1. Questa breve nota celebrativa intende invitare i giovani alla lettu- ra (e i meno-giovani alla rilettura) dei fondamentali contributi di Luigi Ferrari Bravo sull’interpretazione pregiudiziale nella fase costituente dell’ordinamento comunitario1, limitandosi a “lasciar scorrere la sua ri- flessione” tramite citazioni scelte dai suoi testi.
Il Maestro contribuì in modo rilevante alla fondazione della dottrina del diritto comunitario, affermando il suo metodo innovativo ed evi- denziando similitudini e differenze con il diritto internazionale. Egli dedicò una parte importante del suo impegno scientifico alla riflessione sul fenomeno giuridico (allora emergente) dell’integrazione europea, partecipando da protagonista autorevole alla scuola napoletana. Basti pensare ai due commentari ai Trattati CEE e CECA ai quali egli diede un contributo fondamentale, insieme a Benedetto Conforti e Antonio Tizzano, anche nel comitato di redazione a capofila di una fucina di giovani studiosi che continueranno nel tempo ad alimentare gli studi della materia.
Malgrado agli inizi del cammino comunitario, il ricorso pregiu- diziale stentasse ad affermarsi fra i giudici nazionali, la dottrina rico- nobbe questo meccanismo come la chiave di volta dei rapporti fra ordi- namento comunitario e ordinamenti nazionali. Il dibattito si sviluppò sulla natura giuridica dell’originale meccanismo; sull’incidenza sull’interpretazione del diritto comunitario e, indirettamente, del diritto interno; sul significato delle sentenze della Corte di giustizia, in partico- lare se la loro efficacia dovesse essere limitata alla soluzione della cau- sa principale, estendersi erga omnes oppure attestarsi su ipotesi inter- medie.
1 Per un quadro d’insieme della dottrina e sino al 1986 ci sia consentito rinviare al
nostro lavoro, La dottrina italiana nella fase costituente dell’ordinamento giuridico
2. I contributi sull’art. 177 CEE2, alla cui lettura integrale rinviamo, sono stati pubblicati nel Commentario CEE3 e in Comunicazioni e studi dell’Istituto di diritto internazionale dell’Università di Milano4 che ospitò, sin dalla nascita delle tre originarie istituzioni, numerosi contri- buti di diritto comunitario.
Anche se successivo al Commentario CEE, conviene partire dal saggio pubblicato su Comunicazioni e studi. Infatti, nella sua Parte I si ritrovano importanti considerazioni di carattere sistematico sull’oggetto del diritto comunitario e sulla ratio del meccanismo di cooperazione fra i giudici nazionali e la Corte di giustizia. L’Autore vi analizza i possibi- li modelli alternativi di tipo strettamente internazionalistico e il modello prescelto dal Trattato CEE giudicato innovativo ma non “rivoluziona- rio”.
In primo luogo, la novità della CEE rispetto alle organizzazioni in- ternazionali di tipo classico: «Si può dire anzi che proprio la presenza, nei Trattati di Roma, di norme quali, per la CEE, l’art. 177 (…), indivi- dui uno dei caratteri fondamentali (anche se, beninteso, non il solo) che differenziano le Comunità europee dalle organizzazioni internazionali in genere, oggi solidamente inseritesi nella realtà della vita di relazione degli Stati; norme di questo genere, insieme ad altri dati, lasciano rico- struire un “tipo” nuovo di organizzazione internazionale, la cui attività si proietta non solo e non tanto sulle relazioni internazionali degli Stati membri, ma piuttosto ed essenzialmente sulla vita interna dei medesimi, rispetto alla quale si pone come un fattore fondamentale di evoluzione» (Com. st., 1966, p. 417).
In secondo luogo, l’autonomia degli strumenti interpretativi del di- ritto comunitario rispetto a quelli del diritto internazionale. In premessa si sottolinea che le differenze del metodo interpretativo della nuova di- sciplina derivano dal diverso settore dell’esperienza giuridica coperta dal diritto comunitario: «Ne consegue che l’origine internazionale delle
2 La numerazione corrisponde a quella originaria del Trattato di Roma.
3 L.F
ERRARI BRAVO, Commento sub art. 177, in R.QUADRI,R.MONACO,A.TRA- BUCCHI (a cura di), Commentario CEE, III, Milano, 1965, p. 1310 ss., spec. p. 1332.
