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Capitolo 2: Le nuove esigenze cautelari

3. L’irrilevanza del nomen iuris nella valutazione delle esigenze

3.1. Titolo di reato o fatto-

L’altra incisiva modifica che il legislatore della riforma ha apportato all’art. 274 c.p.p. prevede l’inserimento, al termine delle lettere b e c, di un nuovo inciso finale, il quale sancisce espressamente che la sussistenza delle esigenze cautelari e, nel caso di pericolo di reiterazione del reato, il giudizio sulla personalità dell’imputato non possono essere desunti esclusivamente dalla gravità del titolo di reato: ovvero, in altre parole, va a chiarire l’irrilevanza del nomen iuris nella valutazione delle suddette esigenze. Ciò che il legislatore intendeva evitare, con questo intervento, è proprio la commistione, nel processo decisionale che porta all’applicazione di una misura restrittiva, tra i gravi indizi di colpevolezza e i pericula libertatis: nell’intenzione del

54 C. DE ROBBIO, Le misure cautelari personali, Giuffrè Editore, 2016, pag. 111-

legislatore, il nuovo inciso avrebbe impedito di considerare un imputato pericoloso sulla sola base della percepita efferatezza del crimine commesso, evinta dalla fattispecie incriminatrice a lui contestata (e in questa fase, va sempre precisato, soltanto contestata, mai accertata in via definitiva). Anche questo intervento quindi va a circoscrivere la discrezionalità valutativa del giudice, a causa delle prassi devianti alle quali la giurisprudenza ci ha troppo spesso abituati: è chiaro che, grazie al nuovo inciso, non sarà più possibile per il giudice appiattirsi sulla richiesta cautelare del pubblico ministero, che ha spesso e volentieri origine proprio dagli indizi di colpevolezza raccolti, più che da un concreto ed attuale periculum. In sostanza, la seconda modifica dell’art. 274 fa il paio con l’inserimento del requisito dell’attualità del pericolo, con la differenza che mentre arricchire i requisiti del pericolo significa andare a intervenire direttamente sul novero dei pericula prospettabili (nel senso, già esplicitato, che sarebbero meritevoli d’intervento soltanto i pericoli concreti e attuali), la sancita irrilevanza del nomen iuris va a inserire una nuova regola di valutazione per il giudice, la cui discrezionalità tuttavia non è stata definitivamente persa, anzi, egli conserva un cospicuo margine d’apprezzamento: “il legislatore dice al giudice che il fatto che si stia

procedendo per un reato molto grave non basta per ritenere verosimile che un imputato stia per fuggire, o che delinquerà ancora”55, ed è proprio per questo motivo che la modifica apportata rappresenta un’importante novità dal punto di vista delle garanzie dell’imputato e soprattutto della presunzione d’innocenza, risultando di difficile emissione ormai le misure basate sulla presenza del mero fumus

commissi delicti.

Per vero, l’introduzione della modifica appena menzionata ha suscitato, da più parti, le critiche della dottrina: a iniziare proprio da quella dottrina che non considera irrilevante la gravità del reato stesso.

55 V. AIUTI, Esigenze cautelari e discrezionalità giudiziale, in www.lalegislazionepenale.eu.

E’ obiezione di tale filone interpretativo che limitare l’apprezzamento del giudice in sede di giudizio prognostico riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelari significhi dare una regola legale di valutazione troppo forte e rischiosa: scrive Piero Gaeta, “un giudizio può fondarsi

su due, tre, n serie di elementi fattuali; ma ben può trarre origine e consistenza anche da un solo tema fattuale“56, riportando l’esempio,

scottante in questo momento storico di forti tensioni e allarmi internazionali, dell’arresto di un terrorista che abbia architettato ed eseguito un sanguinario attentato. Secondo l’autore, nell’esempio da lui riportato le esigenze cautelari sarebbero potute discendere soltanto dalla disamina del fatto-reato, dal momento che il soggetto arrestato sarebbe privo di precedenti penali, mai noto dalle autorità di polizia prima dell’episodio terroristico e arrivato sul suolo nazionale da paesi mediorientali: e tuttavia, proprio a causa della riforma, inferire dal solo fatto il periculum libertatis costituirebbe una prognosi contra legem. Pur apprezzando alcuni rilievi critici mossi da Gaeta, tuttavia, la sua ricostruzione non sembra condivisibile: innanzitutto, a causa del suo riferirsi al fatto-reato, quando, in realtà, la riforma esplicitamente ha inteso evitare la rilevanza esclusiva del titolo di reato; secondariamente, poiché impedire normativamente che possa affermarsi la sussistenza di un’esigenza cautelare inferendola esclusivamente dal fatto che si stia procedendo per un reato grave è una importante conquista legislativa, utile per evitare la commistione tra misura cautelare e pena, dato che “tale centralità assoluta del fatto

