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Il trattamento del SE richiede la centralizzazione dei pazienti in Centri dotati di elevata esperienza nel trattamento dei sarcomi ossei o in istituzioni che facciano riferimento a network specializzati nei sarcomi. Data la rarità della malattia, è raccomandato l’inserimento dei pazienti in studi clinici nazionali o internazionali.

Trattandosi di una neoplasia altamente chemio- e radiosensibile, attualmente l’approccio standard per il trattamento del SE prevede la combinazione di terapia sistemica (chemioterapia) e locale (chirurgia e/o radioterapia).34

La chirurgia rappresenta la prima scelta nel trattamento locale del SE ove possibile, con l’obiettivo di eliminare il tumore con margini di resezione ampi e preservando al tempo stesso il migliore recupero funzionale. Secondo la classificazione di Enneking i margini chirurgici possono essere distinti in radicali, ampi, marginali, intralesionali e contaminati.31 La determinazione di tale parametro, frutto della stretta collaborazione fra chirurgo ed anatomopatologo, è fondamentale se si considera la relazione esistente fra qualità dei margini chirurgici e rischio di recidiva locale. Un intervento intralesionale deve sempre essere evitato: esso, infatti, anche se combinato con radioterapia postoperatoria, non offre vantaggi rispetto alla sola radioterapia in termini di controllo locale, perciò non deve mai essere pianificato. Attualmente, tra tutti i pazienti affetti da SE candidabili alla chirurgia, oltre il 90% può beneficiare di un intervento di tipo conservativo. Il giudizio di non resecabilità, invece, richiede la conferma da parte di un chirurgo dotato di specifica esperienza nel trattamento di sarcomi ossei. Aree con margini a rischio che siano identificate durante la procedura chirurgica dovrebbero essere rese ben identificabili con clips di titanio, ai fini dell’eventuale trattamento radioterapico postoperatorio.

Le tecniche ricostruttive dovranno tenere in considerazione la possibile necessità di un trattamento radioterapico postoperatorio.

32 Alcuni tra i pazienti che abbiano effettuato un trattamento locale

esclusivamente radioterapico potranno essere considerati e selezionati, previa valutazione multidisciplinare, per una chirurgia a completamento del trattamento chemioterapico.

La radioterapia costituisce l’altra ed unica possibilità di trattamento locale nei casi in cui la chirurgia sia giudicata non fattibile o oncologicamente inadeguata. Grazie alla radiosensibilità del tumore, essa offre comunque una buona percentuale di controllo locale.

Un trattamento radioterapico postoperatorio deve essere somministrato in tutti quei casi in cui i margini chirurgici risultino interessati da malattia.35,36 Non vi è, invece, conformità di giudizio sull’opportunità di somministrare o meno radioterapia postoperatoria in caso di margini ampi e scarsa risposta istologica. Infine, il trattamento radioterapico postoperatorio non è indicato in caso di margini ampi e buona risposta istologica.

Il volume da sottoporre al trattamento radioterapico fa riferimento all’estensione del tumore al momento della diagnosi. In caso di radioterapia esclusiva la dose cumulativa raccomandata è di 55-60 Gy, se invece alla radioterapia si associa la chirurgia la dose raccomandata è di 40-45 Gy. Generalmente si adotta la tecnica del bifrazionamento quotidiano: essa permette di aumentare l’intensità del trattamento, favorisce una migliore integrazione con la chemioterapia, ed inoltre consente di limitare la tossicità tardiva grazie alla riduzione del dosaggio per singola frazione. In caso di localizzazione al rachide, la dose somministrata al midollo spinale non deve superare i 45 Gy. Per quanto riguarda le modalità di erogazione della radiazione, sono divenute recentemente disponibili tecniche di radioterapia conformazionale (3D-CRT) o ad intensità modulata (IMRT). Esse consentono una maggiore selettività di trattamento con risparmio dei tessuti sani circostanti, importante soprattutto per alcune localizzazioni di malattia. Non vi sono, invece, evidenze di un vantaggio prognostico

33 con l’utilizzo di queste tecniche rispetto a quelle tradizionali. Analoga

considerazione vale per la terapia con adroni.