4 I
D., Problemi interpretativi dell’art. 177 del Trattato CEE, in Com. st., Milano,
vol. XII, 1966, 415 ss. L’intera serie di Comunicazioni e studi è disponibile on line (http://users2.unimi.it/comestudi/).
disposizioni che disciplinano la Comunità, siano esse da riportarsi diret- tamente ai Trattati, siano esse da riportarvisi indirettamente per il trami- te dei procedimenti di produzione giuridica previsti dai Trattati mede- simi, può avere, in molti casi, scarso rilievo, sia sul piano dell’in- terpretazione (sistematica e non), sia su quello dell’applicazione. Nel senso che le norme comunitarie, nel loro contenuto, regolano materie ed esprimono esigenze che non sono quelle tradizionalmente prese in considerazione dalle norme internazionali, ma che si collocano invece, logicamente e storicamente, sul piano degli ordinamenti interni, benin- teso visti qui nella loro sintesi “comunitaria”. Gli schemi interpretativi, le analogie, gli strumenti logico-dommatici del diritto internazionale si rivelano pertanto molto spesso inadeguati ad intendere il senso del dirit- to comunitario, dato che esso si inserisce (o per lo meno tende, nel
suo farsi, ad inserirsi) in un settore dell’esperienza giuridica diverso da quello del diritto internazionale e più vicino ai diritti interni (corsi-
vo nostro)» (Com. st., 1966, p. 418).
La necessità di regolare in maniera il più possibile uniforme i diver- si settori della vita economica dei sei Stati per ottenere un sincronismo del funzionamento dei sistemi giuridici interni: «(…)il principio secon- do il quale lo Stato è libero nella scelta dei mezzi con i quali eseguire, anche e soprattutto sul piano dell’ordinamento interno, gli obblighi de- rivanti da norme internazionali ha, sul piano dei Trattati comunitari, ben scarso valore. Il sistema comunitario ha, rispetto alle altre norme internazionali, un grado di elasticità più ridotto, dato che anche piccole difformità possono gravemente compromettere l’armonico funziona- mento della struttura» (Com. st., 1966, p. 419).
Per quanto riguarda l’impatto delle peculiarità del diritto comunita- rio sul sistema di garanzie: «L’insufficienza del sistema tradizionale dei ricorsi internazionali a soddisfare le esigenze del diritto comunitario (…) è resa d’altra parte più grave se si considera che le norme comuni- tarie non conoscono alcun procedimento di esecuzione forzata, contro lo Stato che ad essa spontaneamente non si conformi, della sentenza di condanna» (Com. st., 1966, p. 420).
Di qui l’importanza del procedimento previsto dall’art. 177, in cui «l’attività dell’organo giurisdizionale della Comunità si inserisce nel processo interno, coordinandosi con quella dei giudici naziona-
li»: «La posizione degli organi giudicanti viene dunque in primo piano in un sistema di norme internazionali che, in tanto hanno un senso, in quanto operino accanto alle norme interne ed in relazione alla vita in- terna degli Stati. Le ipotesi di responsabilità dello Stato per l’attività dei propri organi giurisdizionali sono pertanto, in un sistema del genere, suscettibili di moltiplicarsi rapidamente (…). Ma, se ciò è vero, è anche vero che i tradizionali criteri vigenti nel diritto internazionale non sa- rebbero suscettibili, sul piano comunitario, di proficua applicazione. Non sarebbe stato in altri termini prudente lasciare ai giudici interni il compito di interpretare ed applicare il diritto comunitario, salvo inter- venire successivamente, attraverso il ricorso di uno Stato membro o dell’esecutivo della Comunità, per far valere, innanzi alla Corte di giu- stizia, la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunita- rio da parte dei suoi organi giurisdizionali (…)» (Com. St., 1966, p. 421).
