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6.4. SOCIAL RATING

6.4.2 Social rating richiesto

A differenza del primo, questo rating è richiesto83 direttamente dalla società oggetto di analisi, esattamente come quello finanziario, per ottenere il quale l’azienda sostiene un costo e riceve in cambio un rating spendibile sul mercato in termini di visibilità84.

Esso è rilasciato da una struttura, normalmente un’agenzia professionale e riconosciuta, in alcuni casi da una delle stesse agenzie di rating finanziario, che esamina i comportamenti e le azioni di responsabilità sociale attivate dall’azienda oggetto di analisi; quindi, dopo un processo di istruttoria, esprime un giudizio e formula appunto il rating.

L’utilizzo che viene fatto di questo rating è normalmente legato alla possibilità per un’azienda che ha ricevuto un rating positivo di vedere le proprie azioni entrare nel portafoglio di un fondo etico. Più semplicemente, il rating etico viene anche utilizzato per gestire la quotazione in quelle borse dove operano gli analisti etico-sociali.

Le società di rating

Le società di rating che operano nel campo sociale sono diverse, alcune sono le stesse grandi società di rating finanziario che hanno creato dei gruppi di lavoro specifici e delle etichette specifiche per il rating sociale, altre fortemente legate a situazioni nazionali.

In Italia operano diverse strutture nel campo del rating sociale, come evidenziato dall’annuario Abi della Responsabilità Sociale85. Di esse quelle italiane sono

83 Cfr. S. Salis, “Cresce la voglia di certificazione etica”, in Il Sole 24 ORE, 11 marzo 2003. 84 Cfr. S. Salis, “Etica, primato con la Cina”, in Il Sole 24 ORE, inserto Dossier Certificazione

e Qualità, 2 giugno 2003.

85 Cfr. Abi, Annuario della responsabilità Sociale d’Impresa, I fornitori di servizi della Rsi, Bancaria editrice, 2002, p.23 che censisce ben 14 società tra quelle italiane e quelle internazionali.

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Avanzi, Azione Aiuto, E. Capital Partners, Ibs Istituto per il bilancio sociale, Microfinanza.

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Capitolo settimo

Strategie sociali e performance aziendale: quali

sinergie?

Sommario: 7.1. Premessa – 7.2. Gli effetti sulle decisioni di investimento

del mercato dei capitali – 7.3. Gli effetti sull’attrazione e la gestione delle

risorse umane – 7.4. Gli effetti sulle scelte di acquisto dei consumatori

7.1. Premessa

Il tema delle relazioni tra le strategie sociali e le performance competitive ed economiche risulta particolarmente vasto da analizzare, sia dal punto di vista delle implicazioni teoriche, sia nelle sue verifiche empiriche.

Anche ammesso che sia possibile individuare in maniera chiara ed inequivocabile la strategia sociale di un’impresa, infatti, è necessario precisare che sia la performance competitiva che quella economica sono concetti per i quali è complesso dare una definizione univoca e unidimensionale.

Si pensi, ad esempio, alla varietà dei parametri utilizzabili per la misurazione che vanno – per la performance competitiva – dalla quota di mercato, alla quota di copertura dei punti di vendita, al grado di fidelizzazione della clientela, agli indici di customer satisfaction, e – per la performance economica – dal valore assoluto degli utili, ad indici come il ROE, il ROI o il ROA, fino al valore di mercato delle azioni. È evidente che l’utilizzo di parametri di misurazione diversi porta a risultati diversi in termini di valutazione della performance.

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Non solo, le due dimensioni, come noto, sono concettualmente diverse e non necessariamente correlate: non è affatto detto che una elevata performance competitiva, misurata ad esempio in termini di quota di mercato, si traduca necessariamente ed automaticamente in una performance economica, misurata ad esempio in termini di ROE, maggiore della media di settore.

Nonostante le difficoltà di istituire una simile relazione concettuale, comunque, in letteratura è possibile individuare sostanzialmente due visioni del rapporto tra strategie sociali e risultati: una prima visione individua un trade-off, mentre una seconda individua delle possibili sinergie.

La prima visione che individua un trade-off tra responsabilità sociale e performance economica e competitiva, parte dal presupposto che le imprese, nell’intraprendere azioni socialmente responsabili, incorrano in costi che le pongono in svantaggio rispetto ad altre imprese meno responsabili86. Tali costi possono derivare, ad esempio, da contributi di beneficenza, da piani per promuovere lo sviluppo della comunità, dal mantenimento di presidi in aree economicamente depresse o da procedure per la salvaguardia dell’ambiente. Anche la consapevolezza di specifici vantaggi derivanti dalle strategie socialmente responsabili, d’altra parte non implica di per sé che tali vantaggi risultino superiori in termini economici ai costi sostenuti, tanto più che mentre il costo è immediato e certo i benefici sono solo stimati e, per di più, in genere valutabili solo in modo indiretto e qualitativo87. L’impegno nella CSR, inoltre, può comportare una limitazione delle alternative strategiche considerate perseguibili, impedendo ad esempio l’investimento in determinate linee di

