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Sulle orme del passato: il conservatore-riformatore

Profilo intellettuale e politico di Carlo Ilarione Petitti di Roreto

8. Sulle orme del passato: il conservatore-riformatore

Dall'autunno del '48 il Petitti ritornò ad atteggiamenti di conserva-zione liberale, venati talvolta da spiriti ultramontani: si può ritenere che l'osservazione della condotta di guerra delle forze piemontesi, unite ai contingenti alleati, fu il fatto decisivo per la sua involuzione e il ritorno a motivi retrogradi157.

Se la malattia da cui era afflitto gli impediva di prender parte diret-tamente alla contesa politica, se l'ostilità del re l'ostacolava in una sua qualsiasi azione, non per questo egli taceva: anzi, proprio nello scorcio finale della vita egli fu particolarmente attivo.

Dopo aver accolto il Gioberti come uno dei massimi artefici del ri-sorgimento, egli ben presto l'abbandonò nel suo avvicinamento ai demo-cratici e, pur mantenendo intatte le relazioni di amicizia 158, assunse atti-tudini di cautela che lo fecero identificare coi moderati, finché, dopo le vicende della primavera del '49, espresse la propria fiducia (seppure cri-tica) per la formazione del ministero D'Azeglio, ed egli, « moderato », si trasformò nel « suggeritore della politica moderata » del nuovo gabi-netto 159. Ci si trova dunque di fronte a un Petitti il quale si muoveva con molta cautela nella causa del risorgimento politico, mentre per con-tro compiva un passo indiecon-tro decisivo sulla via delle riforme econo-miche.

Dopo gli sbandamenti e le incertezze della politica governativa du-rante il '48, il Petitti si dichiarava ora fautore di un governo forte, che salvaguardasse però le libertà individuali dei cittadini nella loro essen-za 160: accettava di nuovo le tesi sul potere paternalistico, che operasse

1 5 7 . P E T I T T I , Pensieri sulla scorsa campagna della guerra italiana, « Giornale militare » (Torino), 1848: la serie di articoli venne pubblicata in un numero indi-pendente del foglio, che figurava come « Supplemento straordinario del bullettino dell'armata ».

158. A . CODIGNOLA, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri cit., p. 128.

159. ENNIO DI NOLFO, La crisi del partito moderato piemontese dopo Novara (con un carteggio inedito di Ilarione Petitti di Roreto), in Atti del XXXVII con-gresso di storia del risorgimento italiano, Roma, 1961, pp. 75 segg.

160. P E T I T T I , Sulla questione genovese. La verità a tutti, « Il Risorgimento » (Torino), 14 luglio 1849, n. 478: « [...] Perocché, quando s'indagano i veri mo-tivi de' politici rivolgimenti, non è difficile scorgere avere questi per lo più unica sorgente la debolezza, la trascuranza, il timore o l'illegalità verso de' governanti ».

talune riforme, ma dall'alto, onde impedire prima di dover reprimere i movimenti delle masse, cioè ritornava a quel conservatorismo intelli-gente, su cui poggiava la sua esperienza passata.

Insorgendo a difesa dell'« onesto » e del « giusto », egli rivedeva le precedenti affermazioni sulla libertà di stampa, e ne individuava subito con astio gli eccessi, chiedendo un pronto intervento repressivo all'auto-rità giudiziaria: « So bene che questo mio sistema non piacerà a coloro che speculano sull'opposizione e, oltre al darsi il piacere di acquistare popolarità e di promuovere le torte opinioni che professano, hanno in-teresse a far seguire lo scandalo, perché questo, incitando il maggior nu-mero a leggere, aumenta gli utili del giornale, in conseguenza meglio fa pagare le scritture d'esso » 161. Assumendo tali posizioni era consapevole di trasformarsi in un « retrogrado », in un « vero codino » agli occhi dei propri concittadini162, ma desiderava anteporre alle passioni, alle com-mozioni del momento, alle « concitazioni degli animi » un « freddo giu-dizio », voleva immergere sé e tutti in un bagno di realismo conserva-tore, abeno da ogni avventura ma anche lontano dagli slanci emotivi e dalle lungimiranti conquiste politiche.