La chemioterapia primaria è, ad oggi, sempre raccomandata in virtù dell’elevata sensibilità della neoplasia alla stessa. Una volta effettuata la chemioterapia neoadiuvante, il trattamento locale dovrà essere preceduto da ristadiazione della sede di malattia, utilizzando le stesse tecniche di imaging della stadiazione iniziale, ed eventuale ripetizione della BOM se precedentemente positiva.37,38 La risposta alla rivalutazione di malattia effettuata secondo i criteri RECIST (Response Evaluation Criteria in Solid Tumors) è indicativa di miglior prognosi, soprattutto in relazione alla riduzione della componente extraossea, e rappresenta l’unica risposta possibile nei pazienti inoperabili.39

La chemioterapia preoperatoria ha come scopo principale la riduzione dimensionale della neoplasia, in modo tale da effettuare una chirurgia definitiva che sia più conservativa possibile; pare che la completa scomparsa dell’interessamento delle parti molli da parte del tumore correli con una migliore sopravvivenza. Anche nelle forme che alla diagnosi sono localizzate è indicata la ripetizione di una TC torace dopo chemioterapia primaria per escludere l’eventuale comparsa di metastasi polmonari, che rappresenterebbe un indice di mancata risposta alla chemioterapia e di progressione della neoplasia; è possibile eseguirla contestualmente alla PET total body. L’esecuzione di tali esami risulta spesso sufficiente; diversamente, la scintigrafia scheletrica dovrebbe essere ripetuta solo in caso di progressione locale o di sintomatologia specifica. Sul pezzo chirurgico possiamo inoltre valutare la risposta istologica alla chemioterapia pre-operatoria: essendo strettamente correlata alla probabilità di sopravvivenza, essa rappresenta un ulteriore motivo per cui è importante effettuare tale terapia.40 In Italia la risposta istologica viene analizzata usufruendo della scala di valutazione di Picci, che descrive tre gradi: il grado 1 definisce la persistenza di focolai macroscopici di cellule tumorali vitali, il grado 2 la persistenza di focolai microscopici di cellule tumorali vitali, il grado 3 l’assenza di

34 cellule neoplastiche. I gradi 2 e 3 corrispondono ad una buona risposta

istologica, al contrario del grado 1 che identifica una scarsa risposta istologica. Si raccomanda che la valutazione della necrosi indotta dalla chemioterapia sia centralizzata.

I regimi terapeutici chemioterapici utilizzati nel SE sono molteplici, ma spesso in prima linea vengono impiegati gli stessi farmaci variamente combinati tra loro. Gli agenti chemioterapici correntemente utilizzati in prima linea nel trattamento del SE sono i seguenti: adriamicina (ADM), ciclofosfamide (C), ifosfamide (IFO), etoposide (ETO), vincristina (V), actinomicina-D (ACT).41-43

Gli studi clinici attualmente in attività utilizzano da tre a sei cicli (somministrati ogni 2-3 settimane) prima del trattamento locale, e da sei a dieci cicli dopo il trattamento locale, per una durata complessiva di 6-12 mesi. I protocolli maggiormente impiegati hanno previsto l’uso da quattro a sei farmaci variamente combinati fra loro; non esistono nette evidenze su quale sia la combinazione migliore.

È necessario ricordare, nella pianificazione del trattamento, che l’intensità di dose correla positivamente con la sopravvivenza. Sulla base di tale osservazione, alle volte è possibile ricorrere alla terapia con alte dosi seguita da trapianto di midollo osseo (TMO) con cellule staminali emopoietiche autologhe. In particolare, studi non randomizzati evidenziano una loro efficacia in pazienti che abbiano mostrato una scarsa risposta alla chemioterapia primaria ed in pazienti metastatici all’esordio, ovvero pazienti con SE ad alto rischio.44 La chemioterapia primaria consente di valutare la sensibilità delle cellule tumorali agli agenti impiegati mediante lo studio istologico del pezzo operatorio; tuttavia, attualmente non vi è un consenso riguardo la possibilità di effettuare una chemioterapia post-chirurgica differenziata in base alla risposta istologica.

Il trattamento chemioterapico deve essere sempre raccomandato a prescindere dall’età di insorgenza della malattia, sempre tenendo conto delle condizioni generali dei pazienti. Anche in età giovane adulta - in particolare fino ai 40 anni – si suggerisce di seguire la terapia prevista

35 dai protocolli pediatrici: essa, infatti, essendo più aggressiva permette

di ottenere risultati migliori.

In pazienti affetti da SE extraosseo, il trattamento chemioterapico segue gli stessi criteri delle forme ossee.45

A causa dell’elevato rischio di infertilità conseguente ai trattamenti chemioterapico e radioterapico, è importante offrire al paziente la possibilità di preservazione degli ovociti o di conservazione dello sperma. Per quanto riguarda il rischio di cardiotossicità da ADM, consistente nello sviluppo di cardiopatia dilatativa, i pazienti devono essere strettamente monitorati con ecocardiogrammi seriati.