– genesi unica della gravità indiziaria e delle esigenze cautelari – accentuava il risvolto ideologico della custodia cautelare quale indebita anticipazione della pena”57. Una conquista legislativa, si può

56 P. GAETA, Esigenze cautelari ed efficienza delle indagini, in La riforma delle misure cautelari personali, AA.VV., a cura di L. GIULIANI, G. Giappichelli editore, Torino, 2015.

57 P. GAETA, Esigenze cautelari ed efficienza delle indagini, in La riforma delle misure cautelari personali, AA.VV., a cura di L. GIULIANI, G. Giappichelli editore, Torino, 2015.

più correttamente opinare, lasciata a metà: la riforma sarebbe stata, invero, realmente rivoluzionaria se avesse attuato la modifica così come teorizzata nel progetto di legge originario58, oppure, in extremis, così come modificata dalla Camera in prima lettura, lasciando quindi in piedi il riferimento alla gravità del reato, e non al titolo di reato, come poi aggiunto in Senato. Ciò avrebbe comportato realmente una chiara scissione tra l’indagine circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e quella volta a verificare l’esistenza dei pericula

libertatis: e invece il testo divenuto legge non soltanto non sembra

essere risolutivo da tale punto di vista, ma rischia addirittura di essere nocivo. Infatti, aver escluso la rilevanza della gravità astratta del reato potrebbe autorizzare il giudice a dar rilevanza alla gravità concreta del fatto stesso, per desumere da essa l’esistenza del pericolo: il che non farebbe altro che dare nuova linfa ai meccanismi motivazionali presuntivi che la riforma avrebbe voluto e dovuto eliminare in modo definitivo59.

Infine, un’ultima obiezione, sollevata da Gaeta, merita considerazione: e cioè il fatto che mentre l’esclusiva rilevanza del nomen iuris viene legalmente negata per verificare la sussistenza del periculum per la totalità dei reati, la legge stessa si affida invece, per alcuni reati considerati particolarmente esecrabili, proprio alla gravità del titolo di reato per giustificare non solo una presunzione relativa di esistenza delle esigenze cautelari, ma addirittura una presunzione assoluta di idoneità esclusiva della custodia cautelare in carcere. Insomma, a

58Come precisato nel primo capitolo, la proposta di legge C. 631 intendeva inserire,

in coda all’art. 274, un comma 1-bis, formulato in questa maniera: “nei casi di cui

alla lettera b del comma 1, la sussistenza della situazione di pericolo non può essere desunta esclusivamente dalla gravità del reato imputato. Nei casi di cui alla lettera c del medesimo comma, la sussistenza della situazione di pericolo non può essere desunta esclusivamente dalle modalità del fatto per cui si procede e la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non può essere desunta unicamente dalle circostanze del fatto addebitato”.

59Sembra persuaso di ciò F. MORELLI, in L’allentamento delle presunzioni legali e giurisprudenziali, in Le misure cautelari personali nella strategia del “minimo sacrificio necessario”, a cura di D. CHINNICI, Dike Giuridica Editrice, 2015.

parere di Gaeta, e sembrano cogliere nel segno, in questo caso, le sue perplessità, non si vede per quale motivo la gravità del titolo di reato debba valere anche “ai fini dell’adeguatezza e della proporzionalità

della misura, laddove, nella normalità di tutti gli altri reati, la

Tatbestand non può valere, ex se, neppure ai fini del giudizio sui pericula”60. E se la risposta a tale obiezione è che, comunque, “la mafia è mafia”, ciò vale a rinforzare il sospetto che anche questa riforma si sia piegata alle pressioni emotive della collettività, cosa che, nel diritto penale, non dovrebbe trovare spazio.

