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L'AMBITO PIÙ CONSERVATIVO?

1.1. UN RAPPORTO COMPLICATO

1.1.1. Emozioni e sentimenti

Il rapporto dell'uomo con la morte non è un tema facile da affrontare e di certo non può trovare una definizione semplice e univoca, tanto nella sua natura quanto nella sua manifestazione. Chiama in causa una molteplicità di motivazioni, di punti di vista e di sfumature che non è agevole cogliere e interpretare soprattutto nelle prime testimonianze del suo svilupparsi nei tempi più antichi. A livello archeologico questo rapporto diventa per gli studiosi evidente a seguito del rinvenimento di sepolture inquadrate cronologicamente nel Paleolitico medio, momento a partire dal quale1 si ritiene che le specie umane abbiano cominciato a sviluppare una ideologia connessa all'evento-morte. Il dibattito viene inquadrato lungo due direttrici principali: l'una tesa a rintracciare l'intenzionalità della deposizione e i criteri per la sua valutazione2; l'altra si ripropone di evidenziare la valenza di gesti e di oggetti associati alle deposizioni.

La discussione ha però un avvio quasi "romantico"3 teso a teorizzare l’elaborazione di una religione primitiva in base alla quale la preoccupazione della deposizione dei morti è da mettere in relazione alla paura del ritorno del fantasma del defunto. Tanto che, in un'epoca tardo-positivista in cui l'antropologia culturale ancora risente della carenze di un apparato di ricerca in via di sviluppo, l'antropologo e storico delle religioni scozzese Sir James G. Frazer afferma che l’uso di impilare pietre sulle tombe è volto a fermare il defunto stesso4, mentre altri interpretano la posizione flessa delle gambe come un modo per impedire al defunto di camminare e quindi ritornare nel mondo dei vivi. Ancora nel 1995 l'archeologo Emmanuel Anati, in relazione alle offerte talvolta associate a

1 Allo stesso tempo non viene esclusa la possibilità che la mancanza di testimonianze per

i periodi precedenti possa anche essere da imputare a fattori naturali legati alla diagenesi che non permettono la conservazione dei reperti più che essere prova certa della trascuratezza di tali individui nei confronti dei propri morti.

2 Un primo criterio riguarda l'osservazione della connessione anatomica tra le ossa (con le

dovute cautele legate alla scoperta di inumazioni sul piano di calpestio che però presentano evidenze di una cura nei confronti del defunto - Vandermeersch, 1982 -). Un secondo criterio si basa sull’osservazione di elementi di varia natura associati ai resti scheletrici interpretati come corredo o come “offerte”.

3 Tema tipico della corrente ottocentesca del Romanticismo è proprio l'esplorazione

dell'irrazionale.

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sepolture neanderthaliane, parla di una credenza di questa specie in un mondo soprannaturale e della volontà di fornire al defunto ciò che è ritenuto necessario per un viaggio ultraterreno e, quindi, alla sopravvivenza dell’anima al corpo. In linea generale sono piuttosto scettica rispetto a posizioni simili perché ritengo eccessivo il voler attribuire ai neanderthaliani, e così ai primi uomini anatomicamente moderni, concetti, come quello di anima, legati a precise esperienze religiose e credenze. È infatti difficile pensare che questi individui abbiano allo stesso tempo sviluppato la coscienza della morte e tutta una serie di credenze da associarvi. Sebbene, infatti, non si possa negare che in un certo numero di casi i resti neanderthaliani siano interrati in fosse, come l'archeologo inglese Paul B. Pettitt puntualizza, non dobbiamo arrivare alla diretta conclusione che questi individui seppellissero i propri morti5, ammettendo allo stesso tempo la possibilità che la sepoltura umana prenda avvio dalla modificazione di una fossa naturale per adattarla a scopi funerari6. Il problema viene meglio precisato dalle parole dell'antropologo statunitense Harold L. Dibble secondo il quale «(...) the key question is not whether a burial was deliberate, but whether archaeologists confront “a burial or a funeral.” A burial, (...), is simply a “disposal” of a body, while a funeral, complete with ritual activity, is a real “symbolic” act»7. Che la deposizione di un cadavere e l'intenzionalità del gesto non possano essere di per sé indicativi di un comportamento rituale dettato da credenze in una vita ultraterrena viene del resto già evidenziato dallo psicofarmacologo statunitense Ronald K. Siege il quale, in un articolo intitolato The Psychology of Life After Death, ricorda come da osservazione etologiche emerge che diverse specie animali mettono in atto complessi comportamenti di seppellimento dei con specifici. Lo studioso arriva alla conclusione che la sepoltura, come il comportamento religioso, sono l'esito di un processo graduale di configurazione dei comportamenti istintivi8. La capacità umana di riconoscere che la morte è un evento cui tutti sono destinati, accompagnata all'osservazione della ripetitività dei cicli biologici o dei cicli naturali, potrebbe essere considerata la base dello sviluppo delle credenze ultraterrene.

