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Trascrizione dei testi

Nel documento PIETRE LATRANTI E NITRENTI (pagine 22-31)

Lastra con iscrizione in prosa. Il luogo di ritrovamento non è noto (Stevanato, “Iunxi semper Manibus ipse meis” 22). Attualmente fa parte della collezione dei Musei Capitolini a Roma. I nomi, l’uso della costruzione tarda con per+ablativo, e gli indizi paleografici collocano quest’epigrafe nel terzo o quarto secolo d.C.

(Petrucci 162-3). Alla quinta linea è scritto dies, ma EDR emenda la parola in diebus per la presenza dell’ablativo annis: il significato non cambia. Appendice: immagine 3.

D(is) M(anibus). che ha vissuto dieci anni, due mesi e diciannove giorni, grazie alla quale

Chi sia il destinatario di questa iscrizione non è sicuro: può essere una cagnetta, ma anche un essere umano, cioè la figlia di Gorgonius e Fullonia. L’incertezza nasce dal fatto che la parola catella può significare

‘cagnetta’, ma può anche essere usato come vezzeggiativo: un uso attestato in una epistola di San Girolamo (Hier. epist. 22, 29: mi catella, rebus tuis utere et vive, dum vivis), che ne rappresenta l’unica attestazione nella letteratura (Petrucci 162). Esistono argomenti a favore delle due ipotesi, ma ritorno sulla questione nell’ultimo capitolo.

2.2. Helena48

Stele con iscrizione in prosa e bassorilievo di un cane, ritrovata a Roma. Attualmente nel Paul Getty Museum a Malibù. È stata datata tra il primo e secondo secolo d.C., ma la Stevanato la colloca nel terzo (Stevanato,

“Iunxi semper Manibus ipse meis” 43). La raffigurazione del cane ci mostra un canis melitaeus, cioè un cane maltese (Koch e Wight 85). Appendice: immagine 4.

Helenae alumnae

Anche questa iscrizione è stata messa in discussione come l’iscrizione di Cyras. Un gruppo di studiosi la vede come un’iscrizione per una cagnetta, mentre per altri si tratta di una schiavetta (41). Per la Stevanato però

47 CECapitol 81; EDR29831; Stevanato nr.3, pagg. 22-7 (traduzione in base a quella della Stevanato pag. 22).

48 CIL VI, 19190; EDR131027; RFS pag. 85; Alumnus 885; Stevanato nr.5, pagg. 37-43 (traduzione copiata da Stevanato pag. 38).

non c’è dubbio che questa iscrizione sia stata incisa per una cagnetta (41-3) e anche sul sito del Paul Getty Museum si sostiene la prima ipotesi («Grave Stele for Helena»).

2.3. Margarita49

Lastra con iscrizione in distici elegiaci per una cagnetta da caccia e da salotto. È stata ritrovata a Roma ed è datata al secondo secolo d.C. Fa parte della collezione del British Museum di Londra. Appendice: immagine 5.

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5

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Gallia me genuit, nomen mihi dIvitis undae concha dedit, formae nominis aptus honos.

Docta per incertas audax discurrere silvas collibus hirsutas atque agitare feras,

non gravibus vinc(u)lis umquam consueta tenerI, verbera nec niveo corpore saeva patI;

mollI namque sinu domini dominaeque iacebam et noram in strato lassa cubare toro

et plus quam licuit muto canis ore loquebar nulli latratus pertimuere meos.

Sed iam fata subiI partu iactata sinistro quam nunc sub parvo marmore terra teg˹i˺t.

MargarIta.

Gallia mi ha genato, il mio nome mi ha dato la conchiglia di un’onda sontuosa, un onore adatto alla bellezza del mio nome. Ero esperta nel correre audace attraverso le foreste malsicure e nel cacciare fiere con pelo ruvido sulle colline.

Non sono mai stata abituata a essere trattenuta da catene oppressive né a subire percosse crudeli sul mio corpo candido come la neve. Perché giacevo nel morbido grembo del padrone e della padrona, e avevo imparato a sdraiarmi sul letto coperto quando ero stanca, e più del solito ho parlato con la mia muta bocca di cane. Nessuno aveva paura del mio abbaiare, ma poi ho subito il mio destino tormentata da un parto andato storto; io che la terra ora copre sotto una piccola tomba marmorea. Margarita.

Alla fine dell’iscrizione vediamo che qualcuno ha tentato di correggere la parola teget alla forma corretta tegit. Può essere stato fatto dal lapicida o dal cliente dopo aver notato l’errore (Booms 92-3).

