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Un’ultima riflessione riguarda la posizione dell’Associazione nazionale magistrati

CODICE ETICO

9. Un’ultima riflessione riguarda la posizione dell’Associazione nazionale magistrati

Sappiamo bene che l’Associazione ha un compito particolarmente arduo nell’esercitare validamente la funzione consona alle sue tradizioni e alle ra-gioni della sua esistenza, anche per cause esterne imputabili all’attuale situa-zione del Paese.

È vero che il superamento del forte conflitto ideologico sui compiti della magistratura e i risultati positivi ottenuti nella creazione di un corpo di nor-me che ha concorso alla crescita di una reale autonomia hanno oggettiva-mente favorito un sentire comune sui temi fondamentali della giurisdizione e dell’esser giudice.

Tuttavia, proprio in questo momento peculiare della storia della giustizia italiana, va rivitalizzata, in ogni sede e ad ogni livello, quella spinta unitaria che sola può consentire all’Associazione di essere interlocutrice ascoltata, con la convinta volontà di proseguire con buona lena sulla strada imboccata e disegnare insieme, pur rispettando le differenti posizioni ideali e riafferma-ta la pari dignità delle singole componenti, un futuro migliore per la magi-stratura e per il Paese.

È, in sostanza, necessario che l’Associazione, quale sede privilegiata del confronto sui temi di politica giudiziaria, ritorni, unita, ai suoi compiti di promozione della professionalità, del senso del ruolo istituzionale, dell’auto-rità della terzietà e del prestigio, diventando un organismo dotato di una ef-fettiva soggettività politica esclusiva, presente nella quotidianità di ogni uffi-cio giudiziario e capace di sviluppare una strategia graduale, la più razionale possibile, che la reinserisca nel circuito culturale e la riqualifichi come forza di pressione tendente a realizzare quel salto di qualità del servizio-giustizia funzionale ai principi della Costituzione.

Le nostre volontà comuni, le nostre comuni opzioni di fedeltà istituzio-nale, i nostri comuni riferimenti etici non possono essere assolutamente tra-diti.

E, del resto, in una fase in cui la magistratura pretende di rivendicare un ruolo stabile e affidabile a garanzia dei valori della giustizia e della democra-zia, non possiamo consentirci di disperdere un patrimonio di credibilità conquistato a prezzo di tanti sacrifici.

XXIV Congresso nazionale Roma, 29 gennaio-1 febbraio 1998

Giustizia e riforme costituzionali

di Elena Paciotti

Signor Presidente, autorità, colleghi, rivolgo innanzi tutto un deferente saluto al Presidente della Repubblica, che ci onora con la sua presenza e verso il quale nutriamo sentimenti di gratitudine per molteplici ragioni.

Ringrazio il Sindaco di Roma e il Presidente della Corte costituzionale per le loro parole.

Ringrazio per la loro presenza il Presidente della Camera dei deputati, i Vicepresidenti del Senato, il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, il Mi-nistro della Giustizia, il Vicepresidente del Consiglio superiore della magi-stratura e tutti gli autorevoli ospiti che hanno accettato il nostro invito.

Ringrazio in modo particolare i professori Carlassare, Paladin e Sorrenti-no, che ascolteremo fra poco.

Dicevo che l’Associazione nazionale magistrati è grata al Presidente della Repubblica per molte ragioni: fra l’altro, per la sua costante affermazione del dovere di rispettare l’indipendenza dei magistrati e, insieme, del dovere dei magistrati di operare con correttezza, nel rigoroso rispetto dei diritti dei cittadini.

La garanzia dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini è l’unico fondamento della nostra indipendenza. Ed è il primo valore a cui si ispira la nostra asso-ciazione, che è sorta all’inizio del secolo per opera di un gruppo di pretori,

“magistrati in sott’ordine” di provincia, che rivendicavano la dignità della lo-ro funzione di rendere giustizia nelle contlo-roversie “minori”, nelle quotidiane vicende dei cittadini comuni. Sciolta nel 1925, l’Associazione nazionale ma-gistrati si è ricostituita all’indomani della Liberazione e da allora è cresciuta di pari passo con il lungo processo di attuazione dei principi e dei valori del-la Costituzione repubblicana, di cui celebriamo quest’anno il cinquantenario dell’entrata in vigore.

