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3. Analisi dei testi sulla base delle dicotomie

3.3 Vita e morte

Una delle tematiche più centrali di tutta l'opera di Saba è la riflessione sulla vita e sulla morte, strettamente legata alla concezione della temporalità, per cui, come abbiamo visto, il principio e la fine, la nascita e la morte si «danno la mano» per ripiegarsi l'uno sull'altro in un tempo che scorre circolarmente. La vita dell'uomo, nella poesia Il torrente in Trieste e una donna, è paragonata dal poeta allo scorrere di un torrente, che rappresenta la sua fuggevolezza:

44 Si tratta della “marea” della dittatura fascista, che porta il poeta alla decisione di non pubblicare questo Congedo nella prima edizione del 1928 né nella seconda del 1933.

sempre ad un bimbo la sua madre austera rammenta che quest'acqua è fuggitiva, che non ritrova più la sua sorgente, né la sua riva; sempre l'ancor bella donna si attrista, e cerca la sua mano il fanciulletto, che ascoltò uno strano confronto tra la vita nostra e quella della corrente.

(Il torrente, in Trieste e una donna, vv. 20-27)

In questi versi, all'avverbio «sempre» (ripetuto una volta all'inizio di verso e la seconda volta in posizione centrale), che rimanda all'idea di eternità, si contrappone il senso dell'impossibilità del ritorno, poiché il torrente, come la vita dei singoli individui, si allontana inesorabilmente dalla sorgente e scorre verso il suo annullamento nel mare.

La fragilità della vita è rappresentata poi in più occasioni dall'immagine delle foglie:

Le foglie morte non fanno a me paura, e agli uomini io penso come a foglie.

(Prima fuga, vv. 16-18) nell'uomo caduco come le foglie

(La brama, in Cuor morituro, vv. 68-69) Mi scopre

fragile foglia nella mia spoglia umana.

(Colloquio, in Cuor morituro, vv. 45-48)

Le foglie, che in queste poesie sono l'immagine della fuggevolezza umana, altre volte diventano simbolo di nuova vita, come nell'Ottava fuga:

Sono una fogliolina appena nata, e intenerisco ai giovanetti il cuore.

(Ottava fuga, vv.1-2)

Noi gli effimeri siamo (Nona fuga, v. 17)

Tuttavia, se la vita umana è caduca, quella cosmica si perpetua, secondo una legge «atroce», per cui

S'innova

ogni vita per altre in lei distrutte; di tutte

una non v'è che dica di sì atroce legge il modo d'uscire. E quanto nuoce n'è caro, ed anche noi l'incerta vita amiamo.

(Settima fuga, vv. 78-84)

Ancora nella Settima fuga troviamo esplicitata la legge per cui una vita può nascere solo grazie alla morte di altre:

M'innovo

con onta. In triste vicenda infinita, quante vite per vivere una vita divora!

(Settima fuga, vv. 30-33)

Perciò, il nascere è visto come una colpa, poiché inserendo una nuova vita nel circolo dell'esistenza si perpetua l'atroce legge per cui la distruzione è condizione necessaria per la formazione della vita:

e penso che una colpa è stata il nascere.

Il nascere,

come il vincere, è contro gentilezza. (Settima fuga, vv. 39-42)

Per ogni vita che si distrugge, secondo questa legge che sta al di là della comprensione umana e dalla quale è impossibile fuggire, altre vite nascono. Perciò la vita dell'universo continua il suo fluire perpetuo mentre le singole vite si susseguono nel ciclo di vita e morte. A questo proposito, Polato osserva che

ciò che non dura è il tempo della vita dell'uomo mentre il tempo cosmico, delle stagioni, dei giorni, è uguale, si ripete, è circolare, anche se contiene il mutamento e diventa per questo speculare del ritmo delle passioni (ora in armonia, ora in contrasto).45

La legge cosmica a cui nessuno può sottrarsi, tuttavia, può essere messa in discussione attraverso la poesia, che ha il potere di fermare il tempo in un momento immobile, capace di bloccare, per un attimo, il divenire. A questo proposito, emblematica è la poesia L'ora nostra in Trieste e una donna:

l'ora che la mia vita in piena va come un fiume al suo mare;

e il mio pensiero, il lesto camminare della folla, l'artiere in cima all'alta scala, il fanciullo che correndo salta sul carro fragoroso, tutto appare fermo nell'atto, tutto questo andare ha una parvenza d'immobilità.