Nelle sue note sui sommovimenti di Genova dell'aprile 1849 egli aggravò l'involuzione conservatrice, pur avendo il merito di indagare a fondo sui motivi che avevano prodotto l'insurrezione del popolo, da ricercarsi non tanto negli eventi recenti quanto in tutta l'errata politica del governo sardo nei decenni trascorsi. Esaminava globalmente la si-tuazione genovese, nel suo passato, presente e avvenire, con piglio effi-cace, considerando tutti gli sbagli della gestione sabauda, di malgo-verno, o almeno di scarsa cura, nei confronti dell'industre città ligure. Il suo documentato studio Sulla questione genovese 163 era lo scritto di un conservatore, magari di un reazionario, cosciente dei gravi errori compiuti, e del fatto che soltanto attraverso una libera discussione e ri-forme incisive si sarebbero risolti i problemi, superando sia la stasi con-troproduttiva sia i momenti di rivolta: esponeva i criteri delle prime riforme che gli parevano necessarie, in particolare dell'istruzione tecnico-professionale, atta a preparare giovani e operai (sicché essi non

venis-161. Ivi, 14 luglio 1849, n. 478. 162. Ivi, 17 luglio 1849, n. 480.

163. Cfr. il cit. art. Sulla questione genovese, apparso nei nn. 465, 468, 470,

476, 478 e 480 del « Risorgimento ». Su tutto il problema genovese si vedano an-che le lettere del Petitti all'Erede, per il periodo considerato, raccolte dal CODI-GNOLA, op. cit., pp. 646 segg. Per un inquadramento preciso della questione, si veda l'Introduzione di LEONIDA BALESTRERI alle operette e documenti raccolti in

sero facilmente mossi da « demagoghi »), e poi delle trasformazioni eco-nomiche, relative al porto in primo luogo e alle vie di comunicazione successivamente.

Il Petitti, che fin dalla giovinezza aveva creduto nella necessità di integrare Genova nello Stato sabaudo, e che dall'inizio del '48 indicava sempre il regno di Sardegna come lo « Stato ligure-piemontese », espri-meva ora il suo timore di fronte a un movimento come quello dell'aprile, democratico sì ma soprattutto genovese. Il suo primo tentativo era di imputare la causa dei disordini, oltre che ai motivi obiettivi di mal-contento derivanti dalla sconfitta, all'azione dei mazziniani e dei repub-blicani in genere 164, atteggiandosi, di fronte alle sommosse del '49, in modo analogo al comportamento assunto nel '21: ma subito rettificava le proprie tesi, rivolgendo la polemica non tanto contro i repubblicani-mazziniani, e ancor meno contro il popolo genovese, quanto piuttosto contro i democratici agenti nel parlamento subalpino, che con la loro de-magogia avevano prodotto artificialmente i presupposti rivoluzionari. Anzi, egli elogiava con piglio paternalistico e aristocraticheggiante il popolo, traviato momentaneamente ma non contaminato da tante

lu-singhe, e che era rimasto « virtuoso » nonostante i molti mezzi di corruzione: « Fra le tante infamie delle ultime rivoluzioni italiane, un fatto solo ne emerse veramente splendido e grande più ancora per le nefandità di mezzo alle quali egli sorse, la onestà della gran massa del popolo. Oh sì, il vero popolo è nobile e generoso, a dispetto delle male arti dei tristi non s'è ancora del tutto corrotto. Traviato, inferocito un istante dagli odi di parte, tosto si rivela nuovamente nella prima sua indole: frutto della civiltà che ha penetrato in parte anche le masse » 165.