A parità di trattamento chemioterapico, i pazienti metastatici all’esordio di malattia presentano una probabilità di sopravvivenza inferiore rispetto ai pazienti con malattia localizzata. In caso di metastasi sincrone, quindi, è prevista una strategia più aggressiva, che prevede una chemioterapia intensificata rispetto a quella dei pazienti con malattia localizzata, associata a radioterapia possibilmente su tutte le sedi di malattia e a chirurgia ove necessario.46

L’intensificazione del trattamento mediante alte dosi di Busulfano- Melfalan ed il supporto con cellule staminali ematopoietiche autologhe nei pazienti metastatici all’esordio e responsivi alla terapia a dosi convenzionali, ha riportato in diversi studi non randomizzati risultati incoraggianti e superiori in termini di sopravvivenza a quelli storici.47- 49

Oltre ad evidenziare l’impatto positivo della terapia con alte dosi e trapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe (con una EFS a 5 anni complessiva pari al 37%, mentre nel sottogruppo di pazienti che hanno ricevuto HDCT raggiunge il 47%), lo studio condotto dalla Société Française des Cancers de l’Enfant ha analizzato l’influenza delle diverse localizzazioni metastatiche sull’outcome della malattia, valutando ancora una volta la sopravvivenza libera da eventi a 5 anni: nei pazienti con metastasi esclusivamente polmonari la EFS arriva al 52%; nei pazienti con metastasi ossee ma senza interessamento

36 midollare la EFS si attesta al 36%; infine, dei 23 pazienti con

coinvolgimento del midollo osseo alla diagnosi solo uno è sopravvissuto, determinando una EFS pari al 4%.47

Anche nell’esperienza italiana i vantaggi maggiori sono stati raggiunti nei pazienti con metastasi esclusivamente polmonari e/o con una singola metastasi scheletrica, e responsivi alla chemioterapia primaria. Nel caso della localizzazione polmonare, l’uso della radioterapia conferisce un vantaggio in termini di sopravvivenza.52

Il protocollo EWING 2008, invece, ha riportato risultati contrastanti. I pazienti afferenti a questo studio sono stati distinti in tre gruppi di rischio in base all’estensione di malattia alla diagnosi; dopo aver effettuato tutti la stessa terapia di induzione (6 cicli VIDE), sono stati randomizzati ed inseriti in diversi bracci di trattamento. Soffermandoci sugli High Risk R2, ovvero soggetti con malattia localizzata ma Poor Responder e soggetti affetti da SE con metastasi esclusivamente polmonari, sono stati randomizzati come nel trial EURO-EWING 99: un braccio di trattamento prevedeva la chemioterapia standard (8 cicli VAI), l’altro braccio prevedeva un solo ciclo VAI seguito dalla terapia con alte dosi di Busulfano-Melfalan. Nei PR (trial R2Loc) è stata confermata l’efficacia del trattamento intensificato con BuMel, con un importante beneficio sulla OS a tre anni ed ancor più sulla EFS a tre anni.50 Valutando i soggetti con metastasi polmonari (trial R2Pul), invece, nel gruppo sottoposto alla terapia con alte dosi di BuMel è stata ottenuta una superiorità ma non statisticamente significativa, peraltro al costo di maggiori tossicità, rispetto al trattamento standard.51

Il ruolo della chirurgia in caso di malattia metastatica all’esordio è meno definito, e richiede una valutazione collegiale.

Qualora il paziente recidivi, la sede di ricaduta e l’intervallo libero da malattia rappresentano i principali fattori prognostici. Se l’intervallo libero di malattia è maggiore di 36 mesi e la localizzazione della recidiva è polmonare, si raccomanda - seppure in assenza di parere univoco - l’intervento chirurgico; qualora esso non sia eseguibile è indicato il ricorso alla radioterapia polmonare.53 Nelle altre circostanze

37 è opportuno associare sempre la chemioterapia. Per la malattia recidiva

non si ha uno standard di trattamento chemioterapico da seguire. Inoltre, non vi è consenso unanime riguardo la possibilità di utilizzare terapie con alte dosi e supporto con cellule staminali emopoietiche nei pazienti con ricaduta di malattia.

In alcune analisi retrospettive, come quella condotta da McTiernan et al. su 114 pazienti presentatisi al London Bone and Soft Tissue Sarcoma Service con ESFT recidivato o in progressione, e quella condotta da Baker et al. su 55 pazienti trattati al Children’s Hospital and Regional Medical Center di Seattle, emerge un impatto positivo di tale approccio, che sembra essere in grado di aumentare la OS e la PFS.54,55

Ad ogni modo, il protocollo europeo per il trattamento del SE recidivato (rEECur) affida al Centro di trattamento la decisione sulla fattibilità di tale strategia terapeutica.

Protocolli terapeutici per il SE

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