49 CIL VI, 29896; CLE 1175; EDR133179; Epigraphica 2009, pag. 276; ZPE 210, pag. 91; Stevanato nr.9, pagg. 60-6 (traduzione in base a Stevanato pag. 62).

2.4. Patrikê50

Lastra con iscrizione in distici elegiaci, anche scritta per una cagnetta da salotto. È stata ritrovata a Pogerola

‘in Angeli marmore altaris’ (EDR120622) nell’antica regio I (Latium et Campania) e probabilmente incisa a Salerno. L’epigrafe è stata datata al secondo secolo d.C. Al presente si conserva solo un frammento dell’epigrafe nella chiesa di Santa Marina a Pogerola. Fortunatamente però l’intero testo è stato visto e trascritto dal medico e umanista Simon de Vallambert nel Cinquecento. Appendice: immagine 6.

1

Ergo mihi, Patrice, iam nón dabis ósculla mille, nec poteris collo grata cubáre meó.

consueras gremio poscere blanda cibos.

Lambere tu calicem lingua rapiente solebas, quem tibi saepe meae sustinuere manus, accip[ere] et lassum cauda gaudente frequenter [et mi omnes gestu dicere blanditias]

Ti ho portato, madido di lacrime, nostra

cagnolina, cosa che ero più felice di fare quindici anni fa. Dunque non mi dai più mille baci Patrikê, né potrai più dormire riconoscente nel mio collo.

Triste, ti – benemerita – ho posto in un sepolcro marmoreo e per sempre ti ho congiunta ai miei Mani. Con comportamenti arguti eri pronta ad assomigliare a un essere umano, ahimè, quali delizie abbiamo perduto. Tu, dolce Patrikê, eri abituata a essere adagiata ai nostri pasti e in gremio, languida, a chiedere del cibo. Tu, eri solita leccare con la tua lingua avida la coppa che a te spesso le mie mani sostenevano. Eri solita accogliermi, anche stanco, con la coda festante, e dirmi tutte le dolcezze con un gesto.

Nel CIL c’è scritto che l’ultima riga è stata aggiunta da Basilio Zanchi, anche lui umanista del Cinquecento e per questo tale riga è messa tra parentesi quadre nelle edizioni. Vallambert ha voluto emendare la parola patrice cambiandola con patriae (v.3 e 9), affingere per attingere (v.9) e accipere per accipe (v.13), ma quelle emendazioni non sono molto probabili. Mommsen ha sostenuto che moribus era abbreviato (MORIB.), ma l’impaginazione richiede che la parola fosse scritta per esteso.

2.5. Aeolis51

Ara con bassorilievo, urceus e patera, e un’iscrizione che consiste di due esametri distribuiti su cinque righe.

È stata ritrovata a Gallicano nel Lazio nella regio I, fotografata nel 1969 da H.G. Kolbe nella chiesa di San Rocco a Gallicano, analizzata da M.G. Granino Cecere nel 1994, ma attualmente dispersa. È stata datata al secondo secolo d.C. Appendice: immagine 7. un dolore smisurato, tolta a me dal fato alato.

50 CIL X, 659; InscrIt 1, 1, 228; CLE 1176; EDR120622; ZPE 100, 1994, pag. 418; Courtney 1995, pagg. 196-7, nr. 203;

Quaderni del Ramo d'Oro, 8, 2016, pag. 48 sgg.; Stevanato nr.12, pagg. 78-87 (trad. in base a Stevanato pag. 80).

51 AE 1994, 348; ZPE 100, pagg. 413-21; Stevanato nr.1, pagg. 11-5 (trad. in basa a Stevanato pag. 12).

2.6. Cane da guardia52

Ara con iscrizione composta di un distico elegiaco che si estende per sei righe, eretta per un cane da guardia (caso isolato tra tante cagnette e cani da salotto). È stata ritrovata a Helvia Ricina nell’antica regio V (Picenum), l’odierna Villa Potenza e si trova attualmente nei musei civici di Macerata. Anche questa iscrizione è stata datata al secondo secolo d.C. Appendice: immagine 8.

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Il custode dei carri da viaggio mai ha abbaiato in modo inopportuno, ora tace e la tenebra rivendica le sue ceneri.