86 In questo senso si veda Aupperle, Carrol, Hatfield (1985) e Ullmann (1985). Afferma in proposito Sciarelli (1999): «Spesso, difatti, viene osservato che la volontà d’improntare inn senso etico il comportamento aziendale è raffrenata dalla condizione di non reciprocità in termini competitivi. In altre parole, poiché nel breve termine

dall’accentuazione del profilo etico discendono dei costi economici per l’impresa, a fronte dei quali, sempre nel tempo breve i ricavi sociali appaiono limitati, può risultare avvantaggiata nella lotta concorrenziale l’impresa che non sopporta tali costi», pag. 222-223.

87 «Il beneficio intangibile e di lungo periodo non può che essere stimato in modo qualitativo, cioè senza il riscontro di modelli o parametri economici», Sciarelli (1996), pag. 23.

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prodotti o non permettendo di sfruttare opportunità di localizzazione e/o di commercializzazione in determinati paesi.

Si pensi ad esempio al problema della concorrenza da parte di imprese con stabilimenti in Paesi a bassa sensibilità socio-ambientale: a parità di prodotto immesso sul mercato, tali imprese sostengono un costo medio di produzione inferiore – e quindi possono vendere a prezzi nettamente minori – a causa di almeno quattro fattori.

In primo luogo il minore costo del lavoro, derivante dall’utilizzo di manodopera sottopagata, privata delle benché minime garanzie, sfruttata nel numero di ore di lavoro e nelle condizioni di impiego, se non anche infantile.

In secondo luogo i risparmi di costo che possono derivare dall’assenza o dalle carenze della legislazione e/o dei controlli volti a ridurre le esternalità sociali negative dell’attività produttiva.

In terzo luogo la minore incidenza dell’imposizione fiscale: mentre nei paesi industrializzati, infatti, vi è un sistema di welfare – alimentato anche dalla tassazione delle imprese – che garantisce condizione di benessere ai cittadini, in altri paesi l’assenza di garanzie sociali permette di imporre alle imprese una più ridotta aliquota media.

Infine, il mancato sostenimento dei costi aggiuntivi derivanti dagli investimenti sociali su base volontaria, che in molti casi nei paesi industrializzati sono divenuti necessari per il mantenimento di accettabili rapporti con gli stakeholder. Tali circostanze configurano un vero e proprio «dumping sociale». Le imprese con maggiori livelli di CSR possono infatti risultare penalizzate dal comportamento di acquisto del consumatore che non è in grado di percepire o non è interessato al differenziale di socialità implicito nel prodotto (ad esempio perché vede il luogo dove si creano gli svantaggi sociali come «lontano», sia in termini fisici che cognitivi), oppure ritiene stilisticamente che gli effetti negativi generati dal proprio acquisto sia minore dai vantaggi che gli derivano dal risparmio diretto sul prezzo, o ancora considera il suo individuale

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comportamento d’acquisto ininfluente nello scoraggiare la produzione in condizioni «non sociali».

In un simile contesto competitivo l’impresa, scartata l’ipotesi di ridurre il proprio grado di socialità al di sotto degli standard minimi imposti dalla normativa, potrà solo provare, anche attraverso attività di lobbying, ad aumentare la sensibilità sociale dei consumatori attuali e potenziali, in maniera da scoraggiare comportamenti d’acquisto irresponsabili88.

Non solo, anche quelle strategie sociali inizialmente utilizzate per creare una differenziazione di immagine rispetto ai concorrenti possono diventare con il tempo, via via che i competitors procedono nella direzione dell’imitazione, una inutile – ma spesso ineliminabile – fonte di costi, incapaci di generare alcun effettivo vantaggio competitivo. La certificazione di qualità, ad esempio, mentre all’inizio era un elemento fortemente distintivo per le imprese che riuscivano a conseguirla, si sta ora progressivamente trasformando in uno standard acquisito dal mercato e il suo conseguimento in un dato necessario per competere, tanto che sempre più si distinguono soltanto (in negativo) le imprese che non la hanno conseguita.

La seconda visone, a cui direttamente o indirettamente si rifanno la maggior parte degli economisti aziendali, invece, individua delle sinergie tra strategie sociali e risultati competitivi ed economici89, assumendo che l’investimento sociale contribuisca a creare il posizionamento strategico dell’impresa rispetto ai competitors delineandone una differenziazione in termini di legittimazione sociale, reputazione, visibilità e immagine, tali da generare effetti positivi, diretti e indiretti, sulla sua performance.

Anche se i costi delle azioni socialmente responsabili sono effettivamente significativi, quindi, si sostiene che essi vengano comunque compensati da un

88 In questo senso và letta la campagna di pubblicità recentemente portata avanti contro la produzione di palloni da calcio e giocattoli in paesi in cui le imprese sfruttano la manodopera infantile.

