le modalità del raccordo tra il preesistente naiskos prostilo e la peristasi del tempio di seconda fase. Sembra tuttavia verosimile che esso abbia comportato l’eliminazione della
prostasis, come suggerisce un particolare già segnalato nella descrizione dei resti.
L’elemento immediatamente a est del blocco trasversale del lato nord del sekòs, a differenza di quello ubicato a ovest, non reca sulla faccia di attesa una mezza mortasa per grappa che si ponga in continuità con quella del blocco trasversale. Lo stesso
188 La tesi di una distruzione del tempio (periptero e attribuito a Zeus Areios) nel 167 a.C. è ancora sostenuta da FALEZZA 2013, p. 164.
189 E
VANGELIDIS 1952A, p. 311.
190 Il rinvenimento di pochi elementi riferibili alla fase ellenistica del tempio è del resto comprensibile, dal momento che la loro sopravvivenza deve essere ricondotta per lo più a qualche forma di reimpiego, anche solo come materiale edilizio, nella fase successiva.
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elemento, inoltre, presenta lungo tutta la faccia esterna una risega che si pone allo stesso livello di quella dell’euthynteria dei muri longitudinali del sekòs. La presenza della risega, tuttavia, si rivela non necessaria, dal momento che contro la faccia nord di tale blocco doveva appoggiarsi un ulteriore elemento destinato a fungere da imposta della crepidine della prostasis; la risega sarebbe invece meglio giustificata supponendo che contro di essa, al di sopra della parte bugnata e sporgente dell’elemento, inadatta a fungere da faccia di contatto, si appoggiasse una lastra di pavimentazione destinata a raccordare il piano dello stilobate della nuova peristasi al piede dei muri dell’antico
naiskos, obliterando la prostasis che ormai costituiva un impaccio. Se al posto di questo
blocco apparentemente spostato si posiziona invece quello ubicato immediatamente a nord, lungo il bordo della fondazione della prostasis, la mezza mortasa sul blocco trasversale viene a trovare un suo corrispettivo.
Quanto al significato della nuova monumentalizzazione, è evidente che essa solleva interrogativi storici di grande interesse, che riguardano le ricadute del processo di “romanizzazione” sulla forma del paesaggio sacro epirota, introducendovi un elemento di totale rottura. Tali problematiche esulano in parte dagli obiettivi del presente lavoro, rispetto al cui orizzonte cronologico occupano una posizione estrema. Se ne propone tuttavia ugualmente un quadro sintetico, sufficiente ad apprezzarne la portata.
Diversi indizi inducono a collocare la trasformazione nella primissima età imperiale, probabilmente nell’ambito della stessa età augustea. Un elemento a mio parere cruciale per la comprensione dello spirito che l’ha animata è rappresentato dalla base di colonna ionica L2. In essa, come si è visto, convivono il rispetto della tradizione ellenistica rappresentata dal richiamo alla versione peloponnesiaca dell’ordine ionico e dal perdurante uso del calcare locale, non ancora sostituito dal marmo, e un elemento di rottura legato all’introduzione delle ventiquattro scanalature (neo)attiche, che prelude alla loro definitiva affermazione nella temperie classicistica dell’epoca imperiale. Questa base va senza dubbio associata ai fusti (L6-L10), in calcare e a ventiquattro scanalature, conservati in gran numero nell’area del tempio, alla cui peristasi possono essere riferiti con una certa sicurezza. Nelle loro scanalature, insolitamente poco profonde in rapporto alla più pura tradizione ionico-attica, si avverte tutta l’esitazione di una fase transizionale, intenta a sperimentare un nuovo linguaggio nella consapevolezza di operare con un materiale poco adatto, in quanto percorso da venature che lo esponevano facilmente a rotture. Tutto sembra indicare che ci troviamo di fronte al
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primissimo stadio di un processo di adeguamento formale ai canoni classicistici della nascente koinè imperiale, in bilico tra stimoli innovativi estranei alla tradizione regionale e quella che P. Gros ha definito l’”esitazione provinciale”191 ad abbandonare consuetudini di cantiere ormai secolari. Inerzie di questo tipo sono ravvisabili in quasi tutti gli elementi architettonici che si è ritenuto di poter attribuire, sia pure con qualche margine di incertezza legato appunto al loro carattere ancora tardo-ellenistico, alla seconda fase del tempio (v. supra): dai frammenti di gocciolatoi L12-L14, con il loro singolare eclettismo, all’acroterio L15, agli elementi di pavimentazione L18, la cui particolare lavorazione può essere confrontata con esemplari databili tra l’avanzato I sec. a.C. e i primissimi anni del I sec. d.C.
