoperto) la purezza d'un animo non ancora contaminato dall'incontro con quella civiltà inglese che occupò i territori della Virginia dove Pocahontas nacque e crebbe.

«Ogni opera d'arte, la quale non esprime un'idea, non significa nulla», diceva lo spiritualista Victor Cousin, le cui idee penetrarono a Firenze l'anno prima dell'esposizione del busto raffigurante Pocahontas, tempo in cui «La Rivista» pubblicò la traduzione italiana del suo celebre saggio sul Bello e

l'arte434. Cousin sosteneva che la pittura e la scultura fossero lo strumento per penetrare l'animo di chiunque, incidendo lo spirito «fino all'intelletto, fino all'anima e vi arrechi un pensiero, v'insinui un'idea, v'instilli un sentimento capace di elevare o di commuovere»435. «L'istoria», diceva Cousin, pure quella d'una fanciulla selvaggia delle lontane Americhe la cui dignità non era stata ancora tradita dall'amato capitano John Smith, «non racconta per raccontare, non dipinge per dipingere»; la storia era, secondo il francese, l'occasione per imparare una «lezione dell'avvenire»436.

Proponesi d'istruire le nuove generazioni con l'esperienza di quelle che le precedettero – scriveva Cousin –, ponendo sotto li occhi loro il quadro fedele di grandi ed importanti eventi colle loro cause ed effetti, coi generali disegni e le passioni particolari, colle colpe, le virtù, i delitti che insieme trovansi mescolati nelle umane cose. Insegna l'eccellenza del coraggio, della prudenza, dei grandi pensamenti profondamente meditati, costantemente seguiti, eseguiti con moderazione e con forza. Fa comparire la vanità delle immoderate pretese, la potenza della saviezza e della virtù, l'impotenza della pazzia e del delitto. È una scuola di morale e di politica437.

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