Alcuni ricercatori ritengono che una parte dell’iscrizione sia andata perduta nella parte bassa dell’ara dove la pietra è spezzata, in quanto il nome del cane non compare. Altri credono che il supporto fosse troppo limitato per un altro distico e che l’iscrizione non abbia bisogno di ulteriori informazioni (Stevanato, “Iunxi semper Manibus ipse meis” 103). Il secondo argomento mi sembra debole perché un distico, certamente con delle rientranze come qui, è di per sé un’unità ritmica e concettuale. Il primo argomento invece ha senso: è poco probabile che il testo continuasse visto lo spazio che un secondo distico occuperebbe. Il nome poteva anche essere iscritto nella parte superiore dell’ara, visto che anche questa è danneggiata. L’assenza del nome non mi pare dovuto alla funzione del cane: il fatto che qualcuno abbia eretta una tale iscrizione per il suo animale domestico indica una relazione affettiva, anche se non si tratta di un cane da salotto.

2.7. Fuscus53

Altra ara, ancora con un’iscrizione in distici elegiaci. Secondo il database di Manfred Clauss è stata trovata nell’antica Iulia Concordia, l’odierna Concordia Sagittaria, mentre secondo Stevanato il ritrovamento dev’essere avvenuto a Chiarano: non cambia molto il contesto geografico in cui è stato scritto il testo, dal momento che la distanza tra le due località a volo d’uccello è soltanto di una ventina di chilometri. È stata datata al terzo secolo e attualmente è esposta nel museo civico archeologico ‘Eno Bellis’ di Oderzo.

Appendice: immagine 9.

1

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Hac in sede iacet post reddita fata catellus.

Corpus et eiusdem dulcia mella tegunt.

Nomine Fuscus erat ter senos abstulit annos.

Membraque vix poterat iam sua ferre senex.

[---] exerit ạ[---]. [--- ]verit [---]

[--- ]

In questa dimora giace, dopo aver portato a compimento il suo destino mortale, il cagnolino e dolce balsami di miele avvolgono il suo corpo. Il suo nome era Fuscus, ha agguantato diciotto anni e a fatica poteva, ormai vecchio, trascinare le sue zampe.

La correzione dell’ultima riga è stata fatta da Giovanni Lettich che ha anche proposto di leggere legunti invece di tegunt (v.2) e apstulit invece di abstulit (v.3) (Stevanato, “Iunxi semper Manibus ipse meis” 29).

52 CIL IX, 5785; CLE 1174; Macerata pag. 206; Stevanato nr.15, pagg. 102-7 (trad. in base a Stevanato pag. 102).

53 AE 1994, 699; IRConcor 192; Masaro, 60; Stevanato nr.4, pagg. 28-36 (trad. in basa a Stevanato pag. 29).

2.8. Myia54

Si tratta di una lastra marmorea con iscrizione in endecasillabi faleci che è stata scoperta nell’antico Elimberrum in Aquitania, l’odierno Auch (si trova attualmente al musée des Jacobins di questa città).

Stevanato ha datato l’epigrafe al secondo secolo d.C. È un monumento eccezionale: non solo è l’epitaffio per un animale più lontano da Roma, ma è anche “le plus ancien des rares poèmes épigraphiques qu’a

Quanto dolce fu lei e quanto affettuosa, che, quando era in vita, si giaceva in grembo, sempre compartecipe del sonno e del letto. O che brutto fatto, Myia, che tu sia perita! Caparbia, avresti abbaiato soltanto se un qualche rivale avesse stato sdraiato a canto della padrona. O che brutto fatto, Myia, che tu sia perita! Ormai il profondo sepolcro ti trattiene ignara, né puoi più sfuriare, né inveire, né mi rallegra con affettuosi morsetti.

Lo scalpellino ha avuto qualche difficoltà per la lunghezza delle righe: l’a di benicna (corretta in benigna) si trova sopra l’n, nell’ottavo e decimo verso ci sono due nessi, e ha dovuto abbreviare la parola morsibus.

2.9. Speudusa55

Altra lastra marmorea questa volta con iscrizione in dimetro giambico per un cavallo. È stata ritrovata a Roma, ma al momento fa parte della collezione del museo archeologico nazionale di Napoli. In base alle formulae usate e ai indizi paleografici, Maurizio Giovagnoli la data tra il 171 e il 230 d.C. (EDR138497).

54 CIL XIII, 488; CLE 1512; CAG 32, pag. 83; ILA-Auscii 57; Stevanato nr.10, pagg. 67-72 (trad. in base a Stevanato pag.

68).