La datazione dell’aggiunta della peristasi allo stesso orizzonte cronologico, in bilico tra tardo ellenismo e cultura architettonica alto-imperiale, sembra dunque abbastanza verosimile. Nonostante la conformazione del nuovo tempio presenti ancora notevoli incertezze, elementi abbastanza sicuri sembrerebbero l’adozione di una peristasi di 6 x 11 colonne e di un ritmo denso del colonnato, che ricorrendo alla terminologia vitruviana si potrebbe definire “picnostilo”192. L’ampiezza della luce del pronao, pari a circa quattro intercolumni, fa pensare che il peso della copertura non gravasse unicamente sui colonnati laterali, come già Evangelidis aveva suggerito. L’archeologo greco, tuttavia, proponeva di attribuire a un colonnato di raccordo tra lo
pteròn frontale e le ante del prodomos una base litica di colonna ottagonale incastrata
tra le lastre poco all’interno dell’angolo sudest del sekòs, da lui ritenuta in situ193: ipotesi da escludere categoricamente, non solo perché l’ordine poligonale-ottagonale, in Epiro, sembra limitato a un orizzonte di III-II sec. a.C.194, ma anche per il fatto che la base si trova al di sotto della quota del pavimento ed è stata evidentemente incorporata, come materiale di riempimento, in una massicciata di preparazione della stesura pavimentale vera e propria.
Non si può non richiamare, infine, la straordinaria portata dell’intera operazione fin qui delineata, che porta a trasformare un piccolo prostilo di tradizione ellenistica nel
sekòs di un periptero monumentale, come avviene quasi contestualmente, sia pure con le
191
V. supra, nota 144.
192 Vitr. III, 3, 1-2. Sulla frequenza della soluzione crebris columnis nell’architettura templare tardo- repubblicana e augustea v. GROS 1976, pp. 102-108.
193
EVANGELIDIS 1952A, p. 308 s.
194 Dall’area del tempio provengono, oltre alla base, diversi frammenti di fusti e di capitelli di colonne ottagonali, non compresi nel Catalogo in quanto riferibili ad altre costruzioni (forse stoai) del santuario di fase ellenistica. Cfr. EVANGELIDIS 1952A, pp. 313-317, con figg. 9-10. Sull’ordine poligonale-ottagonale e il suo gradimento nell’architettura ellenistica di Epiro e Illiria meridionale v. PODINI 2014, pp. 91-94.
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dovute differenze di scala, nella fase alto-imperiale dell’Aphrodision di Afrodisia in Caria195. Le ragioni che hanno spinto ad attribuire al sito una tale importanza ideologica e propagandistica ci sfuggono ancora in gran parte. Il rinvenimento nell’area del tempio, nel 1934, della monumentale statua loricata ora al Museo di Ioannina, la cui datazione alla primissima età augustea sembra ormai confermata196, suggerisce un precoce affiancamento del princeps, in qualità di synnaos theòs, alla precedente divinità titolare; il fatto poi che essa vada probabilmente identificata con Artemide (v. infra) non è forse senza importanza, se si considera il suo legame con Apollo e il ruolo attribuitole, in qualità di Laphria, nella colonia augustea di Patrasso197.
Dedica
L’identificazione del tempio di Rodotopi con il santuario di Zeus Areios a
Passaròn cui si allude in un celebre passo della Vita di Pirro di Plutarco198, come noto, venne sostenuta da S. Dakaris sulla base di un rilievo in marmo conservato al Museo di Ioannina e proveniente, secondo una notizia orale emersa a distanza di alcuni anni dal recupero del pezzo, dall’area di Gardiki199. Vi è raffigurato un personaggio maschile di aspetto giovanile, acefalo e coperto dalla sola clamide, nell’atto, apparentemente, di scendere da una montagna su un carro trainato da leoni200. Accanto alla figura, identificabile secondo Dakaris con lo stesso Zeus Areios, ipostasi dell’aspetto guerriero del dio e della sua funzione di supremo garante dei patti201, è incisa un’iscrizione piuttosto controversa, che sembrerebbe riecheggiare un trimetro del poeta Samo che i soldati di Filippo V di Macedonia, nel corso della spedizione volta a vendicare il saccheggio di Dion e Dodona da parte degli Etoli, avrebbero inciso su un muro del
195 T
HEODORESCU 1987, ID.1990. 196
CADARIO 2004, p. 216 s., con tav. XXX, 5. Sul rinvenimento di questa scultura v. supra, nota 61. 197 C
AMIA 2009, p. 209 s.