Un nodo fondamentale da sciogliere è dunque: quando l'uso di seppellire i morti, che di per sé non può essere considerato un rito funerario9 e la cui intenzionalità non è un criterio di valutazione da solo sufficiente, si può considerare un atto volontariamente connotato da una ideologia o credenza?

Secondo l'antropologo ed etnostorico statunitense Roderick Sprague10 la deposizione di un cadavere, qualunque forma essa assuma, deve corrispondere a

5 Pettitt, 2001: 18 6 Pettitt in Than, 2013

7 Bibble in Balter, 2012: 1444 8 Siegel, 1980: 918

9 Per quanto, nel suo essere un gesto ripetuto, può comunque essere considerato un

rituale.

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un "abbandono psicologico" del corpo del defunto da parte dei vivi. Lo studioso opera anche una distinzione tra deposizioni semplici (inumazione, deposizione in acqua e deposizione sulla superficie), e deposizioni composte (vale a dire in più tempi, come a esempio la cremazione).Eppure è anche possibile pensare che l'uso di trattare il corpo e di deporlo in strutture definite che lo preservassero dal contatto con la terra, in effetti corrisponda al passaggio psicologico dall'abbandono del defunto alla sua cura. Si potrebbe pensare che quella che Sprague definisce una deposizione semplice rappresenti un gesto istintivo, ma non è escluso che fosse dettato da necessità pratiche, a esempio di tipo igienico, cui segue una evoluzione del pensiero della morte che porta alla definizione di comportamenti sepolcrali complessi. Nel mezzo si può porre tutta una fase di sviluppo segnata dalla comparsa di oggetti di corredo, accessori o offerte e di strutture poste a protezione del corpo inumato. Non bisogna sottovalutare anche il fatto che, soprattutto nel corso del Paleolitico superiore, la tendenza è quella di seppellire i morti all'interno o nei pressi delle grotte occupate dagli stessi gruppi umani, una contiguità spaziale che può aver contribuito a creare una continuità affettiva tra vivi e morti. Nelle fasi iniziali di questo processo di formazione di una ideologia della morte piuttosto che parlare di credenze, allora, parrebbe più corretto fare riferimento a emozioni o sentimenti.

Gli antropologi culturali statunitensi Richard Huntington e Peter Metcalf, nel loro lavoro intitolato Celebrations of Death11, già ricordano che la morte può richiamare una serie di sentimenti di differente natura, dal dolore puro per la scomparsa del congiunto, al trauma per l'avvenimento soprattutto se improvviso, alla paura per se stessi di fronte alla nuova esposizione alla caducità della vita e, di conseguenza, all'universalità della morte, al rancore nei confronti dei responsabili, siano essi altri individui o personalità divine, considerati causa dell'evento luttuoso. Non ultimo, e non deve essere dimenticato, è un sentimento di privazione a fronte di una continuità di affetti che il 'sepolcro' può contribuire a perpetuare («Celeste è questa corrispondenza di amorosi sensi, celeste dote è negli umani: e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi», Foscolo U., 1806, Dei sepolcri: 29-3312).

È bene dare fin da subito definizioni chiare, per cui per emozione si intende un "processo interiore" che «(...) può essere descritto come l'impatto di un evento-stimolo, impatto consistente nella valutazione di quell'evento, la quale implica un effetto sulla preparazione all'azione». Il sentimento, invece, «(...) è principalmente la rappresentazione cosciente di tale valutazione» e si riferisce «(...) all'esperienza soggettiva dell'emozione in generale. (...) Gli eventi emotivi, negli uomini e negli animali, attivano sistemi di comportamento che comprendono le configurazioni comportamentali 'espressive' innate e spontanee (...) e i comportamenti acquisiti e intenzionali. In quanto

11 Huntington, Metcalf, 1979: 23

12 In Pazzaglia M. (a cura di), 1979, Letteratura Italiana: testi e critica con lineamenti di storia letteraria, Zanichelli, Vo. II.