Pochi giorni dopo i fatti genovesi, ritornava alla sua acrimoniosa condanna del Mazzini e di coloro che avevano « idee esagerate », plau-dendo all'intervento del corpo francese a Roma (il cui sbarco ebbe luogo il 25 aprile) e dicendo la politica della- repubblica romana guidata dai « tratti di demenza e d'imbecillità degni soltanto dell'archimandrita del-l'idea », di colui (il Mazzini) che aveva proclamato Roma « sacro asilo dei radicaH quando dovranno fuggirne gl'indigeni » 166.

1 6 4 . PETITTI, Sulla rivoluzione di Genova. Cenni storici di un testimonio oculare, « La Nazione. Giornale quotidiano politico e letterario » (Torino), 20 aprile 1849, n. 94.

165. Ivi, 21 aprile 1849, n. 95; e continuava: « [...] Spiccò parimenti in molti il coraggio e l'ardimento, brutale ardire però rilevatosi in rabbia feroce, che provò più che mai che sia la rivolta e la guerra civile, e di quanto sieno capaci le masse, quando animate da spirito di partito ».

166. Cfr. lettera del Petitti all'Erede, 22 aprile 1849, in A. CODIGNOLA, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri cit., p. 656.

Tutti i motivi di ritorno conservatore di cui s'è parlato si presentano puntualmente nell'ultimo saggio di notevole impegno, che vide la luce nel 1850, qualche giorno appena prima della morte, Considerazioni so-pra la necessità d'una riforma de' tributi: non è soltanto uno scritto di tecnica e di politica finanziaria, ma costituisce un vero e proprio passo indietro sul piano delle riforme economiche, e può esser ritenuto esem-plare del nuovo spirito da cui era animato l'autore.

Il Petitti assumeva ora una posizione pacatamente conservatrice: « Io oso adunque, lo soffrano i radicali, essere conservatore e ministe-riale », ma non per questo intendeva blandire il potere, anzi, da ciò ne traeva motivo per offrire tutti i consigli e le critiche che riteneva oppor-tuni 167. Continuava ad accettare teoricamente le tesi fondamentali del liberismo e del capitalismo, ma accentuava soprattutto quella, tipica, dell'opportunità di non incidere per nulla colle imposte sulle fonti del profitto: rifiutava perciò come « idea infelice » la proposta di aggiun-gere una tassa straordinaria sulla proprietà, considerato l'aggravarsi del passivo nel bilancio dello Stato, l'aumento vertiginoso del debito pub-blico e l'accrescersi in genere di tutte le spese, specie di quelle militari; qualunque imposizione di tal genere, opinava il Petitti senza tener conto di tutto un insieme di problemi e facendosi patrocinatore di una poli-tica i cui costi sarebbero stati pagati esclusivamente dai « non proprie-tari », avrebbe bloccato l'accumulazione capitalistica e la ripresa eco-nomica del paese 168. Ne nasceva — ed era questo il fatto fondamentale della menzionata involuzione — che egli rivedeva nel 1850 le afferma-zioni sulla proclamata necessità della partecipazione dello Stato in prima persona alle costruzioni ferroviarie, proprio quando queste cominciavano ad avere in Piemonte e nella Liguria uno sviluppo effettivo. Già nel-l'estate del '49 egli si era espresso in questo senso: mettendo in luce l'eccezionalità dei tempi, aveva compiuto una sorta di autocritica sulla questione della partecipazione esclusiva dello Stato alla costruzione e alla gestione delle ferrovie, e sosteneva ora che unicamente l'industria privata, nella previsione dei profitti che ne avrebbe tratti, sarebbe stata in grado di portare a termine nel Piemonte e nella Liguria quanto lo Sta-to aveva incominciaSta-to e non era più in grado di eseguire, tenuSta-to conSta-to dei

1 6 7 . PETITTI, Considerazioni sopra la necessità d'una riforma de' tributi cit., p. il.

168. Ivi, pp. 15 segg.; l'imposta straordinaria sulla proprietà « porgerà luogo a grave malcontento, specialmente là dove tante sono le quote minime per la molta divisione delle proprietà, arresterà ogni miglioramento dell'agricoltura, e final-mente, toccando alle sorgenti della produzione, impedirà qualunque cumulo d'essa, perciò qualunque aumento di capitali ».

suoi molti impegni in altri settori; ma si trattava di una situazione ecce-zionale che, in quanto tale, lo faceva derogare dalle regole generali di in-terventismo statale, alle quali assicurava di mantenersi fedele, almeno a un livello teorico 169.