«I trattati di Roma quindi, pur lasciando ai giudici nazionali di deci- dere sovranamente, anche in quei casi in cui la decisione presuppone l’applicazione del diritto comunitario, hanno voluto istituire un sistema, per così dire, preventivo, che ragionevolmente permetta di supporre che l’ipotesi di responsabilità dello Stato per violazione degli obblighi co- munitari conseguente all’attività dei suoi organi giurisdizionali sia da considerarsi del tutto eccezionale e patologica» (Com. St., 1966, p. 423).
Quanto alla tesi secondo la quale nell’ipotesi in esame la Corte agi- rebbe come giudice interno5, considerato che la sua pronuncia è desti- nata a spiegare effetti nel processo interno: «(…)la pronuncia della Cor- te non ha, a ben vedere, effetti diretti sulla decisione interna, e non dà luogo, in ordine alla lite pendente davanti al giudice nazionale, ad una sentenza soggettivamente complessa; ma produce piuttosto un effetto indiretto, per il tramite dell’obbligo del giudice interno di uniformarsi al principio di diritto fissato dalla Corte di giustizia (…). Ma, a parte ciò, non si saprebbe come spiegare, dal punto di vista della teoria in esame, i caratteri del giudizio che, sul rinvio operato dal giudice inter-
5 G.M
ORELLI, La Corte di giustizia delle Comunità europee come giudice interno,
no, si svolge innanzi alla Corte di giustizia. La presenza, nel processo, delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri, più sopra ricordata, ha significato solo se il giudizio innanzi alla Corte si inquadri, anche in questa ipotesi, nel sistema comunitario ed in esso soltanto. La Corte che, dal punto di vista strutturale, è sempre organo della Comunità, lo è altresì nello svolgimento di tutti i suoi compiti istituzionali, anche di quelli qui in esame» (Com. St., 1966, p. 425 s.).
«Trattasi invero, a differenza dei tradizionali tribunali internazionali, ed in particolare della Corte internazionale di giustizia, di una giuri- sprudenza estremamente coraggiosa e soprattutto finalizzata nella ten- denza a dare un’interpretazione evolutiva ai Trattati che promuova una sempre più intensa realizzazione degli obiettivi di integrazione che que- sti ultimi si sono proposti. Può darsi che in questo modo la giurispru- denza della Corte di giustizia delle Comunità europee finisca talvolta per sostenere posizioni eccessive, e comunque non strettamente neces- sarie per rispondere al quesito proposto, sotto questo profilo prestandosi a notevoli dibattiti e a qualche perplessità. Certo è però che la Corte manifesta, a differenza dei tribunali internazionali, la tendenza a pro- nunciarsi non appena ciò sia possibile, superando le eccezioni che, so- prattutto dagli Stati, vengono proposte. La Corte cioè mostra la consa- pevolezza di essere un fattore attivo dell’integrazione comunitaria, op- ponendosi di conseguenza alle tendenze particolaristiche e restrittive fatte valere dagli Stati membri» (Com. st., 1966, p. 427).
Per Ferrari Bravo occorreva distinguere fra effetti giuridici ed auto- rità delle sentenze di interpretazione pregiudiziale. La sua posizione era contraria al riconoscimento dell’efficacia erga omnes6 distinguendo fra l’autorità della sentenza e i suoi effetti giuridici ma riteneva che quanto
detto dalla Corte avesse per effetto l’eliminazione di dubbi interpretati- vi da parte di altri giudici nazionali: «Qui vengono presi in considera- zione i caratteri generali del procedimento ex 177 e l’esigenza, dalla quale procede tutto il meccanismo in esame, di assicurare l’uniforme interpretazione e, di conseguenza, la corretta applicazione del diritto comunitario. Proprio perché la pronuncia della Corte attiene solo al
6 A.T
RABUCCHI, L’effet erga omnes des décision préjudicelles rendues par la
primo aspetto, mentre l’applicazione del diritto è compito del giudice interno, essa, pur avendo degli effetti giuridici limitati, si solleva, natu- ralmente, al di là della specie decisa. E proprio per questa ragione essa ha un’autorità (ma non degli effetti giuridici) più vasta, investendo tutte le possibili ipotesi in cui la medesima questione si ripresenti davanti ad un giudice interno» (Commentario CEE, III, p. 1332).
