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Il welfare aziendale costituisce un insieme di benefit e prestazioni, diffuso soprattutto nelle multinazionali, finalizzato a superare la componente meramente monetaria della retribuzione al fine di sostenere il reddito dei dipendenti e migliorarne la vita privata e lavorativa. Esso può essere stimolato attraverso la leva fiscale (come finalmente è avvenuto anche in Italia attraverso la legge di stabilità 2016) con la detassazione di fattispecie quali i viaggi ricreativi, i check up medici, le visite specialistiche, le rette per corsi sportivi, gli abbonamenti a riviste e quotidiani, i biglietti per spettacoli.

In Italia il welfare aziendale è sostenuto da due articoli del TUIR (Testo Unico Imposte dei Redditi), il 51 e il 100, e dalla sopracitata legge di stabilità del 2016, con l’art.1 comma 182. La nuova disposizione prevede che i premi di risultato (articolo 1 comma 182) erogati fino all'importo di euro 2.000 (o 2.500 in caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori) siano assoggettati ad un'imposta sostitutiva dell'Irpef e delle addizionali regionali e comunali pari al 10%, se legati ad incrementi di produttività e redditività.

Il welfare aziendale è considerato come un insieme di servizi e prestazioni erogati ai lavoratori per iniziativa unilaterale e volontaria del datore di lavoro, senza nessun tipo di negoziazione o accordo con le rappresentanze dei lavoratori. Normativamente e concettualmente esso è sempre stato interpretato come l’evoluzione del cosiddetto welfare di fabbrica (o welfare di impresa), l’insieme delle misure di natura sociale messe in campo dall’imprenditore paternalista, tipico della prima crescita dell’industria italiana.

Precisato che non esiste una definizione legale di welfare aziendale, è importante osservare che la legge di stabilità 2016 ha superato l’identificazione del welfare aziendale con i caratteri dell’unilateralità e della volontarietà: la disciplina previgente escludeva dal reddito da lavoro dipendente opere e servizi di welfare soltanto se erogati su iniziativa volontaria e unilaterale dal datore di lavoro.

Ora, invece, le disposizioni in materia fiscale non solo permettono l’esclusione del contenuto dei piani di welfare contrattati dal reddito da lavoro, ma ne prevedono la piena deducibilità dal reddito di imprese soltanto se non sono unilaterali e volontari (esattamente il contrario dello scenario previgente), mentre nel caso di “volontà unilaterale” la deducibilità è limitata, com’era in precedenza, al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente. Pertanto, richiamando tale normativa fiscale, è ora più corretto parlare di “welfare aziendale volontario”, unilateralmente concesso dal datore di lavoro senza alcuna costrizione di natura legale, contrattuale o regolamentare, e di “welfare aziendale obbligatorio”, ovvero obbligato da una pattuizione sindacale o da un regolamento unilaterale.

In generale, comunque, per comprendere meglio che cosa si intenda con welfare aziendale, si può fare un esempio pratico: se l’azienda mette 100 euro in busta paga, in tasca al dipendente ne arrivano 50; con i benefit di welfare aziendali, fatto 100 il valore stanziato dall’azienda, al dipendente, se l’operazione è fatta bene, arriva un valore pari a 120. Questa maggiorazione è dovuta all’economia di scala grazie alla quale le aziende possono contrattare con i fornitori e nell’organizzazione dell’erogazione di beni e servizi. Per esempio: un’azienda può ottenere un 20% di sconto rispetto ai prezzi al pubblico generalmente applicati dal fornitore esterno, che invece il singolo dipendente non otterrebbe.

Un’azienda può arrivare a erogare welfare detassato con molti dettagli specifici che richiedono un’attenta valutazione fiscale. Risulta quindi interessante porsi il tema di quali siano i servizi di welfare aziendale sensati e che funzionano.

Gli obiettivi che un’azienda si pone nell’utilizzare questi strumenti sono: - aumentare l’employer branding (essere attrattivi per i talenti);

- migliorare le condizioni concrete di vita del dipendente in modo che possa dedicarsi al proprio lavoro con meno barriere;

- erogare aumenti di stipendio collettivi ad alta efficacia economica.

