• Non ci sono risultati.

Gli anni ’90 furono una stagione di grandi riforme per la Pubblica amministrazione, tra le quali si annoverò la cosiddetta privatizzazione

Nel documento La sicurezza sul lavoro negli Enti locali (pagine 53-57)

La sicurezza sul lavoro nella Pubblica amministrazione

III.1 Il lavoro alle dipendenze delle PP.AA (cenni)

III.1.1 Gli anni ’90 furono una stagione di grandi riforme per la Pubblica amministrazione, tra le quali si annoverò la cosiddetta privatizzazione

del pubblico impiego.

La l. 23-10-1992 n. 421 aveva delegato il Governo, tra il resto, ad adottare uno o più decreti legislativi diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa, al miglioramento dell’efficienza e della produttività e, in generale, alla riorganizzazione del settore del pubblico impiego.

La delega dettò come principali linee guida (art. 2):

1) la riconduzione sotto la disciplina del diritto civile (e, quindi, non più del diritto amministrativo) dei rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e dei più importanti altri enti pubblici; regolando gli stessi mediante la contrattazione individuale e collettiva e, quindi, almeno in linea tendenziale, non più (soltanto) mediante la legge e il provvedimento amministrativo;

2) pertanto, la creazione di una vera contrattazione collettiva, con adeguati criteri di rappresentatività dei lavoratori, da una parte, e la nascita di un organismo per la cura degli interessi degli Enti pubblici nelle future negoziazioni, dall’altra (la futura A.r.a.n., Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni);

3) il trasferimento alla soggezione della giurisdizione ordinaria (i.e. giudice del lavoro e, quindi, non più del giudice amministrativo) delle controversie di lavoro riguardanti i pubblici dipendenti;

4) come deroga ai principi suddetti, il mantenimento del regime di diritto pubblico in relazione ai magistrati ordinari e amministrativi, agli avvocati e procuratori dello Stato, al personale militare e delle forze di polizia, al personale delle carriere diplomatica e prefettizia;

5) la definizione di criteri di unicità di ruolo dirigenziale; la previsione di criteri generali per la nomina dei dirigenti di più elevato livello, con la garanzia di specifiche obiettive capacità professionali; la previsione di una disciplina uniforme per i procedimenti di accesso alle qualifiche dirigenziali di primo livello;

54 6) la separazione dei compiti di direzione politica da quelli di direzione amministrativa e, nello specifico, l’affidamento ai dirigenti – nell’ambito delle scelte di programma degli obiettivi e delle direttive fissate dal titolare dell'organo – di autonomi poteri di direzione, di vigilanza e di controllo, in particolare la gestione di risorse finanziarie, la gestione delle risorse umane e la gestione di risorse strumentali;

7) l’introduzione della la verifica dei risultati mediante appositi nuclei di valutazione composti da dirigenti generali e da esperti, ovvero attraverso convenzioni;

8) la previsione della mobilità, anche temporanea, dei dirigenti, nonché la rimozione dalle funzioni in caso di mancato conseguimento degli obiettivi prestabiliti della gestione1.

Tali misure furono ritenute necessarie poiché il modello previgente aveva mostrato una grande ingerenza degli organi politici nella gestione delle amministrazioni pubbliche: infatti, era emerso come tali organi talvolta esercitassero poteri gestori concreti, fatto che la dirigenza accettava di buon grado, guadagnandone in un supposto sgravio di responsabilità. In questo modo l’amministrazione dei “politici” veniva a fondarsi esclusivamente su logiche clientelari ed elettorali, dirette alla cieca conservazione del consenso2. Ne derivava che il modello di lavoro alle dipendenze delle PP.AA., sconnesso dalle regole concorrenziali, risultava ben lontano da quello privatistico, discendendone un pregiudizio per l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa, con evidente danno alla collettività3.

Si sentì, così, l’esigenza di trovare un “padrone serio”4 che dirigesse l’operato dell’amministrazione-azienda e si assumesse la responsabilità delle proprie

1 Alcuni di questi principi, quali la separazione tra poteri di indirizzo e poteri di gestione, erano già

stati adottati dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali.

2 A. BELLAVISTA, La figura del datore di lavoro pubblico, in Giornale di diritto del lavoro e di

relazioni industriali, 125, 2010, p. 90.

3 L. BORDOGNA,Le relazioni sindacali nel settore pubblico, in G.P.CELLA,T.TREU (a cura di),

Le nuove relazioni industriali, Bologna, 1998, pp. 330 e ss.

55 scelte5; volendo passare, per quanto riguarda l’organizzazione, da un modello puramente burocratico a uno di tipo aziendale6.

Per raggiungere tale obiettivo, i dirigenti furono resi destinatari di concreti poteri di organizzazione e di gestione del lavoro, con un regime di loro responsabilità parametrata ai risultati da essi raggiunti e si cercò altresì di porre tale classe al riparo dalle ingerenze degli organi politici7. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro, come detto, la direzione fu la contrattuattalizzazione dello stesso.

Il cardine attorno al quale fu fatto ruotare il nuovo sistema fu, quindi, il principio della distinzione delle attribuzioni degli organi politici – titolari dei poteri di indirizzo – e delle attribuzioni dei dirigenti – titolari dei poteri di gestione –.