«Nel caso dell’interpretazione del Trattato o degli atti, la sentenza della Corte, proprio perché resa in ordine ad un’ipotesi astratta, dichia- ra, obiettivamente, quale è il senso della norma comunitaria (II). Tale sentenza quindi, se, in quanto tale, incide soltanto sulla soluzione della lite nel corso della quale la Corte fu adita, vale, tuttavia, al di là di quel ristretto ambito, come punto di orientamento in tutta la Comunità, ac- quistando perciò un rilievo ben più ampio della sfera dei suoi effetti giuridici (…). La sentenza della Corte, nelle ipotesi che studiamo, fa giurisprudenza, e pertanto orienta sia l’attività delle istituzioni comuni- tarie, sia quella degli Stati, sia la giurisprudenza dei Tribunali nazionali. Se così non fosse, non avrebbe senso l’intervento, nel giudizio su ricor- so del giudice nazionale, dell’esecutivo comunitario, nonché degli Stati membri anche diversi da quello cui appartiene il giudice a quo, inter- vento che è previsto dall’art. 20 del Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia e della cui possibilità i legittimati fanno largo uso (…)» (Com. st., 1966, p. 425).
Cruciale la distinzione fra interpretazione e applicazione del diritto co-
munitario: «Il centro della discussione è costituito dalla distinzione fra interpretazione del diritto comunitario la quale, su ricorso dei tribunali interni, è di competenza della Corte di giustizia, ed applicazione del di- ritto medesimo, che invece resta, nel procedimento ex art. 177, di com- petenza del giudice nazionale. Su questo punto la giurisprudenza della Corte è stata, fin dagli inizi, fermissima nel sottolineare, almeno in astratto, la linea di demarcazione fra le due sfere di competenza, tanto che l’affermazione circa l’esclusiva potestà dei giudici nazionali per l’applicazione delle norme del Trattato può considerarsi ormai una clausola di stile nella motivazione delle sentenze rese ai sensi dell’art. 177 (…).
La distinzione trova il suo fondamento nella logica del sistema in- staurato con l’art. 177, il quale non mira, come già fu sottolineato, ad
investire la Corte della decisione della lite, facendone così una sorta di organo di appello o, se del caso, di ultima istanza rispetto ai tribunali nazionali. Sussiste pertanto la possibilità di una falsa applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali (con conseguente, eventuale responsabilità dello Stato a cui essi appartengono), sia ove si ometta, da parte degli organi di ultima istanza a ciò obbligati, il ricorso alla Corte di giustizia (nel qual caso si può avere una duplice ipotesi di responsabilità, per inosservanza dell’art. 177, e per eventuale falsa ap- plicazione, o disapplicazione, della norma comunitaria), sia ove, pur es- sendosi fatto luogo al ricorso alla Corte, il giudice nazionale ometta di uniformarsi al principio di diritto fissato da quest’ultima. Ma anche se ciò avvenga, la circostanza non influirà sulla validità della sentenza na- zionale, che resta regolata dal diritto interno, bensì sulla liceità della medesima, in quanto integrante un comportamento di un organo giuri- sdizionale dello Stato (comportamento quindi imputabile allo Stato) contrario al diritto comunitario (…). Né l’eventuale illiceità della sen- tenza interna potrà essere invocata dalle parti in lite; essa potrà essere fatta valere, nel giudizio previsto dagli art. 169 e 170, rispettivamente dalla Commissione e dagli Stati membri, con un ricorso contro lo Stato cui il giudice interno appartiene» (Com. st., 1966, p. 431 s.).
La presenza di una precedente decisione interpretativa sul punto in- durrebbe il giudice a ritenere inesistente la questione stessa, persuaden- dolo dell’assenza del dubbio, condizione prima perché scatti persua- dendolo dell’assenza del dubbio, condizione prima perché scatti il mec- canismo del 177 CEE (anzi pre-condizione logica del procedimento).