198 Sul racconto di Plu., Pyrrh., 5, 2 e sul problema dell’identificazione di Passaròn v. supra. La definizione di “χωρίον” che ne dà Plutarco, come nota PLIAKOU 2010, p. 643, autorizza a pensare a «une
comè ou un ensemble de petites agglomérations, liées à une installation fortifiée et pas nécessairement
[...] un centre urbain avec les éléments caractéristiques de la cité», in aderenza alle caratteristiche usuali del sistema insediativo della piana di Ioannina.
199 Cfr. D
AKARIS 1956, pp. 63-74; ID.1964, p. 54. Le avventurose vicende che precedettero l’acquisizione del rilievo da parte del Museo di Ioannina (M.I. inv. 27) sono riassunte da BURZACCHINI 1997, p. 139 e PLIAKOU 2011, p. 96. Cfr. DAKARIS 1956, p. 68, nota 1. Rinvenuto tra il 1903 e il 1906, a quanto pare, da un sacerdote ortodosso del villaggio di Gardiki, venne consegnato all’allora Direttore alle Antichità Ph. Petsas da un uomo d’affari di Ioannina, che lo aveva custodito nella sua abitazione all’interno del Kastro (la fortificazione ottomana della città).
200 D
AKARIS 1956, pp. 68-70. Per un’analisi del rilievo (sostanzialmente concorde con la lettura di Dakaris) v. KATSIKOUDIS 2001. L’atipicità di questa iconografia in relazione a Zeus è rilevata da BURZACCHINI 1997, p. 140.
201
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santuario di Thermos202. Senza entrare nel merito dell’iscrizione, della cui autenticità si è persino giunti a dubitare e il cui asserito legame con il culto di Zeus Areios, in ogni caso, appare forzato203, non si può non concordare con G. Pliakou sul fatto che una notizia orale che colloca genericamente il rinvenimento nell’area dell’”acropoli” di Gardiki, circa 3.5 km a sudest di Rodotopi, non può ritenersi un argomento sufficiente a dimostrare la provenienza del rilievo dal tempio204. La quasi totalità dei materiali votivi e la totalità delle iscrizioni provenienti da quest’ultimo si datano al periodo del koinòn degli Epiroti, nell’ambito del quale sembrerebbe tra l’altro collocabile lo stesso
terminus post quem dell’iscrizione che accompagna il rilievo205; il che contrasta, evidentemente, con l’ipotesi di un santuario strettamente legato alla dinastia eacide, che vi avrebbe periodicamente officiato una solenne cerimonia alla quale si è voluto attribuire un valore fondativo nell’ambito dei rapporti interni allo stato così come delle relazioni con i symmachoi epiroti206.
202 Per l’analisi dei caratteri epigrafici, della forma e del contenuto dell’iscr. v. in particolare BURZACCHINI 1997 e ID.1999. Il trimetro di Samo, a sua volta ispirato a un verso euripideo (Supp., 860), è riferito da Plb. V, 9, 5 nell’ambito della narrazione della spedizione congiunta di Macedoni ed Epiroti in Etolia (218 a.C.).
203 V. B
URZACCHINI 1997, p. 144 s., con critica all’idea di Dakaris secondo cui il termine iniziale dell’iscr. (ἀρά, inteso dall’archeologo greco come “giuramento”, mentre è più probabile che vada reso come “ex-voto” o “preghiera”) sarebbe etimologicamente legato all’epiclesi Areios. Dubbi sull’autenticità del testo, del quale si sono spesso rilevate le incongruenze paleografiche e linguistiche, sono stati espressi in particolare dalla scuola bolognese (L. Criscuolo e, in modo più sfumato, G. Burzacchini): BURZACCHINI 1997, pp. 142, nota 18, 148.
204 P
LIAKOU 2011, p. 96. A p. 104 s. l’A. rileva una circostanza singolare, che merita di essere presa in considerazione: la casa nella quale il rilievo fu a lungo custodito dista appena un centinaio di metri dal sito della Biblioteca ottomana e dei Bagni bizantini (figg. 13-14 A, C), dove si è rinvenuta una lastra fittile (probabilmente votiva) raffigurante un personaggio maschile corazzato in piedi su un carro (fig. 25). Tenendo conto della tendenza, nella prima metà del ‘900, a ritenere ogni rinvenimento segnalato nella zona del Kastro «transferred from another location» (p. 105), l’idea di una provenienza dei due rilievi dal medesimo sito è indubbiamente allettante, per quanto allo stato attuale indimostrabile. Cfr. PLIAKOU 2010, p. 644, con fig. 12c. Sull’ipotesi di identificazione di Passaròn con l’insediamento tardo- classico ed ellenistico nell’area del Kastro di Ioannina: PLIAKOU 2011, p. 105 s.