Alcuni mesi dopo le sue tesi si radicalizzarono 170 : per le condizioni del debito pubblico e per la situazione deficitaria delle finanze del paese, riteneva decisamente non più opportuno l'impiego dei capitali dello Stato per l'erezione delle ferrovie. Si può constatare come, nel 1850, egli fosse ritornato a quelle posizioni retrive che aveva abbandonate da qualche lustro, ma anche come il suo pensiero avesse acquisito una nuo-va maturità: per ciò che riguardanuo-va le ferrovie, egli avenuo-va dinanzi a sé i molteplici e complicati, o talvolta anche minimi, compiti di gestione, e tendeva a risolverli con criteri corrispondenti non tanto a interessi generici della collettività, ovvero strategici, ma avendo presenti i bi-sogni del giovane capitalismo italiano sulla via della propria afferma-zione. Quindi, a questo punto, egli si rifaceva a quella parte della pro-pria esperienza, di studioso e di osservatore politico, che precedente-mente aveva lasciato in secondo piano, e ripresentava come validi quei metodi di amministrazione privatistica delle strade ferrate, che pochi anni avanti aveva rifiutato e condannato come suscitatori di caos finan-ziario, di speculazioni, di aggiotaggio. Si operò così la sua trasformazio-ne, ed egli divenne cavourriano, seppure in ritardo, quando cioè il Ca-vour aveva ormai modificato molte concezioni alla luce degli ultimi av-venimenti. Di contro persisteva nel proporre nuove riforme, in previ-sione di un efficientismo della macchina antiquata dello Stato e di un rinnovamento tecnico dell'industria, come anche in vista dello scopo po-litico dell'acquietamento delle masse 171 ; respingeva definitivamente ogni possibilità di concessioni a una Chiesa rimasta arretrata rispetto all'evol-versi dei tempi, auspicando però un accordo tale da porre sullo stesso piano religione e Stato 172, ma gli sfuggiva il senso profondo delle lotte e delle polemiche a lui contemporanee, e si avviava perciò a una veloce fine, non tanto fisiologica quanto di tutto ciò in cui egli credeva.

169. PETITTI, Sulla questione genovese cit., 5 fugfio 1849, n. 470.

170. PETITTI, Considerazioni sopra la necessità d'una riforma de' tributi cit., pp. 56 segg.

171. Così per ciò che riguardava l'istruzione (ivi, pp. 108 segg.), varie pro-poste di riforma dell'amministrazione (ivi, pp. 31 segg.), della burocrazia e di ta-lune concezioni finanziarie dominanti (ivi, pp. 19 segg.).

172. Ivi, p. 92: « [...] Sia perché la religione e i suoi ministri abbiano dal-l'autorità tutta quella protezione, che è un debito sacrosanto dello Stato non la-sciar violata mai, senza i più gravi pericoli, e sia pure, perché gli abusi clericali non vengano a turbar la pace pubblica e delle coscienze ».

Non a caso le ultime sue battute furono indirizzate proprio contro la forza nata impetuosamente dal sommovimento quarantottesco: il so-cialismo.

11 suo discorso era articolato, e suoi presupposti erano non soltanto l'antisocialismo e il moderatismo, ma anche la lotta contro gli ultrarea-zionari, dai quali intendeva distinguersi nettamente, affinché le « forze congiunte degli onesti possano resistere con efficacia a quelle del sociali-smo, predicato da molti purtroppo con audace imprudenza! » 173.