Quanto alla questione della rilevanza delle pronunce della Corte nei vari livelli di giudizio interno: «(…)potrà accadere che proprio sull’inter- pretazione di una norma del Trattato o di un atto, accolte dalla Corte, portino il giudice nazionale a concludere che detta norma, o l’atto in questione, non siano rilevanti ai fini della decisione della lite (…). Tale giudizio d’irrilevanza, successivo alla pronuncia della Corte, non è in contraddizione con il precedente giudizio di rilevanza della questione, dato che quest’ultimo si fondava sull’esistenza di una pluralità di alter- native che ora è scomparsa. Al contrario, il potere, testé descritto, del giudice nazionale, è il logico completamento di quello, che dall’art. 177 discende, di decidere sulla rilevanza della questione.
L’irrilevanza successiva, se così può definirsi il fenomeno qui indicato, può ovviamente manifestarsi anche in un grado ulteriore di giudizio: in sede cioè di riforma della decisione interna emanata dopo la pronuncia della Corte di giustizia» (Com. st., 1966, p. 467 s.).
Nella prassi giudiziaria italiana degli anni successivi Ferrari Bravo segnalò la strumentalità e la deformazione di rinvii alla Corte di giusti- zia nell’ambito di procedimenti su decreti ingiuntivi7: «(una) curiosa prassi giudiziaria, tutta italiana, di ricorso dell’art. 177 CEE. Si tratta del rinvio pregiudiziale alla Corte comunitaria nel quadro di un proce- dimento diretto all’emanazione di un decreto ingiuntivo, prima che il decreto stesso sia emanato, dunque nella fase che precede l’instau- razione (del resto solo eventuale in questo tipo di procedimento) del contraddittorio» (Com. st., 1975, p. 299).
L’aspetto quantitativo – undici ricorsi su decreti ingiuntivi dal 1970 al 1975 contro dieci ricorsi per interpretazione pregiudiziale di altro ti- po dal 1958 al 1975 – è indicativo della cultura giudiziaria dell’epoca, che viene così descritta: «La verità è che la Corte di giustizia delle Co- munità Europee, tanto diversa dalle altre corti internazionali per il co- raggio della sua giurisprudenza e la spiccata tendenza a ritenere, appena possibile, la giurisdizione, ha accentuato oltre misura, nei giudizi ex art. 177, queste caratteristiche. Giustamente preoccupata delle remore psi- cologiche che possono frenare il giudice interno (specie se d’ultima istanza, dunque di grado elevato) nel trasferire ad altro organo il compi- to di giudicare su un punto di diritto, essa ha mirato a non sciupare nul- la di ciò che, all’inizio con il contagocce, veniva inviato dai giudici na- zionali. Così, in due fra i primi casi, la Corte, adita con la semplice tra- smissione tel quel del fascicolo di causa, si sostituì essa stessa al giudi- ce interno, interpretandone la volontà, e trasse dagli atti di causa la que- stione da risolvere (…).
È questa un’attività, che non esitiamo a definire didattica, per aver svolto la quale la Corte ha certo grande merito, anche politico. Ma ora- mai, svezzati i giudici nazionali (anche, in fondo, quelli italiani) simili forzature dei testi sempre meno si giustificano. Specie poi se, ad un più
7 v. L.F
ERRARI BRAVO, I decreti ingiuntivi italiani e la Corte di Giustizia comuni-
meditato esame, il loro risultato può rivelarsi contrario alla giustizia sostanziale» (Com. st., 1975, p. 311 s.).
Il percorso per l’affermazione definitiva dell’interpretazione pregiu- diziale nel sistema comunitario era appena iniziato e avrebbe portato i giudici nazionali a diventare un elemento costituzionale del sistema giurisdizionale dell’Unione europea.
Il cammino comunitario si svolse sotto lo sguardo del Maestro che continuò a seguire gli sviluppi della questione dell’interpretazione pre- giudiziale nell’insegnamento ad allievi, studenti e operatori del diritto.