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Terapia di induzione dell’immunotolleranza (ITI) nel paziente emofilico con inibitor

4. STRATEGIE TERAPEUTICHE NELL’EMOFILIA CONGENITA CON INIBITOR

4.2 Terapia di induzione dell’immunotolleranza (ITI) nel paziente emofilico con inibitor

Nel paziente emofilico con inibitori la terapia di eradicazione ha una diversa impostazione, rispetto a quella del paziente con emofilia acquisita, prevedendo prima di tutto l’impiego del FVIII ad alte dosi con la finalità di ‘desensibilizzare’ il paziente ad antigeni riconosciuti come non-self.

Alcuni pazienti possono impiegare diversi mesi o anni per raggiungere una risposta completa [43].

Da quando Brackmann, nel 1977, mostrò l’efficacia di trattamenti giornalieri con FVIII ad alte dosi nell’eradicare l’inibitore, diversi regimi sono stati adottati. Questi variano dall’utilizzo di 25-50 U/Kg di FVIII a giorni alterni, proposto dagli olandesi della Van Creveld Clinic, alle 100 U/Kg due volte al giorno del protocollo Bonn [39].

Tra i fattori prognostici condizionanti favorevolmente il successo terapeutico si ritrovano: titolo di inibitori all’inizio della terapia ITI inferiore o uguale a 10 BU, picco storico massimo inferiore a 200-500 BU, inizio della terapia ITI entro due anni dalla diagnosi. Non esistendo dati univoci relativi alla dose/effetto, attualmente si consiglia un regime che preveda dosi non inferiori alle 50 U/Kg/die. Nei pazienti con picco storico anticorpale inferiore a 40 BU potrebbe essere utilizzato uno schema di trattamento con 50 U/Kg a giorni alterni o tre volte alla settimana. L’impiego di dosi molto elevate di FVIII sembra porti soltanto ad un più rapido raggiungimento della tolleranza e non ad una diversa percentuale di successi, rispetto ad un basso dosaggio [39,41,54,55,56]. Il trattamento ITI andrebbe iniziato possibilmente entro 6 mesi dalla diagnosi di inibitore e quando il titolo di inibitore sia inferiore a 10 BU, si aspetterà quindi che il titolo scenda, qualora fosse più alto, evitando l’esposizione al FVIII durante questo periodo di attesa [39,41,54,55,57]. Se dopo 1-2 anni il titolo non si è ridotto o se la persistenza degli inibitori è associata a sanguinamenti severi o che mettono in pericolo di vita il paziente, si inizierà comunque l’ITI [55]. Un altro fattore prognostico, legato alla modalità di somministrazione del farmaco, è l’applicazione di un catetere venoso centrale. Il CVC, nei pazienti con inibitori soprattutto, va frequentemente incontro ad infezioni e queste si associano ad un aumento non specifico del titolo di inibitori, rappresentando quindi un fattore prognostico negativo. Per tale motivo è suggerito utilizzare il CVC solo quando strettamente indicato e rimuoverlo non appena possibile; possibili alternative sono il confezionamento di una fistola artero-venosa o la riduzione del numero di dosi da somministrare, così da evitare la necessità del CVC o comunque di ridurne l’uso e quindi il rischio infettivo [41,51,55,58]. Di recente, è stata trovata una correlazione tra il tipo di mutazione del gene del FVIII e la probabilità di successo

dell’ITI, in particolare le delezioni ampie esporrebbero ad un rischio elevato di insuccesso, ciò sarebbe riconducibile al titolo elevato di inibitori e alla loro precoce insorgenza che solitamente si associa a tale mutazione [59]. In futuro si dovrà, probabilmente, tener conto anche dell’assetto genetico nella decisione sul tipo di terapia ITI da impostare.