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capaci di attivare tali configurazioni comportamentali, le emozioni sono stati motivazionali, oltre a essere stati d'animo»13.

Anche l'archeologa britannica Sarah Tarlow richiama l'attenzione dei colleghi sull'importanza delle emozioni nella lettura di molti aspetti della socialità delle comunità antiche, occupandosi in primo luogo proprio dei contesti funerari in cui il momento dell'elaborazione del lutto ha di certo una parte importante che non deve essere oscurata riconducendo per intero una espressione funeraria alla sfera della ritualità. Il limite del lavoro della studiosa sarebbe, secondo alcuni, il suo aver proiettato sulle comunità neolitiche britanniche il proprio personale modo di sentire ed essere affetta dal contatto con i monumenti tombali, "accusa" respinta e rivolta negli stessi termini ai mittenti.

Il problema è che la stessa definizione di "emozione" resta, nella discussione archeologica, controversa e si concentra in particolar modo, da un lato, sulla tendenza a presupporre una visione dicotomica che separa mente (esperienza dell'emozione) e corpo (azione fisica)14, dall'altro, nella tensione opposta a riunirli in un continuum15. Tarlow, a esempio, ricorda che «The ethnographic and anthropological study of emotion has demonstrated that emotions themselves are differently experienced and are variable cross-culturally, not just in terms of the cues which provoke particular responses, but in the nature of the emotional response itself. The lexicography of emotion tells us that emotion-words are not directly translatable, and that most languages have words for emotional states that are not recognized in other languages». E, non meno importante, che «(...) the potential ‘otherness’ of the past, in cultural terms, arises from beliefs, understandings, meanings»16. Non bisogna, del resto, dimenticare che individui diversi possono mostrare reazioni emotive differenti non riconducibili a interessi di altra natura ma condizionate da predisposizioni, motivazioni biografiche, meccanismi biologici e infine fattori sociali17. Il rifiuto della studiosa della impossibilità di scindere l'esperienza dell'emozione da una conseguente azione è sensata e non soltanto per il fatto che, come la stessa Tarlow afferma, non a tutte le emozioni seguono delle manifestazioni fisiche, ma perché presupporre il contrario implicherebbe che a ogni singola emozione venga data una forma concreta e che questa, in potenza, lasci una traccia leggibile anche a livello archeologico.

Alle emozioni, comunque, è indubbio che a un certo punto si affiancano ideologie e credenze che è possibile riscontare nella loro materializzazione. Vale la pena,

13 Frjida, 1993

14 Tarlow in Harris et alii, 2010: 184-185

15 «(...) the traditional separation of mentalmovement and body movement needs to be

collapsed into one event or experience (...). As a consequence we use the term ‘emotion’ to cover the entire range of movements from the mental occurrence to thenbodily expressive as we see them in a continuous, recursive and co-constitutive relationship» (Harris, Sørensen in Harris et alii, 2010: 150).

16 Tarlow in Harris et alii, 2010: 184-185

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quindi, richiamare quanto affermato dall'antropologo inglese Alfred R. Radcliffe- Brown in merito ai sentimenti: «The beliefs by which the rites themselves are justified and given some sort of consistency are the rationalizations of symbolic actions and of the sentiments associated with them»18. È proprio il momento della razionalizzazione a segnare forse il passaggio verso la composizione del rito funerario che, come lo stesso studioso ricorda in un discorso incentrato però in generale sul "rito", non può essere ricondotto a una funzione, quasi fosse una "attività tecnica"19, ma è manifestazione di una volontà espressiva, in alcuni suoi elementi anche simbolica. Pare legittimo supporre che questo processo si svolga in parallelo all'acquisizione della strutturazione sociale. Così, l'antropologa statunitense Susan M. Kus ricorda che le emozioni sono spesso veicolate dal linguaggio e questo le rende tanto sociali quanto culturali20. Sulla stessa linea di pensiero, gli archeologi Oliver J.T. Harris e Tim F. Sørensen aggiungono che l'emozione può essere sperimentata non solo a un livello individuale ma anche di gruppo sociale21. L'antropologo statunitense Adam T. Smith22, invece, appare convinto che le restrizioni imposte dalle istituzioni e dalle consuetudini sociali giocano un ruolo fondamentale nel mediare le emozioni. Nonostante l'affermazione di quest'ultimo studioso non venga ritenuta convincente23, non bisogna dimenticare che anche di fronte a forti esperienze emozionali, come a esempio quella del lutto, il comportamento degli individui può essere formalizzato e incanalato culturalmente per risultare accettabile a livello sociale. Le emozioni, in altre parole, non emergono dall'ambientazione sociale ma da questa possono essere costrette entro schemi predeterminati24, sempreché questo sia richiesto. In effetti, nonostante Radcliffe-

