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La teoria dell’Agenzia

1.4 Il governo dell’impresa e le problematiche di agenzia

1.4.2 La teoria dell’Agenzia

Si definisce relazione di agenzia, quando uno o più soggetti (c.d. Principale) delegano uno o più soggetti (c.d. Agente) nell’amministrare operazioni e attività, in loro nome. Il contesto imprenditoriale da noi analizzato può indentificare questa relazione come il rapporto che esiste tra proprietà e management, proprietà e azionisti di minoranza, proprietà e prestatori di debito, ma anche in prospettiva intra-organizzativa, tra i manager della stessa.

I problemi derivanti sono sintetizzabili in due punti: 1. I conflitti che si creano tra gli obbiettivi del principale e dell’agente; 2. Il difficile e costoso controllo per il principale, nei confronti del comportamento dell’agente (Eisenhardt, 1989).

Nel contesto aziendale “proprietà – management”, i soggetti potrebbero avere diversa propensione al rischio, conseguentemente le azioni intraprese in ambito strategico risultare troppo rischiose, quindi non ottimali, per i titolari dei diritti residuali dei flussi di cassa (Eisenhardt, 1989).

Nell’analisi del fenomeno, il lavoro di Jensen e Meckling (1976), pone le basi dello studio.

Individuata la definizione di rapporto di agenzia e i relativi attori, è importante osservare che, se entrambe le parti massimizzano la propria utilità, è probabile che l’agente non opererà sempre nel migliore interesse del principale. In termini generali si assisterà ad una divisione tra coloro che possiedono elevate percentuali investite nel capitale dell’impresa e l’organo che indirizza le decisioni economiche (E. F. Fama & Jensen, 1983).

A livello intra-organizzativo, il rapporto tra principale e agente è regolato contrattualmente (E. Fama, 1980), stabilendo la natura del rapporto e il processo decisionale, al quale gli agenti devono attenersi nello svolgimento dell’attività di impresa. La regolamentazione dei rapporti e della decisione strategica è importante e caratterizza le diverse aziende, stabilendo perché alcune riescono ad ottenere un maggiore successo di mercato (Jensen & Meckling, 1976).

Tuttavia, è difficile, se non impossibile, in un rapporto a costo zero, che nel suo operato il preposto, agisca nell’ottica di massimizzazione del valore per il principale. Quest’ultimo può implementare meccanismi di incentivazione e controllo per garantire un migliore allineamento dei propri interessi con quelli dell’agente, disincentivandolo dal perseguire comportamenti egoistici legati a costi di agenzia. Questi devono esser individuati in concezione ampia, non limitandosi a quelli originati da attività di monitoraggio e controllo, ma devono esser considerati come costi di agenzia anche le decisioni dell’agente che originano una riduzione del patrimonio del principale.

Per quanto riguarda l’implementazione degli incentivi, è importante che questi risultino essere adeguati a quelli utilizzati dalle imprese concorrenti perché, se il mercato del lavoro è competitivo, la proprietà che non implementa meccanismi di remunerazione concorrenziali, vedrà i propri manager andarsene, tra cui, per primi quelli più bravi (E. Fama, 1980).

Come abbiamo introdotto in precedenza i costi di agenzia possono incorrere anche, nel momento in cui il proprietario apre il capitale ad azionisti esterni e dalla divergenza degli interessi tra le parti, conseguentemente i nuovi azionisti valuteranno le aspettative di possibili frizioni e dei costi di monitoraggio, riflettendole nel prezzo delle quote di capitale. Sebbene il prezzo pagato dai nuovi entranti sia corretto al ribasso, il proprietario preferirà raccogliere capitale proprio, anziché debito, sino a quando l’incremento di valore del suo patrimonio derivante dalla convergenza dei suoi interessi con quelli dell’azienda, sia in grado di compensare i costi di agenzia. Questi scontano le aspettative di natura pecuniaria, quindi tutte le decisioni concernenti l’attività di gestione strategica dell’impresa che genera risultati economici, ma anche di natura non pecuniaria, in tal senso, l’imprenditore potrebbe esser soddisfatto dei risultati finanziari ottenuti e per cui non impegnarsi nel voler incrementare il valore dell’impresa con nuovi progetti,

scoraggiato dai possibili problemi tecnologici e personali (es. ansia, stress, minor tempo libero) ad essi collegati, chiaramente questo comporta un disincentivo per gli investitori che vogliono massimizzare la propria quota (Jensen & Meckling, 1976).