55 CIL VI, 10082; ILMN 1, 154; CLE 218; EDR138497; Stevanato nr.22, pagg. 142-8 (trad. in base a Stevanato pag. 143).

2.10. Samis56

Stele marmoreo con iscrizione in distici elegiaci, scoperto ad Acque Albule e al presente in possesso del museo archeologico nazionale di Napoli. La presenza del sintagma Aelia villa (= villa Adriana) indica che questa epigrafe risale al periodo durante o dopo il regno di Adriano: alcuni studiosi l’hanno datata nel secondo secolo, altri più tra il terzo e il quarto secolo dal momento che è scritta in una capitale rustica (Stevanato, “Iunxi semper Manibus ipse meis” 138). Appendice: immagine 12.

1

Hinc g˹r˺aci˹le˺s ubi ia˹m˺ nerui tenuisque cicatrix et celer accepto currere coepit ecus,

dat tibi pro meritis se(m)˹e˺t de marmore ˹d˺onum, qua media(m) ga˹ud˺es, Lymfa, subire viam, Tiburis adversae dominus qua despicit aedeṃ frontibus et pictis Aelia(m) vil˹l˺a(m) videt.

((quattro zoccoli di un cavallo))

L’infermo Samis che aveva stato nella sorgente termale di (Aqua) Albula per attenuare con le acque curative l’articolazione che era gonfia a causa della zanna etrusca e ferito da un cinghiale di Roselle fu accidentalmente indebolito. Poi, quando già i muscoli si sono assottigliati, la cicatrice alleviata, e il cavallo veloce cominciò a correre preso (su di sé un cavaliere), offre se stesso a te sotto forma di dono marmoreo per i tuoi meriti; nel luogo in cui, Lympha, gioisci di chinarsi sotto la strada mezzana, nel luogo in cui il signore di Tivoli guarda il tempio – mentre lo affronti – e la villa Aelia con le sue facciate dipinte brilla.

L’ortografia è molto problematica. L’iscrizione contiene molti errori grafici e fonologici: c per g in gurcîte (v.1), i per l in articuium (v.2) e vilia (v.10), ipercorrezione ae per e in Aetrusco ed e per u in tergebat (v.3), geminazione dell’s in Russellano (v.4), n per m in ian57 (v.5) e la forma molto strana giacius probabilmente per graciles nello stesso verso, b per d in bonum (v.7), seat per semet nello stesso verso, e gayoes per gaudes (v.8)58. Inoltre, l’ultima riga grammaticalmente non ha senso: Aelia villa dev’essere o nominativo o ablativo, ma nessuno dei due casi va d’accordo con il verbo.

Per quanto riguarda la traduzione non c’è chiarezza a che cosa si riferisce la parola accepto, per questo ho semplicemente adottato la traduzione della Stevanato (che segue Dessau e Bücheler) anche se un po’

azzardata secondo me. È stato proposto di leggere videt come nidet (CIL, Courtney) nell’ultimo verso, ma visto il fatto che è veramente scritto videt e non nitet, credo che l’errore abbia a che fare con la disattenzione e il livello grammaticale basso del lapicida: non è possibile parlare di una caduta del m finale dal momento che le altre forme mantengono -m, ma è possibile che sia un errore di caso grammaticale.

Anche l’interpretazione è difficile. Non esiste consenso su chi si sia fatto male e chi sia stato raffigurato nel marmo: il cavallo o il proprietario? Per Stevanato non c’è dubbio che sia sempre il cavallo (Stevanato, “Iunxi semper Manibus ipse meis” 134), mentre per altri studiosi come Christopher McDonough Samis è un uomo appartenente all’élite (McDonough 655-8). Non possiamo essere sicuri che gli zoccoli nella parte superiore

56 CIL XIV, 3911; InscrIt 4, 1, 596; CLE 865; ILMN 1, 578; AE 2000, 380; Stevanato nr.20, pagg. 132-8.

57 Assimilazione con nervi.

58 Correzioni tratte da CIL, CLE e ILMN.

perduta fossero di un cavallo, sopra poteva esserci anche un cavaliere. Ritorno anche su questa questione nell’ultimo capitolo.

2.11. ‘Coporus’59

Cippo con ritratto di un cavallo al galoppo e un’iscrizione che consiste di due distici elegiaci incisi su otto righe. È stato ritrovato a Brescia, in Corso Cavour 37, e attualmente lo si può vedere nel museo Maffeiano di Verona. Stevanato lo data al secondo secolo. Appendice: immagine 13.

1 superare gli uccelli erranti e a vincere le raffiche del Cauro; sei messa nella stalla costituita da questo sepolcro.