89 Anche Galeotti (1995) nell’ambito delle sinergie identifica l’esistenza di interrelazioni intangibili accanto a quelle tangibili, pag. 274 e segg. In proposito si veda anche Donna (1992), pag. 275 e segg.

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aumento di ricavi e benefici di altro genere90 o da una riduzione di altri tipi di costi91.

Per quanto riguarda i ricavi e gli altri benefici si ipotizza che i comportamenti degli stakeholder siano legati alle performance sociali – effettive o percettive – dell’impresa e che quindi, a seguito delle strategie sociali, sia possibile ottenere, ad esempio, un aumento dei volumi di vendita o un premium price rispetto ai concorrenti, oppure migliori rapporti con lo stato o con la comunità finanziaria. Alcuni autori, sottovalutando i notevoli problemi connessi alla misurazione concreta delle grandezze in gioco, sono arrivati addirittura ad ipotizzare che, utilizzando l’analisi costi-benefici, sia possibile definire un livello ottimale di responsabilità sociale, quello cioè per cui l’aumento dei ricavi conseguente alle strategie sociali uguagli i maggiori costi relativi.

Per quanto riguarda invece la riduzioni di altri costi, effettivamente non è raro che scelte sociali abbiano anche effetti positivi sul piano economico (si pensi ad esempio al contenimento dei consumi di energia derivante dalla ricerca sugli impianti per la produzione delle emissioni inquinanti).

La stakeholder theory ipotizza anche che per l’impresa siano meno costose le istanze implicite, come quelle delle associazioni di consumatori in relazione alla qualità dei prodotti, piuttosto che le rivendicazioni esplicite, ad esempio quelle dei dipendenti sui salari o quelle degli azionisti sulla remunerazione. Si suggerisce cioè che una bassa legittimità sociale possa incoraggiare alcuni

stakeholder a dubitare sulla capacità, e della volontà dell’impresa di onorare i

propri impegni a soddisfare le istanze implicite, accrescendo di conseguenza il numero delle ben più costose rivendicazioni esplicite. Seguendo tale impostazione di pensiero, quindi, le aziende che cercano di ridurre i propri «costi sociali impliciti», ad esempio i costi per la qualità dei prodotto o per la protezione dell’ambiente, deludendo le istanze dei propri stakeholder rilevanti, vanno incontro ad un ben maggiore incremento dei «costi sociali» espliciti, ad

90 Cfr. Davis, 1975.

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esempio un aumento del tasso sui finanziamenti dovuto al maggior rischio percepito, che possono generare una specifica fonte di svantaggio competitivo.

Non solo, alcuni recenti lavori sulla contabilità dei costi ambientali92

suggeriscono – come già Bowman e Haire (1975) – che i costi di CSR possano avere lo stesso andamento ad U dei costi di qualità, derivante dalla somma di «costi interni» relativi ad investimenti sociali (che evidentemente aumentano all’aumentare della socialità dell’azienda) e di «costi esterni» dovuti alla reazione degli stakeholder alla mancata risposta alle proprie istanze sociali (che invece diminuiscono all’aumentare della socialità). Il management quindi, anche in questo caso, dovrebbe cercare di scegliere il livello di performance sociale che minimizzi il costo totale.

Più in generale, affinché tale seconda visione non si trasformi in una impostazione semplicistica e assiomatica sono necessari almeno due approfondimenti.

In primo luogo bisogna valutare sulla base di quali ipotesi e a quali condizioni le strategie sociali effettivamente generino effetti positivi sulla performance competitiva ed economica, facendo riferimento almeno ai tre ambiti principiali in cui le sinergie possono manifestare: le decisioni di investimento sul mercato dei capitali, la motivazione dei dipendenti e le scelte di acquisto dei consumatori. Si tratta cioè d specificare meglio la tesi che gli stakeholder siano essi investitori, lavoratori o clienti, nell’affrontare una valutazione articolata come quella di un’azienda e nell’impossibilità di analizzare approfonditamente in molteplici aspetti rilevanti, tengono conto della sua performance sociale come di un «segnale» significativo93. Tale tesi risulta peraltro coerente con quella parte di letteratura sui processi cognitivi relativi all’assunzione di decisioni, la quale ipotizza che gli individui cerchino di semplificare le valutazioni complesse attraverso l’uso di strumenti decisionali semplici.

92 Cfr. Richardson, Welker, Hutchinson, 1999.

93 In questo senso affermano Jones, Murrel: «CSP, therefor, is a simple, available and intuitively appealing heuristic on which individuals can focus when evaluating a firm», 2001, pag. 63.

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In secondo luogo è indispensabile se tali ipotesi siano sorrette, e in che misura e con quali limiti metodologici, da riscontri empirici.

7.2. Gli effetti sulle decisioni di investimento del mercato dei