Una possibile strategia terapeutica prevede di iniziare la somministrazione di FVIII, quando il titolo degli inibitori è <10 BU, con un dosaggio tra 50 U/Kg per 3 volte a settimana a 200 U/Kg/die. Il titolo degli inibitori verrà inizialmente monitorato settimanalmente per 4 settimane e poi ogni 3 mensilmente. Quando gli inibitori saranno scomparsi (< 0.6 BU), la terapia ITI andrà comunque proseguita fino a che l’attività del FVIII non sarà superiore al 66% e la sua emivita maggiore a 6 ore. Tali controlli andranno eseguiti dopo 72 ore dalla sospensione del trattamento alla dose di 50 U/Kg e poi ripetuti mensilmente. Questi sono i parametri per definire il successo dell’ITI. Una volta raggiunto il successo terapeutico è nella pratica comune, anche se non giustificato da studi prospettici, continuare comunque a tempo indeterminato la profilassi con il FVIII [54]. Però studi più recenti indicherebbero che la profilassi dopo successo dovrebbe durare 6-12 mesi [57]. Se dopo 12 mesi di ITI il titolo degli inibitori si mantiene al di sopra delle 10 BU si inizierà un protocollo di salvataggio. Quest’ultimo consiste nell’aumentare il dosaggio (200 U/Kg/die), se si era iniziata la terapia con una bassa dose, passare all’utilizzo di un prodotto contenente vWF, se la terapia era stata iniziata con rFVIII [56,57], valutare l’impiego dell’immunoadsorbimento associato all’immunosoppressione o l’impiego del rituximab [54,57].

Per quanto riguarda l’uso del rituximab nei bambini emofilici con inibitori ci sono pochi studi con risultati diversi, motivo per cui rimane solo come terapia di seconda linea; tra l’altro sembrerebbe avere un minore successo rispetto all’emofilia acquisita e questo potrebbe essere correlato a differenze tra alloanticorpi e autoanticorpi [60]. Il rituximab nei bambini emofilici con inibitori è generalmente usato quando la terapia ITI standard ha fallito o ha dato scarsi risultati. Il dosaggio utilizzato è di 375 mg/m2 a settimana per 4 settimane e poi mensilmente fino a 5 mesi o più. Nei casi in cui, a distanza di mesi, ricompaiono

gli inibitori, dopo una iniziale risposta positiva, si può riutilizzare il rituximab. Comunque il rituximab in monoterapia, nell’emofilia congenita, non basta, è necessario associarlo all’infusione quotidiana di FVIII [61]. Per lo meno ciò è vero per l’emofilia A severa mentre nella forma lieve potrebbe funzionare anche in monoterapia [62].

Al fine di ridurre il titolo iniziale di inibitore e di accelerare il raggiungimento dell’immunotolleranza è stato proposto un modello di trattamento denominato Malmö. Quest’ultimo è solitamente impiegato quando il titolo di inibitori è >10 BU o il picco storico >200 BU o la diagnosi precedente ai 2 anni, cioè in presenza di quelli che sono fattori prognostici negativi relativi al successo dell’ITI [54]. In questo protocollo, il titolo iniziale di inibitore è ridotto a livelli inferiori a 10 BU per mezzo di un immunoadsorbimento extracorporeo alla proteina A stafilococcica del plasma del paziente, anche in più sedute. Ad esso fa seguito ciclofosfamide, dapprima per via endovenosa, 12-15 mg/Kg per 2 giorni, poi per os, 2-3 mg/Kg per 8-10 giorni. Cominciando dal quarto giorno di trattamento, si somministrano Ig ev 0.4 g/Kg/die per 2-5 giorni. Contemporaneamente trattamento con FVIII o FIX alla dose sufficiente ad elevare i livelli plasmatici a 30-100%, seguita da dosi di mantenimento ogni 8-12 ore tali da mantenere il FVIII o FIX tra 30-80%. Il dosaggio andrà aumentato con il salire del titolo di inibitore, usualmente dopo una settimana, per la risposta anamnestica [39]. Il problema del fallimento dell’ITI non è da sottovalutare in quanto coinvolge il 30% dei pazienti con emofilia A e la gran parte di quelli con emofilia B [42]. La maggior parte dei dati disponibili relativi al successo dell’ITI con concentrati di FVIII e ai fattori condizionanti tale successo derivano da tre registri: International Immune Tolerance Registry (IITR), North American Immune Tolerance Registry (NAITR), German Immune Tolerance Registry (GITR). Nell’IITR l’età dei pazienti risulta essere un fattore predittivo di successo ma non nel NAITR, tale discrepanza si potrebbe spiegare con la maggiore età della popolazione studiata nell’IITR rispetto a quella del NAITR. In entrambi si riscontra una maggiore percentuale di successo in caso di intervallo di tempo tra diagnosi e inizio ITI minore di 5 anni. In tutti e tre i registri si osserva che nei