A causa di danni ai lati del supporto non tutte le edizioni del testo concordano: i CLE aggiungono un -s alla parola tuli (v.2), mentre il CIL, InscrIt e EDR non lo fanno; EDR mette nec dopo tuli, il CIL e InscrIt prima di Tusci. La posizione di nec non cambia il significato ma l’ho preferito all’inizio del secondo verso visto che ci sembra essere più spazio a sinistra tenendo conto dell’impaginazione (ad asse centrale). Non possiamo essere sicuri che tuli sia una seconda persona singolare (tipo tulisti, tulisses) dal momento che la metà del primo esametro è andato perduto, dunque ho lasciato aperta la questione.

Qui e nel resto della tesi metto la parola coporus tra virgolette perché è una parola di cui non è certo il significato. Stevanato considera Coporus il nome del cavallo, mentre Mommsen (seguito da InscrIt) dichiara di aver letto una lettera (un a, r o x) prima del c, che può fare parte della parola precedente o di coporus stesso (ma in questo caso resta il problema che parole che finiscono in -coporus non sono attestate). La parola può essere una forma sbagliata di corporem, ma più convincente mi sembra l’interpretazione di Inscrit e dei CLE che lo considerano un nome etnico: ‘i Copori’, un popolo che visse nella Hispania Tarraconensis, menzionato da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (Plin. nat. 4, 111).60

59 CIL V, 4512; CIL V, *429, 240; CLE 1177; InscrIt 10, 5, 308; AE 2012, +558; Masaro 2017, 98; Panazza, pagg. 58 e 61;

MEB, pagg. 16-7; Stevanato nr.18, pagg. 125-9 (trad. in base a Stevanato pag. 126).

60 Parola proveniente dalla forma indoeuropea *pokwero- (cuocere), dunque ‘i fornai’ (Prósper 190-1).

2.12. Borysthenes61

Il poema per Boristene, il cavallo dell’imperatore Adriano, scritto in un metro che alterna dimetri giambici catalettici e dimetri coriambici catalettici62, ha una peculiare tradizione. Inizia con la pubblicazione del componimento nel libro Epigrammata et Poematia vetera dell’umanista Pierre Pithou nel 1590. Alla fine del suo libro (pag. 465) Pithou dice che l’ha ritrovato ‘in una scheda antica senza autore’ che poi si è persa, e l’attribuisce all’imperatore Adriano in base a un passo su Adriano in Dione Cassio63. La paternità adrianea è stata messa in discussione nel tempo: molti ricercatori, come Maria Assunta Vinchesi nel suo contributo nel libro Disiecti membra poetae (vol.3), hanno perorato la causa dell’imperatore, ma fino a ora non è stata ritrovata una fonte sicura che l’attribuisca ad Adriano. Nel 1623 poi l’astronomo e collezionista Nicolas-Claude Fabri de Peiresc trova a les Tourettes, un campo a quattro chilometri d’Apt (nella Gallia Narbonensis, presso Avignone), una stele frammentaria che contiene le prime sette righe e una parte dell’ottava (Poëzévara 72): per il facsimile di Peiresc vedi l’appendice immagine 14. Tuttavia, questa non è la sola versione della vicenda: nella metà del seicento ci sono altre persone che sostengono che l’iscrizione sia stata recuperata ancora prima di Peiresc (p.e. nel 1604, nel 1622…), ma mai prima del 1590. Poi, nell’Ottocento, anche ad Apt, il medico collezionista Esprit Calvet annuncia di aver scoperto un altro pezzo della stele con l’ultima riga. Entrambi i frammenti dopo essere stati ritrovati entrano nelle collezioni delle persone che li hanno trovati (risp. Peiresc e Calvet) dopodiché a loro volta sono andati perduti. Tuttavia, nel 2004 l’archeologo Patrick De Michèle ritrova per caso il secondo frammento riutilizzato come parte del retro di un sarcofago cristiano del museo Calvet ad Avignone (appendice immagini 15 e 16), circostanza che conferma la descrizione ottocentesca di Calvet: “fragmentum sepulchri marmorei perantiqui litteris pulcherrimis, cui manu recentiore, infimo scilicet aevo, addita sunt opere anaglyphico variae figurae, emptum a me Aptae paucis abhinc annis”. (Vinchesi 181, Poëzévara 72-3; Schizzerotto 276-7)

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61 CIL XII, 1122; ILN 4, 33; CLE 1522; ICalvet 231; IGF 183; CAG 84, 2, pag. 165; Stevanato nr.17, pagg. 114-24 (trad. in base a Stevanato pag. 116). Il testo che riproduco qui è la versione epigrafica come riportata nel CIL.