Il classico esempio che viene in mente è quello di Google: di tale realtà si conoscono le mense aziendali (che sembrano essere ristoranti), i trasporti privati gratuiti, le palestre, le piscine.

Ma tale confronto è fuorviante dovendo tenere conto di alcuni valori che fanno del colosso di Mountain View un’azienda a sé:

- reddito medio dipendenti: 140.000 dollari + bonus + stock option; - grado di selezione di Google: 1 ogni 130 candidati (2 milioni in tutto); - il margine di Google è del 40%

Provando a ragionare su un welfare aziendale che costi poco e abbia un alto impatto (ma soprattutto meno eclatante), si può parametrare su aziende che hanno numeri come:

- costo azienda medio = 30.000 euro;

- grado di selezione medio rispetto alla situazione della popolazione italiana; - margini bassi (ipotizzati al 10%).

È necessario innanzitutto valutare attentamente l’efficacia in termini di valore percepito da parte dei dipendenti e l’universalità dei benefit (per evitare che una parte dei dipendenti si senta esclusa da questi vantaggi) e poi scegliere una serie di possibili benefit che siano ad alto rapporto efficacia / costo. Ad esempio:

- vaccinazione anti – influenzale. Ogni anno si ammalano di influenza dal

5% al 10% dei cittadini: ciò significa che dal 5% al 10% dei dipendenti si ammala e sta a casa dal lavoro per una media di 5 giorni. Con un costo azienda di 30.000 euro medio per dipendente e un valore creato di 60.000 euro per dipendente, considerando 200 giorni di lavoro all’anno, ogni giorno di assenza costa all’azienda 200 euro, con un valore complessivo di 1000 euro medio per fenomeno influenzale. Quindi se è un anno di influenza cattiva, con un 10% colpito, in media per ogni dipendente l’azienda perde 100 euro all’anno. Il vaccino antinfluenzale costa 25 euro e quindi ha un ritorno sull’investimento pari a 4 volte;

- corso di inglese per tutti i dipendenti. Ormai l’inglese è uno strumento fondamentale per ogni lavoratore: gli italiani, in media, non lo parlano. Se l’azienda ne organizza corsi al suo interno, facoltativi ma erogabili al dipendente solo se egli si impegna e passa gli esami dei vari gradi di competenza, permette a chi ha più voglia di crescere di acquisire una competenza nel mondo moderno;

- prodotti e servizi a basso aumento di valore marginale prodotti

dall’azienda. Se l’azienda produce servizi in cui l’aggiunta di un nuovo

cliente non aumenta in modo rilevante i costi, possono essere erogati ad alta efficacia ai dipendenti, creando anche un gruppo di testing per i servizi in grado di dare feedback continui all’azienda;

- cassette di frutta sui luoghi di lavoro. La dieta ad alto contenuto di vegetali ha un forte impatto sulla salute delle persone: avere a disposizione frutta (soprattutto quella secca a guscio) permette di avere una dieta più equilibrata e stare quindi mediamente meglio;

- contributi agli abbonamenti per i mezzi pubblici. Gli incidenti stradali sono la prima causa di morte sul lavoro e dei giovani italiani: incentivare i dipendenti ad usare maggiormente i mezzi pubblici permette quindi di diminuire il rischio per la loro vita, che oltre ad essere importante per il singolo, è importante per l’azienda;

- assicurazione sanitaria orientata a ciò che non viene erogato dal SSN. Essendo il sistema sanitario italiano sia di buona qualità (anche se non ovunque), e molti soldi per sostituirlo con erogazioni private è un errore strutturale. Ci sono però delle aree non adeguatamente coperte e su cui un’assicurazione creerebbe gli incentivi giusti per occuparsi della propria salute a basso costo.