pazienti con picco storico di inibitori < 50 BU la dose dell’ITI è ininfluente mentre nei pazienti con picco > 200 BU si ha un successo maggiore adottando alte dosi di ITI. Sia nel NAITR che nell’IITR non si evidenziano differenze in caso di trattamento con prodotti a purezza intermedia/alta e prodotti ultrapuri (monoclonali o ricombinanti) in termini di successo ITI [16,41]. Il NAITR però confrontando prodotti monoclonali e ricombinanti riscontra una percentuale di successo maggiore con i primi [16,41,58]. Santagostino et al. inoltre mostra una riduzione di successi in caso di cambiamento dell’ITI da un prodotto a bassa purezza ad uno ad alta purezza e un trend inverso nel caso contrario [16,41]. E’ stata riportata, in vitro, una diversa reattività degli inibitori nei confronti dei prodotti a bassa purezza rispetto a quelli con elevata purezza o ricombinanti, cioè, correlando il titolo degli inibitori con la generazione di trombina, si è visto che è sufficiente un titolo minore per ridurne la generazione nel caso dei prodotti privi di vWF; in altri termini si ha una maggiore produzione di trombina, con pari titolo di inibitori, con l’utilizzo di prodotti contenenti vWF [63,64].

Come detto in precedenza, il vantaggio dei prodotti contenenti vWF starebbe nella capacità di quest’ultimo di legare i principali siti verso i quali sono diretti gli anticorpi inibitori (in particolare, i prodotti contenenti vWF funzionerebbero nei pazienti aventi principalmente inibitori diretti contro epitopi del dominio C2 e non del dominio A2 del FVIII [64]). Così facendo, proteggerebbe il FVIII e ne prolungherebbe la permanenza in circolo, cosa che potrebbe favorire l’induzione della tolleranza visto che, secondo dati sperimentali, sono le alte dosi di FVIII a sopprimere le cellule B memoria, mentre dosi basse ne stimolerebbero la differenziazione in plasmacellule secernenti anticorpi [65,66,67]. L’inibizione delle cellule B memoria con alte dosi di FVIII risulta essere irreversibile e non mediata da cellule T FVIII-specifiche [68]. Il meccanismo descritto sarebbe in grado di spiegare il maggior successo dell’ITI con prodotti contenenti vWF e ne giustificherebbe l’impiego anche nella terapia di salvataggio.

Il vantaggio dei prodotti plasma derivati dipende non solo dal contenuto di vWF ma anche di piccole quantità di Ig, compresi anticorpi anti-idiotipo, che

potrebbero interferire con gli inibitori, di TGF-β che, da come dimostrato in vitro, inibisce la proliferazione e promuove l’apoptosi delle cellule T stimolate [66,67]. I prodotti plasma derivati, oltre che essere più efficaci, come dimostrerebbero alcuni studi, permetterebbero anche di raggiungere il successo terapeutico più rapidamente. Questo aspetto, insieme al minore costo di tali prodotti rispetto a quelli ricombinanti, risulterebbe molto vantaggioso da un punto di vista economico [67].

Il vWF potrebbe interferire però con la capacità di processare il FVIII da parte delle APC (cellule presentanti l’antigene), meccanismo che sarebbe importante per l’induzione dell’immunotolleranza periferica attraverso l’azione di cellule T regolatorie. Potrebbe essere questo il motivo per cui, in alcuni studi, i prodotti a bassa purezza sono associati ad un minor successo dell’ITI [55]. Tutti questi risultati non hanno però una potenza statistica tale da poter essere considerati conclusivi.