Non solo, nuovi azionisti ma anche con i prestatori del debito possono originarsi dei conflitti di agenzia. Quest’ultimi vogliono controllare e tal volta, vincolare l’operato del management nella raccolta di nuovo debito e più in generale, in tutte quelle attività rischiose che potrebbero ridurre il capitale sociale e quindi la garanzia per i finanziatori. Le limitazioni sono di fatto attività di monitoraggio e controllo, imposte dai prestatori di debito, inserite attraverso apposite clausole contrattuali (c.d. covenants), che si riflettono in un maggior costo delle risorse per l’impresa. Dobbiamo osservare che è interesse dell’imprenditore ottenere il finanziamento ad un prezzo minore, per cui potrebbe decidere, prima della richiesta dei finanziatori, di incentivare i meccanismi di trasparenza dell’operatività aziendale, ad esempio, avvalendosi di valutatori esterni e indipendenti, nella certificazione dei documenti riguardanti la gestione finanziaria. Inoltre, l’incremento del livello di debito rende la struttura finanziaria più rischiosa, conseguentemente incrementa i possibili costi del fallimento e di una eventuale riorganizzazione, entrambi riflessi nei costi operativi e nei ricavi futuri8. Concludendo, i costi di agenzia del debito possono

esser sintetizzati in: 1. L’opportunità persa di incremento del valore dell’impresa dovuto all’impatto del debito sulle decisioni di investimento; 2. Spese di monitoraggio da parte degli obbligazionisti nei confronti del proprietario; 3. Costi di fallimento e di riorganizzazione (Jensen & Meckling, 1976).

Fama e Jensen (1983), focalizzano il loro studio sull’analisi delle diverse possibilità organizzative in varie tipologie societarie private (imprese a capitale diffuso, imprese finanziarie, organizzazioni no-profit e società tra professionisti), indagandone il processo decisionale e i possibili conflitti. L’argomentazione indica che nell’implementazione delle strategie imprenditoriali, quando i manager

8 Il punto può esser reso più chiaro con due esempi. Per quanto riguarda i costi operativi, un’azienda con un elevato rischio del fallimento, dovrà sostenere spese salariali più elevate per i suoi dipendenti, poiché quest’ultimi scontano una probabilità più elevata di rimanere senza lavoro. Dal lato dei ricavi, pensiamo all’acquisto da parte di un consumatore di un bene durevole (o di un macchinario da parte di una impresa, in un mercato business-to-business), ad esempio un’automobile, nel tempo il consumatore potrà avere bisogno di assistenza tecnica, per cui ha interesse che l’azienda produttrice non fallisca, per aver l’opportunità di continuare a reperire sul mercato i pezzi di ricambio.

appartenenti all’organo di gestione non sono anche possessori di una quota di capitale dell’impresa, non sostengono il rischio delle loro decisioni in termini di appropriazione dei flussi monetari. Quindi, senza la presenza di un organo di controllo, i manager sono incentivati nell’intraprendere decisioni che possono deviare dagli interessi della proprietà. La separazione tra la decisione strategica e il controllo dell’impresa risulta essere fondamentale, in modo che il manager non esercita potere di indirizzo dell’attività e di controllo sulla medesima decisione. Tuttavia, nel contesto di divisione tra i soggetti che detengono i diritti finanziari dell’impresa, i titolari dei diritti decisori e coloro che ricoprono la posizione di controllo, la soluzione proposta dagli autori è quella di limitare le decisioni di indirizzo strategico ai possessori di elevate quote capitale, anziché implementare costosi sistemi di monitoraggio sull’operato dei manager. Argomentazione, quella di allineare i poteri gestori ai possessori dei diritti maggiori sul capitale che incontra il suo limite nella specializzazione delle abilità manageriali dei proprietari.

L’attività di controllo riguardante le decisioni strategiche, nelle imprese in cui cooperano team diversi è attuata dagli stessi singoli manager, incentivati dalla competizione tra i diversi gruppi e all’interno della propria squadra, tra i vari membri. In breve, ogni manager controlla i manager dei livelli inferiori, ma anche superiori, per cui, maggiore è la competitività tra i dirigenti interni all’azienda e l’interdipendenza tra i team di lavoro, maggiore è l’attività di controllo sul lavoro reciprocamente svolta (E. Fama, 1980).

La presenza di elevata competizione interna all’azienda, potrebbe guidare i manager in comportamenti individualistici, mossi dalla volontà di ascesa nelle gerarchie aziendali. Soluzione alternativa e atta a non ledere il clima collaborativo interno è l’introduzione di organi di controllo esterni e indipendenti. La presenza di una funzione audit esterna e indipendente all’impresa ne accresce il valore, inoltre, si evidenzia l’importanza, nell’ottica di limitare le collusioni con i manager, di utilizzare un comitato di revisione anziché, di un unico revisore poiché corrompere un intero audit committee è più costoso che corrompere un solo controllore (Watts & Zimmerman, 1983).

Concludiamo delineando che la relazione di agenzia nasce dalle differenti esposizioni al rischio, riflesse nel disallineamento degli obiettivi tra gli attori del rapporto. Il soggetto agente favorito da una razionalità limitata del principale nel

monitoraggio del suo operato, dovuta dalla presenza di asimmetrie informative, opererà nel perseguimento dei propri interessi, che quando differiscono da quelli del principale originano relazioni di agenzia (Eisenhardt, 1989).

Segue che, se nella gestione aziendale coloro che sostengono il rischio dell’attività imprenditoriale sono anche i detentori del potere decisionale, i conflitti sono attenuati.