Questi sono solo alcuni esempi che però indicano che oggi in Italia sarebbe possibile migliorare la vita delle persone agendo sul lato del welfare aziendale ad alta efficacia, basso costo e attenta valutazione del percepito dei dipendenti. Se una quota consistente di aziende cominciasse a ragionare in quest’ottica e fosse istituito un osservatorio adibito alla raccolta dati sull’efficacia di ogni parte di welfare aziendale offerto in Italia (rappresentando una check – list da cui le aziende che vogliano investire in questo settore possano trarre spunto) verrebbe fatto un grosso passo avanti per il welfare del nostro paese.

CONCLUSIONI

Attraverso l’analisi svolta è stato possibile rilevare come la situazione italiana post – crisi (ma già da prima) non sia delle più rosee, soprattutto se rapportata alla condizione degli altri paesi nel mondo. L’alto debito pubblico del paese non consente di eseguire politiche di ampio respiro per il risanamento della vulnerabilità delle famiglie italiane, che risultano sempre più lasciate al proprio destino, nonostante il tentativo di accrescimento del benessere attraverso l’adesione “facoltativa” a fondi pensione di previdenza integrativa.

Si comprende da questo come l’intervento diretto dello Stato sia andato ormai a ridursi gradualmente, lasciando in mano agli italiani la risposta alla propria condizione di difficoltà economico – finanziaria: col passare del tempo, un confronto con le realtà estere (che sebbene investano molto in welfare, vedono una popolazione finanziariamente più informata e coperta da numerose forme di tutela da shock economici imprevisti) e la necessità di integrare le entrate derivanti dalle poco rilevanti agevolazioni fiscali o dalla sempre meno presente mano del welfare pubblico, hanno consentito di assistere ad un aumento (anche se basso) di famiglie che hanno deciso di sottoscrivere polizze assicurative per spese mediche, fondi pensione privati o intraprendere altre forme di investimento.

La vulnerabilità fa parte dell’italiano: gli italiani sono un popolo che si sente vulnerabile sempre. 150 anni di una realtà italiana che ha garantito lavoro pubblico, indipendente (…) hanno ridotto la vulnerabilità ma non l’impressione della stessa. Perché la maggior parte degli italiani abita in casa propria? Perché dà una idea di sicurezza, dà un minor senso di vulnerabilità. Il tasso di risparmio accumulato non dovrebbe dare preoccupazioni di vulnerabilità e invece l’italiano medio si sente fragile economicamente. Ed è per questa ragione e per una bassa fiducia nei confronti del sistema finanziario che gli italiani stessi preferiscono accumulare anziché investire in forme di tutela: preferisce il risparmio “sicuro” all’incertezza di un investimento.

Il Forum ANIA – Consumatori ha attivato a tal proposito un processo di “alfabetizzazione finanziaria” della popolazione volto a fornire una maggiore cultura sui prodotti finanziari che il mercato propone a integrazione delle disponibilità provenienti dall’intervento dello Stato focalizzandosi:

- sull’educazione finanziaria: su questo aspetto l’Italia, come già osservato, è fra le ultime in Europa. Per arginare il problema, il Forum ANIA – Consumatori, per esempio, interviene nelle scuole con grande successo in relazione alle risorse impiegate. Un miglior risultato si potrebbe ottenere coinvolgendo anche la stampa, i media per poter comunicare con più facilità con tutti;

- sull’informazione: questa dovrebbe essere chiara, semplice e trasparente (spesso è data dalla politica). Se fosse più semplice, chiara e trasparente i cittadini potrebbero guardare meglio la propria posizione e far qualcosa per il proprio futuro. L’informazione dovrebbe diventare sistemica attraverso determinati strumenti: ad esempio, tramite alcuni tipi di ricerche è possibile sensibilizzare chi di dovere, soprattutto i media. Migliorando l’informazione si avrebbe anche un’altra conseguenza: il governo farebbe interventi coerenti con quest’informazione.

Un ulteriore intervento potrebbe essere rappresentato da agevolazioni più rilevanti per le aziende che propongono un welfare aziendale: si avrebbe così uno sviluppo maggiore del welfare privato, rendendolo capace di rispondere in misura sempre più crescente alle necessità dei suoi dipendenti e della sua famiglia.

Ma quanto può risultare complicato modificare la cultura di un paese notoriamente radicalizzato su un modello di welfare prevalentemente pubblico?

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