3.2. Un obiter dictum: il delitto di finanziamento illecito dei partiti

Un intervento del tutto estemporaneo e asistematico, rispetto alle finalità programmatiche di questa riforma, è rinvenibile nell’inserimento, in coda alla lettera c dell’art. 274 c.p.p., di un inciso che va ad escludere, per il solo delitto di finanziamento illecito dei partiti, la rilevanza, ai fini dell’applicazione della custodia carceraria in funzione specialpreventiva, dei limiti edittali di pena, codificati all’interno della stessa lettera c e indicanti la necessità di una pena non inferiore nel massimo a cinque anni. L’intervenuta modifica riprende un precedente intervento all’art. 280 c.p.p., attuato nel 201361, che era

andato a sua volta ad inserire un’eccezione per lo stesso delitto in riferimento ai limiti edittali necessari per poter applicare, in via generale, la custodia cautelare in carcere: tale modifica aveva creato un difetto di coordinamento, proprio perché la lettera c dell’art. 274 non prevedeva eccezioni alla regola del rispetto dei limiti edittali previsti, allorché la custodia carceraria fosse applicata in relazione al periculum di reiterazione del reato. La riforma del 2015 va a ricomporre il quadro

60 P. GAETA, Esigenze cautelari ed efficienza delle indagini, in La riforma delle misure cautelari personali, AA.VV., a cura di L. GIULIANI, G. Giappichelli editore, Torino, 2015.

prescrivendo ora la medesima eccezione anche per l’esigenza cautelare di cui alla lettera c, con il risultato che, nel caso di tale reato, la misura detentiva potrà essere applicata in ogni caso, ivi compreso quello contemplato alla lettera c, nonostante il delitto in esame sia punito, ad oggi, con una pena che va dai sette mesi ai quattro anni di reclusione. Pur essendo apprezzabile l’impegno del legislatore di voler riportare ad uniformità le scelte di politica criminale in merito, non si può non notare la stranezza di una simile eccezione, che va a creare una disparità di trattamento, proprio in ragione del solo nomen iuris, tra gli imputati per il delitto di finanziamento illecito dei partiti e tutti gli altri imputati per un delitto che ugualmente prevede una pena edittale pari nel massimo a quattro anni di reclusione: disparità di trattamento che non sembra poter essere giustificata dalla particolare offensività del delitto in esame, il quale non presenta dei caratteri di efferatezza tali da meritare un esclusivo regime peggiorativo, “trattandosi di un’ipotesi

criminosa che non pare distinguersi, quanto alle possibili esigenze cautelari, da altre ipotesi punite con pena equivalente, come nel caso della malversazione ai danni dello stato o dell’abuso d’ufficio”62. Oltre

alle critiche dal punto di vista della scelta di politica criminale, è opportuno segnalare anche come tale modifica si ponga in totale rottura con l’armonia ricercata dalla riforma, e risulti quindi un’eccezione del tutto asistematica: il legislatore avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato semplicemente innalzando il limite edittale massimo previsto per questo reato da quattro a cinque anni, salvaguardando l’ordine interno dell’apparato codicistico in materia di cautela personale. Restano comunque oscure le ragioni di una tale stranezza normativa, che dalla dottrina sembrano riscontrabili soltanto

62 A. CIAVOLA, La valutazione delle esigenze cautelari, in La riforma delle misure cautelari personali, AA.VV., a cura di L. GIULIANI, G. Giappichelli editore, Torino, 2015.

nell’intenzione di “voler blandire la parte dell’opinione pubblica

orientata in senso giustizialista verso il ceto politico”63.

63 F. MORELLI, L’allentamento delle presunzioni legali e giurisprudenziali, in Le misure cautelari personali nella strategia del “minimo sacrificio necessario”, a cura