18Radcliffe-Brown 1952:152

19 «The very common tendency to look for the explanation of ritual actions in their

purpose is the result of a false assimilation of them to what may be called technical acts. In any technical activity an adequate statement of the purpose of any particular act or series of acts constitutes by itself a sufficient explanation. But ritual acts differ from technical acts in having in all instances some expressive or symbolic element in them» (Radcliffe-Brown 1952: 143).

20 Kus in Harris et alii, 2010: 170

21 Harris, Sørensen in Harris et alii, 2010: 150. Allo stesso modo, l'archeologa britannica

Sarah Tarlow puntualizza come "beliefs, understandings, meanings" possono essere condivisi e quindi manifestarsi a livello sociale, ma anche soltanto personale.

22 Smith in Harris et alii, 2010: 174

23 Harris, Sørensen in Harris et alii, 2010: 190

24 Nell'antichità, ma anche in alcune culture attuali, a esempio, una parte del rituale

funerario prevedeva e prevede le "lamentazioni" con pianti, gemiti ed espressioni enfatizzate di dolore, che da individui estranei all'uso potrebbero essere, invece, vissute come eccessive e fastidiose; in altre era, ed è, prevista l'organizzazione di "banchetti funebri" che, ancora una volta, ad alcuni potrebbero risultare incomprensibili. L'antropologo inglese Alfred R. Radcliffe-Brown (in Huntington, Metcalf, 1979: 24-28), nello specifico, analizza l'uso del pianto presso alcune comunità delle isole Andamane (India) arrivando alla conclusione, poi però generalizzata, che questa che viene considerata come una espressione spontanea è in realtà, in un contesto di celebrazione funeraria, sottoposta al controllo di una sorta di protocollo che "impone" la partecipazione

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Brown25 abbia ragione a proporre una separazione tra i sentimenti e la loro espressione, perché con questo mette in evidenza l'effettiva possibilità di una tale evenienza, non bisogna dimenticare che la tendenza a far rientrare ogni manifestazione analoga nello stesso schema disgiuntivo può essere fuorviante, e non solo a livello cross-culturale ma anche inter-culturale.

Il problema resta, per altro, capire quale nome dare alle emozioni anche qualora si riuscisse a identificarle nel record archeologico. L'archeologo americano Edward Swenson26, innanzitutto, aggiunge alla discussione un tassello metodologico importante nel momento in cui afferma e ribadisce più volte che si può dedurre una espressione emozionale solo dopo l'accurata ricostruzione dei contesti significanti, siano essi sociali, storici e spaziali. Ma la realtà è che probabilmente, anche in considerazione di quanto dice Tarlow a proposito della variabilità della risposta allo stesso moto emozionale, tentare di entrare nello specifico rischia di esporre lo studioso che si cimentasse nell'impresa all'accusa di proiezione del proprio sentire su individui forse completamente diversi da lui/lei. Huntington e Metcalf27, infatti, concludono che «Far from providing some kind of universal explanatory framework for analysis of death-related behavior, the emotional aspect demands from the researcher the most subtle awareness of cultural variations», richiesta che, purtroppo, in ambito archeologico, rischia di rimanere non soddisfatta.