Oggi, legittimamente, viene rimessa in discussione l’organizzazione sta-tuale disegnata dalla Costituzione: noi riteniamo doveroso interloquire in questa discussione portando il contributo di un’esperienza molteplice, anno-sa, diffuanno-sa, filtrata attraverso elaborazioni non contingenti. Può darsi che vi sia un atteggiamento un po’ conservatore nella nostra visione: sarebbe natu-rale in chi per mestiere deve assicurare il rispetto delle norme vigenti e, in primo luogo, delle norme costituzionali; tuttavia non credo ci si possa

tac-ciare di misoneismo, perché anzi, da tempo, auspichiamo e sosteniamo radi-cali riforme della giustizia, di cui vi è urgente bisogno, anche quando risulti-no un po’ scomode per risulti-non pochi dei risulti-nostri associati.

Aspiriamo a fornire un contributo che si fondi unicamente su valori, fat-ti, e ragioni, senza inutili polemiche.

Poco più di un mese fa ho ascoltato con emozione un pubblico interven-to del Presidente Scalfaro, che ricordava la sua partecipazione all’Assemblea costituente: «l’ascolto dei grandi politici, di chi tornava da sofferenze dall’e-stero, dalle carceri, di chi era sopravvissuto alla guerra di Liberazione»; ri-cordava «l’immane patrimonio di sofferenza che legò, intimamente, uomini di provenienza lontana accomunati nel ‘no’ al potere senza limiti né control-li, senza la legittimazione del voto libero dei cittadini, accomunati nella vo-lontà di rinascita, ad ogni costo, nella libertà». La gran parte di noi ha avuto la fortuna di non subire quelle immani sofferenze: questa buona sorte ci ri-paga a sufficienza del fatto che le odierne discussioni sulle riforme costitu-zionali non hanno il respiro e l’elevatezza di quelle dei nostri Padri costi-tuenti. Sono inutili, polemici paragoni. La sovranità popolare si esprime concretamente con il libero voto nelle concrete situazioni storiche: oggi ap-partiene pienamente al nostro attuale Parlamento.

Cercheremo di evitare anche, da parte nostra, di indulgere al gusto dei giuristi per la precisione formale dei concetti: le parole della Costituzione devono essere intese da tutti; evocano le concezioni e i sentimenti di un’e-poca e non sempre obbediscono ad una logica formale. Basta pensare all’ar-ticolo forse a noi più caro fra i primi articoli della Costituzione: l’art. 3, sul-l’uguaglianza. «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali da-vanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»: un singolare elenco di concetti, che mette sullo stesso piano differenze originarie, come quella di sesso, e diversità contingenti, come quella di opinioni politiche, o addirittura indefinibili, come quella di “razza”; che mescola differenze da tutelare, co-me quelle di lingua e di religione, a diversità da superare - e ve ne è l’impegno nel capoverso dello stesso art. 3 - come quella delle condizioni sociali. Ma le ragioni storiche che hanno motivato quella norma permango-no tutte: persipermango-no quelle evocate dall’orribile termine “razza”, in questa permango- no-stra epoca di risorgenti razzismi. Non faremo dunque questioni di formule verbali, se non là dove sono in gioco valori di fondo.

Pochi mesi fa un autorevole parlamentare della maggioranza, alle nostre richieste di spiegarci quali fossero le ragioni che motivavano talune proposte di riforma in tema di giustizia, che non riusciamo a condividere, rispose, da-vanti a una platea piuttosto sconcertata di giovani magistrati, che il tema del-la giustizia era stato inserito fra quelli oggetto di riforma costituzionale

per-ché altrimenti le altre necessarie riforme non si sarebbero potute avviare, e che le proposte finali costituivano un accettabile compromesso o un male minore rispetto alle ben più preoccupanti proposte che erano state prospet-tate all’inizio della discussione. Non ho ragione di dubitare di quelle parole.

Ma so che debbo ignorarle: quali che siano le motivazioni occasionali che hanno avviato un percorso istituzionale ormai formalizzato in sede parla-mentare, l’unica via che noi possiamo ragionevolmente percorrere, nel ri-spetto della sovranità popolare, è quella di argomentare nel merito delle proposte. Senza dietrologie, senza giuridicismi, senza polemiche.