205
L’apparente richiamo al verso del poeta Samo, definito “famoso” (τὸν περιφερόμενον στίχον) da Polibio (V, 9, 5), invita a fissare nell’episodio del 218 a.C. il terminus post quem almeno dell’iscr., nonostante il tentativo di Dakaris, contestato da BURZACCHINI 1997, p. 143 s., nota 23, di far risalire il verso stesso a un più antico inno in onore di Zeus Areios che anche Euripide (Supp., 860) avrebbe appreso alla corte molossa: DAKARIS 1956, p. 72. Palesemente dettata dalla volontà di stabilire un compromesso tra la cronologia dell’iscr. e la sua presunta natura di anathema a Zeus Areios è la soluzione proposta da KATSIKOUDIS 2001, pp. 212-215, il quale ritiene che il testo sia stato inciso alla fine del III sec. a.C. su un rilievo risalente alla seconda metà del IV.
206
Nel giuramento di Passaròn, di volta in volta, si è riconosciuta una riattualizzazione, in seno alla c.d.
symmachia, del rapporto che aveva legato i re molossi ai loro sudditi nell’ambito della monarchia
“costituzionale” della prima metà del IV sec., ovvero un atto riguardante unicamente le relazioni tra la casa eacide e i symmachoi epiroti, e in quanto tale non anteriore alla spedizione di Alessandro I (MEYER
2013, in particolare, pp. 58-60, 110, con riassunto delle precedenti posizioni e bibliografia). Relativamente all’ambientazione della cerimonia non bisogna inoltre trascurare il fatto che essa non presuppone l’esistenza di un tempio, che del resto non è menzionato da Plutarco (PLIAKOU 2007, p. 94, nota 200), ma semplicemente di un altare; ipotesi, questa, che alla luce della rarità degli edifici templari in Epiro, specialmente nelle epoche più alte, assume una certa verosimiglianza.
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Ma l’argomento più forte contro l’attribuzione a Zeus Areios del tempio di Rodotopi, e di conseguenza contro l’identificazione di Gardiki con Passaròn, sostenuta unicamente sulla base della sua vicinanza al santuario207, viene dall’analisi delle offerte e delle iscrizioni in esso rinvenute, sulle quali G. Pliakou ha il merito di avere attirato l’attenzione208. Delle tre dediche votive note209, databili come si è detto all’epoca del
koinòn degli Epiroti (fine III - prima metà del II sec. a.C.), una sola contiene il nome
della divinità dedicataria, o meglio parte dell’epiclesi per la quale già Evangelidis proponeva un’integrazione attendibile: Ἁγεμον[ᾳ]210. Si tratta con ogni probabilità, come riteneva l’archeologo greco, di Artemis Hegemone, il cui culto, in Epiro, è conosciuto da diverse fonti letterarie riguardanti la colonia corinzia di Ambracia, dove sembra che le fosse attribuita un’importante funzione comunitaria211. L’iconografia della dea che “guida” e “conduce” dall’universo indisciplinato dell’agròs (o della stasis politico-sociale212) al kosmos ordinato e pacifico della comunità si confonde con quella
207 P
LIAKOU 2010, p. 644. 208 Cfr. P
LIAKOU 2007, pp. 97-100, con tavv. 42-46; EAD.2010, p. 644, con figg. 10a-f; EAD.2011, pp. 92-96, con figg. 5-12. L’A., oltre alle iscrizioni già note da precedenti edizioni, pubblica un piccolo ma interessante lotto di materiali conservato nei magazzini del Museo di Ioannina sotto la generica dicitura “Rodotopi”, la cui provenienza dal tempio è stata ricostruita sulla base della loro rispondenza alle scarne indicazioni fornite dai resoconti di scavo.
209 E
VANGELIDIS 1914, p. 239, nrr. 19-20; ID.1935A, p. 263 s., nr. 2, con tav. 27δ. Cfr. PLIAKOU 2011, p. 92 s., con figg. 5-7.