È d’obbligo tenere a mente che una completa scissione fra le due sfere non sarebbe stata nemmeno costituzionalmente concepibile: è il corpo politico a ricevere, tramite i meccanismi elettorali, la legittimazione democratica e, di conseguenza, è suo dovere trasmettere la volontà dell’elettore (unico vero titolare della cosa pubblica) negli indirizzi da impartire ai dirigenti, quest’ultimi legittimati dalla professionalità, comprovata dal criterio del pubblico concorso8.

5 Il “nuovo” dirigente assunse, com’è stato detto, le sembianze di un “Giano bifronte”

amministratore pubblico e datore di lavoro privato (F. CARINCI,La privatizzazione del pubblico impiego alla prova del terzo Governo Berlusconi: dalla l. n. 133/2008 alla l.d. n. 15/2009, in Working Papers Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona” – 88/2009, p. 28).

«Una fictio iuris, questa, necessaria perché senza la figura di un datore di lavoro “pubblico” non

era possibile impostare neppure concettualmente la privatizzazione; ma proprio perché finzione giuridica, essa restava tutta affidata alla disciplina legislativa costruita per darle quella realtà di cui la figura del datore di lavoro privato non aveva certo bisogno.

In effetti è l’imprenditore, individuale o collettivo, il tipico datore privato, che risponde al mercato, per quanto possa essere significativo il ruolo del management, mentre qui il dirigente/datore di lavoro risponde non ad un mercato che è inesistente, ma ad un vertice politico- istituzionale, che pur dovrebbe essere posto in grado di servirsene onde assolvere il mandato ricevuto per elezione o per nomina sicché, da un lato, come datore deve essere autonomo, dall’altro, come funzionario deve essere soggetto al vertice» (ibidem).

6 A. BELLAVISTA,cit., p. 87.

7 P. TOSI,Dirigenze pubbliche e private, in Argomenti di diritto del lavoro, 1, 2001, pp. 59 e ss. B.

CARUSO, L. ZAPPALÀ, La riforma «continua» delle pubbliche amministrazioni: licenziare i

nullafacenti o riorganizzarne la governance?, in Lavoro nelle p.a., 2007, 1, pp. 10 e ss. L. BORDOGNA,cit.

56 A seguito della riforma, pertanto, la politica non amministrò più direttamente, ma tramite il “governo degli uomini”9, ossia attraverso il potere di scelta degli alti burocrati, cui impartire gli indirizzi per la gestione; muovendosi da un rapporto tra le due classi di tipo gerarchico ad uno di tipo direzionale10.

Si volle creare, insomma, una sorta di “circuito virtuoso tra autonomia e responsabilità”11, scandito su tre fasi: in prima battuta gli organi politici stabiliscono gli obiettivi e gli indirizzi dell’azione amministrativa; in una seconda fase, i dirigenti amministrano in piena autonomia per la realizzazione degli obiettivi prefissati; infine, gli organi politici controllano il raggiungimento degli scopi anzidetti, incidendo tale verifica sulla componente retributiva dei dirigenti ancorata al risultato e, nei casi più gravi, potendosi fin’anche allontanare il dirigente incapace12.

Secondo questa logica, la precarietà avrebbe dovuto spingere il dirigente a far bene, a raggiungere gli obiettivi affidati, onde vedersi riconfermato l’incarico o assegnati altri incarichi più prestigiosi13.

Ad attuare la legge delega fu il d. lgs. 3.2.1993, n. 29.

Tale decreto più una serie di altri testi legislativi sono stati abrogati dal d. lgs.

30-3-2001 n. 165, che è ad oggi norma vigente e rappresenta il Testo unico sul pubblico impiego.

Omettendo le modifiche minori che si sono avute nel tempo, una delle ultime più rilevanti riforme in materia di lavoro pubblico (e di efficienza e trasparenza) è

9 A. BELLAVISTA,cit., p. 92.

10 S.BATTINI, Dirigenza pubblica (voce), in Dizionario di diritto pubblico (diretto da S. CASSESE),

Milano, 2006, pp. 1859 ss.

11 F.CARINCI, La Dirigenza nelle amministrazioni dello Stato ex capo II, Titolo II, D. Lgs. n.

29/1993 (il modello «universale»), in Argomenti di diritto del lavoro, 2001, 1, p. 31.

12 F. CARINCI, cit.

13 G. D’ALESSIO,B.VALENSISE, Incarichi di funzioni dirigenziali, in F.CARINCI,F.ZOPPOLI (a

cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, pp. 1058 e ss. (Vol. 5.2 di Diritto del Lavoro.

Commentario diretto da Franco Carinci, Torino, 2007).

Si è avuta pertanto una scissione tra il rapporto a tempo indeterminato (il rapporto di servizio) e il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato (il rapporto organico, o di ufficio). Sul punto, A. BELLAVISTA,cit., p. 93.

57 stata operata dal d. lgs. 27-10-2009 n. 150, di attuazione della Legge delega 4-3- 2009 n. 15, cd. “Legge Brunetta”, che ha inciso sensibilmente sul sistema14.

In estrema sintesi, nel T.u., tenuto conto delle più recenti modifiche, si ribadisce la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro e la loro disciplina privatistica (eccetto il personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3): «I

rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge» (art. 2, c. 2).

Si ribadisce la giurisdizione su tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (art. 63). Il riparto di competenze tra gli organi di indirizzo politico e la dirigenza è regolato dall’art. 4: «Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo

politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti […]».

III.1.2 In base all’art. 4 del T.u. pubblico impiego, ai dirigenti

Nel documento La sicurezza sul lavoro negli Enti locali (pagine 53-57)