Anche se mi permetto qui di citare, condividendola, la recente osserva-zione di un autorevole ex Ministro della Giustizia, l’on. Martinazzoli, che ha dichiarato di vedere «un capitolo sulla giustizia il cui presupposto è la crona-ca giudiziaria». Non credo che questa sia dietrologia: è una constatazione che viene dalla lettura delle norme e dalle argomentazioni degli stessi pro-ponenti.

Consentitemi un’ultima espressione di gratitudine. Nei confronti dell’al-lora giovane deputato dell’Assemblea costituente, l’on. Scalfaro, al quale si deve (non tutti lo ricordano) la proposta, accolta dall’Assemblea, di com-porre il Consiglio superiore della magistratura per 2/3 di magistrati eletti dai magistrati e per 1/3 di avvocati e professori di diritto di nomina parlamenta-re. Fu una felice intuizione, che combinava l’esigenza di sottrarre alla dipen-denza dall’esecutivo il governo del personale della magistratura (assicuran-done così l’autonomia proclamata dal vigente art. 104) con l’esigenza di cre-are un raccordo con la sede della sovranità popolcre-are attraverso la mediazio-ne della cultura giuridica, per evitare rischi di eccessiva separaziomediazio-ne.

Ebbene: quale ragione di ordine costituzionale giustifica oggi l’alte-razione di quel rapporto con la correzione delle proporzioni, rispettivamen-te, a 3/5 e 2/5? Quali dati, fatti, esperienze, valori, suggeriscono di introdur-re “un po’ più” di componenti di nomina parlamentaintrodur-re? Al di là dell’inequi-voco messaggio in direzione di una riduzione dell’autonomia della magistra-tura (che è strumento per l’indipendenza dei magistrati), questa apparente-mente modesta alterazione dei rapporti fra “togati” e “laici” nel Consiglio superiore rischia di avere effetti assai più rilevanti di quel che può sembrare a prima vista, collocata nel contesto delle riforme costituzionali proposte.

Infatti per la nomina dei componenti “laici” del Csm, a differenza di quanto avviene per la nomina degli altri organi di garanzia, non è prevista alcuna maggioranza qualificata: sicché è possibile che, in un sistema maggioritario, sia la maggioranza parlamentare e di governo a determinare quelle nomine.

Se poi si considera che anche il Presidente della Repubblica, che presiederà il Csm, in quanto eletto direttamente dai cittadini, sarà espressione della maggioranza, mentre i componenti eletti dai magistrati, per loro natura, non

rappresentano indirizzi uniformi, è evidente il rischio che (come accade per i gruppi di controllo nelle società per azioni!) siano quei 2/5 espressione degli indirizzi politici di maggioranza a determinare le scelte dell’organo di gover-no del personale della magistratura. È opportugover-no, è conveniente, anche in prospettiva, contraddire in modo così rilevante la pur proclamata autonomia dell’ordine giudiziario?

Complessivamente, le proposte di riforma costituzionale incidono nega-tivamente su quella felice innovazione introdotta dalla Costituzione del 1948 - e poi variamente imitata da altre, più recenti, democrazie - che va sotto il nome di “autogoverno” della magistratura, secondo un’espressione usata dal Mortara nel 1885 e ripresa da Calamandrei nel 1921. Questa innovazione, che si è tradotta nell’istituzione del Consiglio superiore della magistratura, avrebbe richiesto - come gli stessi Costituenti previdero con la VII disposi-zione transitoria - la ricostrudisposi-zione in positivo di un ordinamento giudiziario che attuasse il nuovo modello. Ma, come è noto, questo necessario interven-to è mancainterven-to e si sono introdotti solo alcuni parziali correttivi: a ciò si de-vono le insufficienze attuali, non a quel Consiglio superiore, che non sem-bra affatto utile ridimensionare, così come oggi si propone.

