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III. Capitolo terzo:

3.1 Un silenzio lungo dieci anni

Terminando il primo “libro di Malo”, Libera nos a Malo, mi ricordo che avevo la netta sensazione di aver chiuso con quella materia, di essermi liberato interamente da tutto il blocco della materia paesana. E invece ho realizzato che così non era. Del resto ho registrato la mia sorpresa nel secondo dei libri su Malo, Pomo

pero […]. E di nuovo credevo di poter farla finita una volta per

tutte istituendo una specie di passerella finale per le mie “fantasime in capsula”.215

Il secondo testo su Malo a cui fa riferimento Meneghello nel brano sopra riportato è Pomo

pero; venne pubblicato nel 1974, dopo una pausa di dieci anni da I piccoli maestri e di undici da Libera nos a Malo. Vari sono gli elementi che presentano Pomo pero come una continuazione di Libera nos a Malo, il primo vero scavo dell’autore nel suo passato e nelle tradizioni del suo paese natale. Come scrive Ernestina Pellegrini, Libera nos a Malo si può considerare come «la fonte primitiva, il terreno fertile, che genera e contiene il germe, i “modelli” letterari che saranno poi sviluppati nelle altre due opere dello scrittore».216 Se, da una parte, I piccoli maestri si avvicina di più alla ricerca di realismo e alla vena documentaria dell’autore, dal momento che propone una «ricostruzione gioiosa e vitale delle proprie esperienze resistenziali»,217 dall’altra Pomo pero ripercorre invece alcuni temi di Libera nos a Malo in modo più cupo e pessimista; è «il libro della morte, della tragedia»218 e si discosta molto dalla realtà fattuale, in quanto fantastica su di un mondo scomparso. Pomo pero rappresenta un ulteriore ritorno ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza dell’autore, ma non ha più i toni spensierati che caratterizzavano l’opera prima.

Meneghello, con questo testo, si inserisce perfettamente nel clima di cambiamento in campo letterario che si viveva a cavallo degli anni Sessanta e Settanta in Italia; la figura dell’intellettuale, così come la definizione del genere romanzo, in quel periodo muta e porta con sé, di conseguenza, anche il mutamento dei contenuti e della visione della realtà.

Pomo pero è il risultato del disincanto, della triste presa di coscienza della fine di un

mondo e dell’impossibilità, ora non più solo intravista, ma ben presente, di «una larga

215 Meneghello 2003, p. 172. 216 Pellegrini 1992, p. 109. 217 Ivi, p. 110.

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recezione sociale dell’opera d’arte».219 La terza opera di Meneghello si impone come luttuosa manifestazione di un rapporto deludente con il sociale, «rigettata in un mondo di figure distorte e di fantasmi ossessivi»,220 una sorta di incubo creatosi dalla moltitudine di immagini proiettate da Libera nos a Malo circa dieci anni prima.

Il canto di un universo amato e perduto, questa può essere la definizione di Pomo pero. Per realizzarlo, l’autore dice chiaramente che ha

[…] dovuto adoperare i modi bruschi, e qua e là il coltello; con quel misto di eccitazione e di pentimento con cui s’interviene di forza negli affari di un amico forse sconsigliato ma stretto. Peggio: come ci si induce per il suo bene a fare male a un famigliare.221

Come appare da questa breve confessione contenuta proprio alla fine del testo stesso, il lavoro a cui Meneghello si è accinto è stato doloroso e faticoso, un riavvicinamento a Malo che non è più soltanto ricerca di un’identità personale, ma quasi documento storico che testimoni la passata esistenza dei luoghi in cui viveva. L’autore rinuncia «alla dimensione romanzesca come strumento di rappresentazione e comunicazione del reale, per scegliere la strada della scrittura come rifugio ed alternativa»,222 riuscendo in questo modo ad elaborare il senso di perdita scaturito dallo scontro tra «lo sviluppo violento della società tecnologica e [...] il mondo arcaico dei paesi».223 L’amara constatazione della vittoria della civiltà moderna sulle culture locali si esplica nel congedo posto alla fine di Pomo pero, dove alle immagini di abbandono e tristezza relative alla sfera della vita contadina ormai superata, si contrappone il «mondo di cose nuove», trionfante e rigoglioso:

Smurata è la mura dell’orto, dilaniato il core,

mucchi di strame ingombrano la corte, coppi caduti,

rotti rametti, pali fradici. Intorno si vede sorgere un mondo di cose nuove, 219 Pellegrini 1992, p. 110. 220 Ivi, p. 110. 221 Meneghello, 2006c, p. 153. 222 Pellegrini 1992, p. 111. 223 Ibid.

99 questa roba si spazza via,

trionfa un rigoglio banale e potente.224

L’unico modo che resta all’autore per finire di smaltire la materia maladense è quindi la stesura di un nuovo racconto, di un altro ritorno nella terra d’origine. Il punto di vista ora è quello «di colui che assiste alla decomposizione di un proprio mondo interno, del proprio “giardino infantile” sotto i colpi delle violenze di un universo “straniero” […] producendo un fenomeno di disgregazione esistenziale e sociale».225 Quello che è rimasto da trattare su Malo viene scandagliato e criticato, messo in relazione con la società industrializzata che viene attaccata e quasi demonizzata. La scelta che compie Meneghello è quella di scandagliare l’esperienza personale per fare un resoconto dell’epoca in cui stava vivendo. Si possono individuare all’interno del testo tre livelli di analisi, come teorizza Pellegrini:226

simbolico, reale, immaginario. Il linguaggio è la massima rappresentazione della polemica di Meneghello nei confronti del mondo esterno: imprevedibile, «folle»,227ambiguo e alle volte oscuro.

Si può notare che, a differenza di Libera nos a Malo, Pomo pero è un’opera di più difficile lettura e interpretazione, o meglio, «si presta ad una pluralità di interpretazioni e di conclusioni […]. La lettura del testo viene quindi costantemente disorientata, proiettata su diversi piani interpretativi».228 Un elemento resta fisso e si ripresenta in varie forme all’interno del testo: la caducità delle cose terrene e l’incapacità dell’uomo di poter fermare il tempo in cui farle rivivere. L’intera opera appare come una «corsa verso la morte, talvolta un aspettarla»,229 fin dall’infanzia tutto è destinato a deperire, e si riduce a un’unica constatazione:

facciamo tutto come se fosse per sempre, ma niente di ciò che facciamo è per sempre ̶ fare la parte che ci tocca alla fine resta l’unico senso, ma al principio non è così, altrimenti non si farebbe niente.230 224 Meneghello 2006c, p. 149. 225 Pellegrini 1992, cit. p. 112. 226 Ivi, p. 113 227 Ivi, cit. p. 112. 228 Ivi, cit. p. 113. 229 Ivi, cit. p. 114. 230 Meneghello 2006c, cit. p. 70.

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