Diverse nuove possibili strategie terapeutiche, attualmente in studio, sono fonte di ampie aspettative. Tra queste la creazione di molecole di FVIII con minore immunogenicità, come nel caso della mutazione di specifici residui nel dominio C2 del FVIII o della sostituzione di alcune regioni del FVIII umano con sequenze di origine porcina. Si è ipotizzato di poter presentare l’antigene in modo da renderlo tollerato e nel caso del FVIII, ma anche del FIX, si è ricorsi alla somministrazione attraverso la mucosa nasale e gastrointestinale; in questo modo verrebbe presentato a cellule dendritiche immature che indurrebbero l’attivazione di cellule T regolatorie FVIII-specifiche, con riduzione della produzione di IFN-γ e aumento delle citochine antiinfiammatorie e immunosoppressive IL-10 e TGF-β [54,69].

In ultimo, molte speranze sono rivolte all’impiego nel contesto dei protocolli immunomodulatori della terapia genica.

Molti sforzi, negli ultimi 10 anni, sono stati concentrati sulla terapia genica e i risultati positivi dei primi studi hanno portato a credere che sarebbe stata, a breve, una realtà. Sfortunatamente, le iniziali aspettative non sono state soddisfatte da

studi più recenti, che evidenzierebbero il problema dei livelli transitori e terapeuticamente insufficienti di FVIII raggiunti nel plasma del paziente e, ancora più importante, dei severi effetti collaterali. Tra quest’ultimi si trovano le reazioni del sistema immunitario verso i vettori virali.

Un approccio alternativo è l’induzione genica dell’espressione del FVIII o FIX nei megacariociti/piastrine o nelle cellule endoteliali, così da rilasciare il FVIII nel sito di lesione vascolare con il duplice vantaggio di ripristinare l’emostasi locale e di superare il problema degli inibitori [48]. In uno studio condotto su topi il FVIII veniva prodotto sotto il controllo del promotore piastrino-specifico αIIb all’interno delle piastrine, dove peraltro veniva immagazzinato insieme al vWF negli α-granuli. La coespressione del vWF e FVIII è importante per la sintesi e l’immagazzinamento ottimale del FVIII. Quest’ultimo viene rilasciato solo quando le piastrine sono attivate e quindi nel sito di danno, infatti non è rilevabile nel plasma. In questo modo il FVIII è protetto dall’azione degli inibitori e tale strategia terapeutica potrebbe essere utile sia nei pazienti emofilici con inibitori sia nella gestione dei sanguinamenti nei pazienti con emofilia acquisita [70]. Un altro possibile approccio agli inibitori consiste nello sviluppare degli anticorpi anti-idiotipo che vadano a bloccarli. In un modello murino sono stati sviluppati anticorpi monoclonali diretti contro il dominio C2 del FVIII, rappresentativi della maggior parte degli inibitori. Questi anticorpi venivano neutralizzati da specifici anticorpi anti-idiotipo. Tale esperimento si basa sull’osservazione che anticorpi anti-idiotipo, normalmente, in soggetti sani neutralizzano anticorpi inibitori. L’utilizzo di anticorpi anti-idiotipico completamente umanizzati ne riduce la potenziale immunogenicità e ne aumenta l’emivita fino a 3 settimane. Quindi una singola iniezione potrebbe avere effetto anche per un mese. Questa strategia terapeutica potrebbe essere impiegata per la neutralizzazione in breve tempo degli inibitori, per esempio prima di un intervento chirurgico [71].

Un’altra strategia per indurre l’immunotolleranza consiste nell’utilizzare cellule B immature nelle quali viene introdotto un vettore retrovirale, la cui trasduzione ha come prodotto una proteina di fusione, data dalla catena pesante delle IgG e da alcune sequenze aminoacidiche dei domini A2 e C2 del FVIII. Il risultato,

ottenuto sia nei topi venuti a contatto in precedenza con il FVIII sia in quelli mai venuti a contatto, è l’induzione della tolleranza sia in termini di risposta umorale che cellulo-mediata. Nei topi con inibitori tale risultato persiste per almeno due mesi. Ulteriori esperimenti evidenzierebbero che, per avere tale successo terapeutico, siano necessarie le cellule T regolatorie CD4+ CD25+ [72].

4.3 Terapia del sanguinamento acuto e ITI nei pazienti con emofilia B e