Si propone infatti di smembrare il Csm in due sezioni, una per i giudici e una per i magistrati del pubblico ministero, con il rischio di differenziare gli indirizzi e i criteri di valutazione. Proprio mentre si affermano le esigenze di una formazione comune fra tutti gli operatori del diritto, si esclude ogni prospettiva di una comune formazione permanente dei magistrati. Questa avrebbe richiesto la previsione di una scuola della magistratura, che solo l’I-talia non possiede, fra i Paesi di democrazia avanzata: al contrario, si preve-de un “aggiornamento professionale” separatamente gestito dalle due diver-se diver-sezioni del Consiglio, vanificando fra l’altro le meritorie iniziative sin qui faticosamente adottate dall’attuale Csm per supplire, in mancanza di una scuola, alle esigenze di formazione dei magistrati. La riduzione delle compe-tenze delle sezioni riunite del Consiglio, al quale viene sottratta fra l’altro la funzione disciplinare e per il quale non viene prevista alcuna funzione ispet-tiva, che sarebbe sommamente utile per assicurare una più incisiva valuta-zione della professionalità e della condotta dei magistrati, indebolisce il rilie-vo dell’organo di governo autonomo nel sistema istituzionale e riduce l’effi-cacia delle sue funzioni di controllo e di garanzia. Non sembra, questo, un risultato auspicabile.

Com’è ormai noto, al centro delle nostre considerazioni critiche sono gli effetti della divisione del Consiglio sull’assetto del pubblico ministero e le ulteriori norme di dettaglio che ne modificano lo status: ve ne è stata eco an-che nelle parole dei Procuratori generali alle inaugurazioni dell’anno

giudi-ziario, a dimostrazione di una preoccupazione davvero diffusa in tutta la magistratura.

A differenza che negli altri Paesi, presso di noi l’esercizio dell’azione pe-nale non obbedisce a criteri di opportunità, non costituisce uno dei molte-plici strumenti della politica criminale. Se così fosse, è evidente che il pub-blico ministero dovrebbe avere uno statuto diverso da quello del giudice in-dipendente, e si dovrebbero immaginare per lui forme di responsabilità poli-tica. Vi è chi parla addirittura, a questo proposito, di elettività del pubblico ministero ovvero di organizzazione gerarchica con sottoposizione dei vertici al controllo parlamentare. È una strada radicalmente alternativa alla nostra tradizione costituzionale repubblicana, che probabilmente creerebbe pro-blemi di compatibilità con i principi affermati nella stessa prima parte della Costituzione. Difficilmente, come insegna la nostra storia, un assetto del genere consentirebbe nel nostro Paese di accertare reati commessi da per-sone che si ritengono immuni grazie al potere politico od economico di cui dispongono o dal quale riescono a pretendere protezione. Difficilmente un simile assetto sarebbe accettato dal Paese.

Ma una volta che anche nelle attuali proposte di riforma costituzionale si ribadisce l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero, la quale viene riconosciuta per le medesime ragioni, di garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, che giustificano l’indipen-denza dei giudici, la creazione di corpi separati di magistrati, a seconda che svolgano la funzione di pubblico ministero o altra delle molteplici funzioni svolte dai magistrati di carriera, presenta gravi controindicazioni. Che le at-tuali proposte di riforma costituzionale comportino di fatto la costituzione di un corpo separato di magistrati del pm è facilmente ricavabile dai drastici steccati che vengono introdotti nel passaggio dall’una all’altra funzione con norme singolarmente dettagliate. Basti pensare che è previsto un apposito concorso per il passaggio di funzioni, mentre non è prevista un’analoga forma di selezione per la nomina di avvocati alle medesime funzioni; ovvero che è previsto un divieto di passaggio di funzioni nell’ambito dello stesso di-stretto assoluto ed eterno, mentre, per esempio, il divieto di assunzione di funzioni giudiziarie nella regione in cui il magistrato ha partecipato ad una competizione elettorale ha la ragionevole durata di cinque anni. Insomma, nulla pare più sospetto agli occhi della Commissione bicamerale che l’aver svolto funzioni di pubblico ministero per chi voglia fare il giudice penale, ovvero l’aver svolto funzioni di giudice per chi voglia fare il pubblico mini-stero; e pensare che il Presidente degli Stati Uniti, per dimostrare la sua im-parzialità nella scelta dei giudici federali, citava a suo merito il fatto che il 40 per cento dei nominati aveva svolto funzioni d’accusa (presso di noi una percentuale assai inferiore dei giudicanti ha avuto un’esperienza di pubblico