Non è escluso, e tutto sommato non deve preoccupare, la possibilità che non si riesca mai a entrare in comunione con la sfera interiore di individui vissuti in epoche tanto lontane, così come è possibile che non si riesca ad arrivare a cogliere le reali intenzioni dietro a un gesto materializzato nel record. Ma dal momento che lo scopo di una indagine archeologica è quella di fornire una ricostruzione verosimile di un passato per il quale in alcuni casi non disponiamo di fonti dirette che possano aiutare in questo percorso di scoperta, l'essere arrivati al punto di riconoscere una gesto dettato da una emozione o da un intento comunicativo, ideologico o di altra natura, è già un traguardo rilevante. La questione è, dunque, complessa, ma tentativi di lettura sono lo stesso possibili. Così, un passaggio importante in cui l'interazione tra emozione e sociale sembra contribuire alla definizione di un rito funerario, forse non ancora equipaggiato appieno del bagaglio religioso, viene presentato dall'antropologo britannico Meyer Fortes. Lo studioso, nel corso di alcune riflessioni sul culto degli antenati all'interno del sistema religioso delle comunità africane, conclude che le cerimonie funerarie non

a un comportamento prescritto il quale ha lo scopo di riaffermare un legame a livello sociale. Diversamente da quanto ritenuto dallo studioso, però, questo legame non implica una condivisione del sentimento di "tristezza", ma lo sviluppo di un sentimento di unione che non è solidarietà sociale (Huntington, Metcalf, 1979: 31).

25 In Huntington, Metcalf, 1979: 26 26 Swenson in Harris et alii, 2010: 180 27 Huntngton, Metcalf, 1979: 43

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sono tanto indirizzate a direzionare il defunto verso la vita in un luogo soprannaturale, quanto quello di "scorporarlo" dalla struttura sociale28.

Il cosiddetto "culto degli antenati", in effetti, offre lo spunto per mettere in evidenza questa possibile doppia lettura di un complesso funerario che se, in generale, viene considerato come rappresentativo di una sola delle due chiavi interpretative, è in realtà più spesso la manifestazione di una compenetrazione di entrambe. La teoria in oggetto viene sviluppata dagli studiosi che si occupano dei grandi cambiamenti che la diffusione delle culture neolitiche porta con sé anche in ambito sepolcrale. Durante il Neolitico, infatti, la nostra comprensione dei contesti funerari è complicata dalla comparsa di nuove espressioni e soprattutto dell'uso di deporre i morti in vaste necropoli29. Ormai classicamente, viene osservato come la creazione di questo tipo di impianto, ma soprattutto l'uso di deposizioni collettive in cui a nessuno degli individui sembra sia riservato uno spazio personale, sia da riconnettere a una nuova visione dei defunti e a una nuova ideologia, quella appunto del culto degli antenati, con una funzione di regolazione sociale30 coordinata da gruppi corporati il cui interesse è quello di mantenere il diritto allo sfruttamento e controllo di risorse limitate31.

Da un lato, dunque, alcuni studiosi diffondono una visione quanto meno utilitaristica della venerazione del defunto che, avendo ricoperto in vita un ruolo di preminenza all'interno del gruppo sociale, assicurerebbe alla sua discendenza il mantenimento di diritti acquisiti e la possibilità per questa di reclamarli. L'archeologa americana Lynne Goldstein32, a esempio, suggerisce che proprio la ritualizzazione delle pratiche sepolcrali e la elaborazione di credenze religiose attorno alla figura di alcuni defunti sia concepita fin dall'inizio come espediente per riaffermare i diritti della discendenza diretta del gruppo corporato escludendo, quindi, completamente la proposta propiziatoria e di gratitudine. Questa,dall'altro lato, è l'origine cui altri ricollegano tale culto per cui, attraverso il compimento di

28 Fortes in Morris, 1991: 150

29 In Sicilia, in realtà, nel corso del Neolitico troviamo poche tombe a fossa, in rari casi a

cista e con corredo in associazione, che lasciano pensare alla possibilità che l'accesso a una sepoltura regolare fosse limitata solo ad alcuni soggetti, rappresentative più di un rito funerario che l'espressione di un culto dell'individuo. Ritroviamo vere e proprie necropoli solo a partire dall'Eneolitico, con la diffusione delle tombe a pozzetto e a camera scavate, in cui però non è possibile isolare con chiarezza segni di uno sviluppo della società in senso gerarchico quanto piuttosto una possibile differenziazione per generi e ruoli sociali (Leighton, 2009:78-80, 93-99). Viene comunque proposta una lettura evolutiva per stadi delle architetture e dei riti funerari siciliani che culmina negli impianti dell'età di Castelluccio. Proprio per le tombe a grotta artificiale di tipo castellucciano, che si discostano dalle precedenti tradizioni per il carattere di monumentalità, viene avanzata una interpretazione che lega queste strutture all'affermazioni di gerarchie e supremazie

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