210 E
VANGELIDIS 1914, loc. cit., nr. 20, con fig. 13. L’iscr., rotta in due pezzi (M.I. invv. 397-398), reca la dedica di un agonothetes di Antigonea di nome Phormiskos, figlio di Philippos. La forma femminile dell’epiclesi, giudicata da Evangelidis preferibile al maschile Ἁγεμον[ι] (Hermes o Herakles), è accolta da HAMMOND 1967, p. 742, nr. 41 (nonostante a p. 651, nota 2, ipotizzi un Eracle Hagemon) e da CABANES
1976, p. 552, nr. 29. Così anche TZOUVARA-SOULI 1979, p. 34 s. Cfr. QUANTIN 2010A, p. 435 e nota 195; PLIAKOU 2011, p. 92 e nota 11, con figg. 5-6. DAKARIS 1956, p. 68 (il quale fornisce una lettura errata del nome del dedicante, Philiskos anziché Phormiskos) mantiene un silenzio sospetto sulla proposta di integrazione di Evangelidis, arrivando a definire l’iscr. un anathema a Zeus Areios. Cfr. PLIAKOU 2007, p. 100, nota 219.
211 Q
UANTIN 2010A, p. 432 s.; ID. 2011A, p. 215 ss. L’esistenza ad Ambracia di un temenos urbano dedicato alla dea è attestata dal locus di Polieno (VIII, 52) relativo all’assassinio di Deidamia, l’ultima regina eacide. L’episodio che pose fine alla dinastia molossa (232 a.C.) è riferito anche da Pompeo Trogo (Prol., XXVIII), Giustino (XXVIII, 3, 5-8), Ovidio (Ibis, 305-306) e Pausania (IV, 35, 3). In un aition raccolto da Antonino Liberale (Met., IV), il quale attinge a fonti di IV sec. a.C. (gli Ambrakikà di
Athanadas), Artemide contende ad Apollo ed Eracle il ruolo di divinità poliade di Ambracia; il suo
contributo al ripristino di giustizia ed eunomia – la dea provoca con un’astuzia la morte del tiranno
Phalaikos – è all’origine dell’istituzione del culto di Artemis Hegemone e della dedica di una statua che la
ritrae nelle vesti di cacciatrice. Nell’epiclesi, contrariamente a Ch. Tzouvara-Souli, che vi coglie un riferimento al ruolo di “guida” svolto da Artemide all’epoca della fondazione della colonia (TZOUVARA- SOULI 1987-1988, p. 110 s.), F. Quantin riconosce il suggello della «divinité salvatrice et communautaire, mieux que strictement politique» (QUANTIN 2011A, p. 224), che ponendosi come polo urbano della sua omologa Agrotera (il cui culto nella chora ambraciota è parimenti attestato) contribuisce a fondare la società coloniale attraverso una forma di «synœcisme cultuel» (ibid., p. 216).
212
Anche a Orchomenòs di Arcadia, come ci informa Paus. IV, 35, 3, Artemis Hegemone era venerata nelle vesti di “tirannicida”: JOST 1985, p. 147; QUANTIN 2011A, p. 222. Ad Ambracia, secondo il racconto di Athanadas/Antonino Liberale (v. supra), «Artémis tue le tyran sur les eschatiai grâce à une ruse animalière [facendolo sbranare da una leonessa], et contribue au rétablissement de l’eunomia au coeur de la cité»: QUANTIN 2011A, p. 224.
60
della Soteira, la “salvatrice” per antonomasia, e della Phosphoros, colei che “illumina” il cammino213. Solo in virtù di questa nota sovrapposizione e della probabile attestazione epigrafica, a Rodotopi, del culto di Artemis Hegemone si può proporre di attribuire un significato divino – come fa, in modo giustamente prudente, G. Pliakou214 – a un frammento di figurina fittile recentemente “riemerso” dai magazzini del Museo di Ioannina e senza dubbio proveniente dagli scavi di Evangelidis nell’area del tempio. Il frammento, datato dalla studiosa al V sec. a.C., è riferibile a una figura femminile che stringe al petto una torcia, secondo un’iconografia documentata in altri due santuari della Molossia – il c.d. Thesmophorion di Dourouti, all’estremità sudoccidentale della piana di Ioannina, e il deposito votivo di Vaxia (Driskos) sul lato opposto del bacino – dove è stata identificata rispettivamente con Demetra (in base al contesto di rinvenimento) e con Artemis-Hekate215. Lo stesso schema iconografico caratterizza due figurine della metà del IV sec. a.C. rinvenute nello scarico di un’officina coroplastica di Ambracia216, dove il culto di Artemis Hegemone, come si è detto, è attestato letterariamente.