62 I versi 9 e 10 sono due dimetri giambici, mentre 11 e 12 sono due dimetri coriambici. Alcuni studiosi lo considerano un errore e spostano l’undicesimo o il dodicesimo verso, altri no. Qui ho seguito l’ordine di Pithou.

63 Lo storico greco-romano Lucio Cassio Dione menziona che l’imperatore Adriano aveva costruito un sepolcro per il suo cavallo con una stele su cui fece poi incidere l’epitaffio (Dio Cass. hist. rom. 69, 10, 2).

La maggioranza degli studiosi considera il testo del CIL originale e sostiene che fosse stato scritto da o su richiesta di Adriano. Tuttavia, restavo a lungo incerto quale tradizione fosse corretta: quella manoscritta o quella epigrafica, dal momento che esse riportano testi leggermente diversi. Theodor Mommsen sosteneva che la scheda che aveva trovato Pithou era una trascrizione di un originale epigrafico perché il testo non faceva parte di antologie di componimenti di Adriano e perché i versi 6 e 7 erano sbagliati: Pithou aveva trascritto Pannonicos nec ullus apros insequentem invece di Pannonicos in apros / nec ullus insequentem (Vinchesi 182; Schizzerotto 278). Giancarlo Schizzerotto invece riteneva che l’epigrafe trovata ad Apt fosse un falso epigrafico perché aveva trovato un chiaro rimando a questo componimento nel libro Magnae Derivationes scritto da Uguccione da Pisa64 nel XII (o XIII) secolo (Schizzerotto 278-9) e la storia dell’iscrizione è alquanto curiosa. Anche Vincenzo Tandoi ha sostenuto la tesi di Schizzerotto dicendo che in questo periodo circolava l’Historia Augusta, un’opera con informazioni storiche interessanti per umanisti e soprattutto falsari (183).

Gli studiosi partono dunque oggi dal presupposto dell’originalità: nessuno, per quanto ne so, ha messo in discussione l’originalità del componimento di per sé. Nondimeno, gli argomenti del Mommsen possono anche essere usati contro l’originalità adrianea del componimento dal momento che non sappiamo da dove l’abbia tratto Uguccione. Nessuno ha supposto che potesse essere un componimento letterario, un gioco letterario poi inciso da un falsario. Tuttavia, l’originalità sembra abbastanza fondata dal momento che Vinchesi, perorando la causa della paternità adrianea, ha dimostrato che il componimento corrisponde in gran parte alle mode letterarie dei poeti neoterici e alla passione per la caccia del secondo secolo d.C.

(Vinchesi 184-93).

La scoperta rilevante del secondo frammento non ha suscitato una reazione particolarmente entusiastica:

l’attenzione per l’epigrafe non è stata veramente grande. Tuttavia, nonostante il fatto che esso non restituisca una parte ampia dell’iscrizione o quella più interessante, ci rivela che la paleografia si addice bene a un testo dei decenni iniziali del secondo secolo, cosa che può essere utilizzata come argomento per confermare l’originalità e la tradizione epigrafica. Per fornire una risposta veramente conclusiva alle questioni vorrei rivolgere un appello alla comunità epigrafica perché si faccia un’analisi del tipo di supporto dell’epigrafe, dal momento che la tradizione dell’epigrafe resta comunque molto curiosa. Inoltre, visto che la nicchia del frammento corrisponde al tratteggio dal disopra del facsimile di Peiresc, sembrano esserci

l’attenzione per l’epigrafe non è stata veramente grande. Tuttavia, nonostante il fatto che esso non restituisca una parte ampia dell’iscrizione o quella più interessante, ci rivela che la paleografia si addice bene a un testo dei decenni iniziali del secondo secolo, cosa che può essere utilizzata come argomento per confermare l’originalità e la tradizione epigrafica. Per fornire una risposta veramente conclusiva alle questioni vorrei rivolgere un appello alla comunità epigrafica perché si faccia un’analisi del tipo di supporto dell’epigrafe, dal momento che la tradizione dell’epigrafe resta comunque molto curiosa. Inoltre, visto che la nicchia del frammento corrisponde al tratteggio dal disopra del facsimile di Peiresc, sembrano esserci

Nel documento PIETRE LATRANTI E NITRENTI (pagine 22-31)

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