Inducevano al socialismo le forme troppo accese di reazione, come anche quei tribuni e agitatori, « novelli Gracchi », che parlavano sem-pre della loro « tenerezza » verso il « buon popolo », senza far altro se non « maggiormente opprimerlo, colla miseria derivante da ogni poli-tico rivolgimento » 174. Con molta evidenza il Petitti alludeva qui a Lo-renzo Valerio, e con lui ad Angelo Brofferio, al giornale « La Concor-dia » e a tutti i deputati e politici radicali, che accusava globalmente di demagogia, di istrionismo, di voler aprire le porte alla rivoluzione socia-lista: qualche anno avanti egli aveva addebitato al Valerio d'essere una « testa calda », chiamandolo già allora Caio Gracco e facendogli carico d'esser « pieno d'idee pregiudicate del 1789 » 175 ; è evidente perciò il collegamento con i nuovi « ispiratori » del socialismo subalpino, che do-vevano essere combattuti sia con un maggior rigore governativo sia con una politica organica di riforme che andassero incontro ai bisogni non illusori dei lavoratori. Il Petitti temeva soprattutto quegli intellettuali, docenti o giornalisti, che riteneva « pericolosi, perché insegnano i pre-cetti del socialismo e del comunismo », e che con la loro opposizione sistematica traviavano i giovani176. Era questo il discorso conclusivo della sua opera, di incomprensione non tanto nei confronti di un movimento che stava crescendo, quanto degli atteggiamenti di quei membri della classe dirigente sabauda che avevano avuto la percezione di questo mo-vimento, lo volevano analizzare e intendevano avvicinarsi a esso, per quanto, nella maggior parte dei casi, in modo affatto critico. Egli era ancorato a una concezione antiquata della gestione del potere: agendo nell'ambito di essa, probamente e con cospicue capacità scientifiche, ne-gli anni precedenti al '48 si era distinto quale un riformatore, un «

no-173. Ivi, p. 48. 174. Ivi, p. 85.

1 7 5 . Cfr. lettera del Petitti all'Erede, 2 2 settembre 1 8 4 6 , in A . CODIGNOLA,

Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri cit., p. 195.

176. P E T I T T I , Considerazioni sopra la necessità d'una riforma de' tributi cit., p. 33.

vatore »; scontratosi con la nuova Europa degli anni rivoluzionari, non fu più in grado di restare a contatto con la realtà viva del paese, e quindi non riuscì più a essere un osservatore politico degno di fede.

9. Conclusione.

Il senato del regno, il 12 aprile 1850, commemorò il proprio mem-bro Carlo Ilarione Petitti morto due giorni avanti177; nelle stesse setti-mane, e nei mesi immediatamente successivi, numerosi uomini politici, giornalisti e studiosi diedero degli schizzi biografici della sua vita e del suo pensiero. Fra costoro, Giuseppe Massari ricordava: « Gli studi fi-nanziari ed economici divennero naturalmente l'oggetto principale delle sue riflessioni e delle sue indagini e, durante tutta la sua vita, ebbe cura di non separar mai la pratica dell'amministrazione dalle indefesse e accu-rate meditazioni intorno alle scienze, che coi loro precetti la rischia-rano » 178. Di fatto, egli fu piuttosto uomo di scienza, e non politico; fu studioso prolifico ma non sempre originale; fu un descrittore sociale e un promotore di riforme più che non un esecutore d'esse; un commen-tatore, piuttosto che l'elaboratore di una linea politica; fu quello che oggi sarebbe detto un giornalista valido, di talento, un editorialista. En-tro questi limiti stanno i pregi e i difetti dei suoi studi e della sua azione di amministratore, certo non inferiore e sicuramente più preparato di molti suoi colleghi della burocrazia sarda, anche di quelli che nel suo tempo e negli anni seguenti assunsero incarichi ministeriali, e di larga parte del ceto dirigente subalpino, sia nel campo strettamente econo-mico, sia in quello politico.

177. Atti del parlamento subalpino. Sessione del 1850 (IV legislatura), dal 20 dicembre 1849 al 19 novembre 1850 (senato), Torino, 1865, p. 218.

1 7 8 . GIUSEPPE MASSARI, Il conte Ilarione Petitti, « Gazzetta piemontese » (Torino), 22 maggio 1850, n. 132.