CAPITOLO 3: LE STRATEGIE DI CONTENZIONE

DEL PERICULUM LIBERTATIS ALTERNATIVE

ALLA DETENZIONE

Dopo aver esaminato le novità introdotte dalla riforma circa l’an della cautela, evidenziando come gli interventi apportati siano rappresentativi quantomeno di un tentativo di ripristinare la cultura garantista inaugurata dal codice di procedura penale del 1988, e poi barbaramente spodestata dalla legislazione securitaria, è tempo ora di analizzare i profili della legge 47 del 2015 che vanno invece ad incidere sul quomodo: ricalcando il percorso motivazionale che lo stesso giudice della cautela dovrà seguire, è chiaro che, dopo aver riscontrato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di almeno una esigenza cautelare, si dovrà procedere con la scelta della misura più idonea a soddisfare l’esigenza rintracciata. Ed è proprio sul terreno dell’idoneità della misura che l’opera del legislatore sembra essersi più intensamente concentrata, andando a riaffermare, con incisi talvolta più pedagogici che normativi, la centralità, nella scelta di quale misura, dei principi di adeguatezza e proporzionalità, nella consapevolezza che spesso è proprio questo il profilo più trascurato dalle ordinanze di applicazione delle restrizioni, e che la capacità dello stato di ridurre la popolazione carceraria passa anche e soprattutto dall’efficacia delle strategie alternative di contenzione dei pericula

libertatis, in un processo decisionale la cui stella polare deve sempre

essere “il raggiungimento del massimo risultato possibile con il

minimo sacrificio alla libertà personale ed ai diritti di un soggetto che, nella fase in cui la misura interviene, deve comunque presumersi innocente”64. E’ inevitabile, infatti, notare quanto in questi anni la giurisprudenza si sia lasciata andare nell’erogazione delle misure

restrittive di maggior gravità, dando luogo a quella che è stata autorevolmente definita “generosità cautelare”65 in particolar modo

rivolta all’applicazione della custodia cautelare in carcere: se le ragioni di tale atteggiamento restrittivo della giurisprudenza sono indubbiamente da riscontrarsi in un clima culturale di stampo marcatamente giustizialista e securitario, anche a causa di una legislazione recente che si è curata poco delle garanzie processuali per l’imputato, è appena il caso di notare come, tuttavia, esso appariva avvalorato da una carenza endemica di alternative affidabili alla detenzione preventiva, emergente ora direttamente dal dettato normativo, ora da interpretazioni restrittive e formalistiche da parte della giurisprudenza delle Corti superiori. E’ in questo senso, allora, che la riforma sembra voler agire: ampliando il novero delle misure concretamente utilizzabili, da parte dell’autorità giudiziaria, per contenere efficacemente le esigenze cautelari presenti senza far ricorso alla custodia carceraria, e vincolando i giudici a una valutazione più approfondita e puntuale del caso concreto al momento di scegliere la misura da applicare, affinché si possa davvero parlare di un trattamento cautelare pensato ad hoc per ogni singolo imputato e non frutto di stereotipi e supposizioni.

1. Il cumulo delle misure: la creazione di una cautela tailor

made

1.1. Il superamento dell’orientamento formalistico della Corte di Cassazione

Uno dei primi interventi volti ad ampliare il novero degli strumenti utilizzabili per affrontare i pericula libertatis è rappresentato dalla

65 E. AMODIO, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cass. Pen., 2014, pag. 13.

modifica del primo periodo dell’art. 275, comma 3, c.p.p., il cui testo riformato recita: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se

applicate cumulativamente, risultino inadeguate.” Per opera della riforma, dunque, il giudice ha la possibilità, per contenere il pericolo rappresentato dalla libertà dell’imputato, di erogare più misure restrittive cumulate, salva, ovviamente, la loro compatibilità: e tale soluzione sembra così ovvia e immediata che si stenta a credere che sia stato necessario ribadirla per via normativa. In effetti, il principio di residualità della custodia carceraria era ben presente nel libro IV del codice di procedura penale anche nel periodo precedente alla riforma in esame: e poteva essere evinto anche dalla precedente formulazione dello stesso primo periodo del comma 3 dell’art. 275, il quale già prevedeva che la scelta del giudice potesse ricadere sulla più restrittiva delle cautele soltanto quando ogni altra misura fosse da lui considerata inadeguata. Più in generale, la possibilità di cumulare le misure al fine di evitare la custodia in carcere emergeva già dalle volontà dei compilatori del codice del 1988, i quali, in controtendenza col progetto di riforma del 1978, secondo il quale non poteva che applicarsi una misura per volta, tacquero sulla possibilità del cumulo in fase genetica, prevedendolo espressamente soltanto in caso di reazione alle trasgressioni alla misura originaria (art. 276, comma 1) o, in seguito ad un intervento nel 2001, di possibilità di sottoporre nuovamente a intervento restrittivo chi fosse stato scarcerato per decorrenza dei termini di durata massima della custodia carceraria stessa (art. 307, comma 1-bis); lasciando dunque, in linea di principio e al netto delle eccezioni menzionate, un vuoto normativo inteso come spazio di libertà per il giudice, il quale avrebbe potuto così, nella mente dei redattori del codice, commisurare l’intervento restrittivo alle specifiche esigenze del caso concreto, evitando superfetazioni che avrebbero messo in crisi il principio del minor sacrificio necessario.