Tra i materiali presumibilmente votivi restituiti dallo scavo di Evangelidis si segnalano altri due frammenti di figurine femminili fittili, trentacinque pesi da telaio troncoconici e piramidali, un frammento del piede di un thymiaterion, tre frammenti di una statua bronzea di dimensioni inferiori al vero raffigurante una giovinetta217; un numero imprecisato di figurine femminili, purtroppo totalmente inedite, proviene
213 Il processo è ben delineato, in relazione all’Artemis Soteira (ma anche Agrotera-Hegemone) di Megara, raffigurata sulle monete della città con due torce nelle mani, da ELLINGER 1984, p. 62 (cit. in QUANTIN 2011A, p. 224, nota 79): «Artémis guide (Hegemone), éclaire (Phosphoros) ceux qu’elle favorise, ceux qui sont menacés et c’est ainsi qu’elle les sauve et se fait Soteira».
214 P
LIAKOU 2007, p. 100 e nota 220 (tav. 45, Ροδ-12); EAD.2010, p. 644 (fig. 10e); EAD.2010A, p. 418; EAD.2011, p. 96 (fig. 11). Le torce, quando non accompagnate da altri elementi significanti, rientrano tra gli “attributs génériques” definiti da HUYSECOM-HAXHI,MULLER 2007, p. 238, comuni a diverse figure divine (Artemis, le Due Dee) e a «simples mortelles, représentées alors comme participantes à un rite nocturne».
215 Dourouti: A
NDREOU,GRAVANI 1997, p. 596; PLIAKOU 2010A, p. 417. Vaxia: TZOUVARA-SOULI 1979, p. 34 e tav. 14β; PLIAKOU 2010A, p. 417; QUANTIN 2010A, p. 435 s. Le striature orizzontali sulla torcia del fr. di Rodotopi ricordano quelle dell’Artemide Hekate (o più probabilmente Hegemone) di Vaxia: PLIAKOU 2007, p. 100, nota 220. Sulla teorica intercambiabilità dei tipi iconografici di Artemis
Hegemone, Dadophoros, Phosphoros, Hekate, Enodia e Soteira: PLIAKOU 2010A (con particolare riferimento alla Molossia); QUANTIN 2011A, p. 216 e nota 54.
216
TZOUVARA-SOULI 1979, p. 26 e tav. 10α-β; PLIAKOU 2010A, p. 415; QUANTIN 2010A, p. 433, nota 178; QUANTIN 2011A, p. 216, nota 54.
217 Figurine: P
LIAKOU 2007, p. 97 e tav. 45, Ροδ-13; EAD.2010, p. 644 e fig. 10f; EAD.2011, p. 96 e fig. 12. Pesi da telaio (rinvenuti all’esterno della più orientale delle due tombe a cista del recinto funerario tardo-romano a nordovest del tempio): EVANGELIDIS 1952A, p. 317; PLIAKOU 2007, p. 97 s., con nota 212 (dove se ne ipotizza l’originaria destinazione votiva) e tav. 46, Ροδ-16; EAD.2010, p. 644 e fig. 10d; EAD. 2011, p. 96 e fig. 10. Thymiaterion (seconda metà-fine IV sec.): PLIAKOU 2007, p. 97 s. e tav. 46, Ροδ-15. Statua bronzea: EVANGELIDIS 1952A, p. 319 (A, nrr. 1-3), con figg. 12-14.
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dall’esedra quadrangolare sul lato sud del tempio, indagata all’inizio degli anni Duemila218. Il quadro che si ricava da questi materiali è difficilmente compatibile con l’ipotesi della dedica a una divinità dal carattere esplicitamente guerriero, della cui presenza nel santuario non si possiede peraltro il minimo indizio219. Essi, insieme ai documenti epigrafici di contenuto politico, delineano un complesso votivo che, per quanto parziale, sembrerebbe riassumere efficacemente due sfere d’azione entrambe familiari alla figura di Artemide, la cui assoluta centralità nel pantheon del koinòn epirota è ampiamente risaputa220: la tutela dell’universo femminile, delle sue attività e dei suoi delicati passaggi di status, riconoscibile in altri santuari ugualmente afferenti al sistema delle komai221, e la protezione del nucleo comunitario e della sua esistenza anche istituzionale. Quest’ultimo aspetto si avverte chiaramente nella fase del koinòn