E tuttavia, la modifica di cui al primo periodo dell’art. 275, comma 3 si rivela, più che opportuna, necessaria, a causa dell’orientamento consolidato della Corte di Cassazione volto a negare la possibilità di cumulo delle misure stesse: tale orientamento, avallato dalle Sezioni Unite con la storica sentenza 29907/2006, oltre che su flebili riferimenti testuali66, era basato su una rigida e alquanto formalistica interpretazione del principio di stretta legalità, che domina la materia cautelare; in particolare, la Corte di Cassazione ha sempre ritenuto che tale principio vietasse l’applicazione congiunta di diverse misure, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, poiché ciò avrebbe comportato “la creazione, in un mixtum composito, di una nuova

misura non corrispondente al paradigma normativo tipico”,

precisando che, se così fosse, “l’osmosi o il cumulo di più prescrizioni

o misure finirebbe per creare ex novo ulteriori tipi di misure estranei alla pur vasta gamma dei modelli normativamente previsti”67. Ed è proprio questo inciso a non rendere convincente tale orientamento: e cioè il fatto che la Corte consideri una violazione al principio di stretta legalità non soltanto (e a ragione) la creazione di una misura cautelare non disciplinata dalla legge tramite la somma di prescrizioni aventi origine in misure diverse, ma anche (e a torto, secondo la più autorevole dottrina) l’applicazione cumulativa di singole misure, in sé e per sé considerate; in tale ultimo caso, a dire il vero, nessuna osmosi sembra riscontrabile, in quanto le singole misure, seppur utilizzate

66Sia sufficiente ricordare che l’analisi terminologica effettuata dalla Suprema Corte

in questa circostanza si basava principalmente sull’osservazione del fatto che il legislatore avesse sempre utilizzato, nel testo normativo, la forma singolare: e.g. i riferimenti a “ciascuna misura”, a “ogni strumento prescelto”, ad “ogni altra

misura”; oltre, chiaramente, al far leva sulla circostanza, già menzionata, che fossero

soltanto due disposizioni, gli artt. 276 e 307, a contenere espressamente la possibilità di cumulo. Per una più approfondita critica alle argomentazioni testuali della sentenza in esame, si rinvia a D. NEGRI, Tecniche di riduzione della custodia in

carcere, in Le misure cautelari personali nella strategia del “minimo sacrificio necessario”, a cura di D. CHINNICI, Dike Giuridica Editrice, 2015.

cumulativamente, rispettano lo schema prefissato dal codice per ciascuna di esse.

Le conseguenze di tale orientamento restrittivo, sopravvissuto proprio fino all’entrata in vigore della legge 47 del 2015, sono paradossali: “il

vincolo a limitare le libertà della persona soltanto nei casi e modi stabiliti dalla legge processuale comporta che la discrezionalità nell’esercizio del potere di adattamento della cautela alla situazione concreta non abbia margine per manifestarsi diversamente, quand’anche ciò consentisse di evitare all’imputato sacrifici superiori allo stretto necessario”68; in altre parole, il principio di tassatività e di stretta legalità in materia di restrizioni della libertà personale, espresso dall’art. 13, comma 2 della Costituzione, posto a presidio dei diritti e delle garanzie del reo, finisce per essere, a causa di un formalismo interpretativo opinabile, proprio strumento di compressione della libertà personale dell’imputato, dal momento che è tale principio, nella versione restrittiva che ne ha sempre dato la Corte di Cassazione, ad imporre al reo un sacrificio maggiore del necessario, dovendo egli vedersi applicata la custodia carceraria, nonostante il cumulo di misure complessivamente meno afflittive potrebbe soddisfare compiutamente le esigenze cautelari del caso concreto.

E’ nell’ottica di quanto esposto, allora, e specificamente della ricostruzione di tale rigido orientamento, che si comprende la portata innovativa della modifica del primo periodo dell’art. 275, comma 3: modifica che, senza le precisazioni svolte, sarebbe potuta apparire

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