(L'ora nostra, in Trieste e una donna, vv. 14-21)

Il poeta può in questo senso fermare il tempo, dare immobilità a ciò che è in movimento, vita a ciò che è morte, gioia a ciò che è dolore e luce a ciò che è ombra. È da questo punto di vista che analizzerò il tema della vita e della morte nelle fughe: da quello cioè del poeta che è artefice della vita e della morte delle voci, che si attuano nella forma e nei contenuti dei suoi versi.

Già nella Prima fuga la dicotomia tra vita e morte è tematizzata in modo esplicito. In questo componimento, infatti, quello che possiamo definire il “Soggetto”, riprendendo la terminologia musicale, è costituito dalla variazione del primo emistichio del primo verso «la vita, la mia vita». Lo ritroviamo infatti ai vv. 23-24 rivolto al “tu” della seconda voce: «la vita, / la tua vita», al v. 44: «la vita viva

eternamente», al v. 51: «la mia vita». A contrastare la ricorrenza della parola «vita»,

frequente è anche quello che possiamo definire un “Controsoggetto”, che invece si

basa sulla morte. Lo troviamo al v. 13: «desiderio di morire», ai vv. 16-17: «Le foglie

/ morte non fanno a me paura», ai vv. 42-43: «i non nati / non sono, i morti non sono». Come è usuale nella struttura formale della Fuga musicale, Soggetto e

Controsoggetto si trovano sia nella prima che nella seconda voce. Significativo è, invece, che, così come in musica il Controsoggetto nasce sulla base del Soggetto, in modo tale da rispettare le regole del contrappunto che ad esso lo legano, anche in questa fuga la seconda voce è nata dalla prima. La voce della tristezza, che paragona la sua vita al «nero magazzino di carbone», è la voce che dà la vita, come si legge al v. 49: «voce che dalla mia sei nata». Le due voci, a loro volta, sono nate nell'interiorità del poeta, il primo ad aver dato il soffio vitale alle voci, che poi ha plasmato dando loro una forma poetica. Il poeta, dunque, è il primo “generatore” di vita, è colui che dona la vita alla poesia attraverso la forma, e la mantiene viva attraverso il contenuto. Come si legge nella Scorciatoia n. 11: «L'ARTE nasce attraverso la forma; vive, e muore, per il contenuto».46 La vita e la morte, nelle fughe

poetiche di Saba, non sono solo da intendere come destino della natura umana, ma anche come fondamento della poesia, che ha una sua propria vita e una sua propria morte che dipendono dal poeta. Una poesia può nascere anche dalla morte, che attraverso la rappresentazione poetica cambia connotazione per diventare generatrice di vita. Leggiamo a questo proposito nella poesia Sera di febbraio in Ultime cose:

Ed è il pensiero della morte che, in fine, aiuta a vivere. (Sera di febbraio, in Ultime cose, vv. 6-7)

Il pensiero della morte aiuta a vivere poiché è diventato un verso poetico, e in questo modo ha generato una vita che non muore, che, per utilizzare una espressione

tratta dalla Prima fuga, è viva «eternamente». La «vita che vive eternamente» è, nel cerchio dell'esistenza, l'unica certezza: infatti, ad ogni morte succede una vita, per cui le singole vite finiscono, ma la vita cosmica continua eternamente il suo corso. E in questa eternità può essere inserita la poesia, che oltrepassa i confini della vita e della morte per entrare in una dimesione che si pone al di sopra del tempo.

Un'altra poesia che tematizza la dicotomia tra vita e morte, anche se in maniera meno esplicita, è la Seconda fuga, in cui il tema della morte si trova nella richiesta di morire dell'anima stanca:

L'ultima goccia di dolcezza esprimi, anima stanca e muori.

(Seconda fuga, vv. 1-2)

All'anima stanca, contrapposta a quella di «fresco nata», viene chiesto di esprimere l'ultima goccia di dolcezza, di dare cioè, prima di morire, tutto ciò che le rimane all'anima giovane. Si entra così di nuovo nel meccanismo cosmico per cui la vita di alcuni individui viene generata dalla morte di altri. Tuttavia, alla fine della poesia, non troviamo l'annullamento della prima voce a favore della seconda, ma una fusione delle due in un nuova entità che ha acquisito i caratteri della prima. L'«anima di fresco nata», infatti, riceve come dono da quella «stanca» la caratteristica della dolcezza e quella dell'amarezza, dando così origine ad una individualità che nasce grazie all'unione di caratteri opposti:

Anima fanciulletta, anima cara, ecco prendi da me quel che tu puoi.

Io prendo tutto: la dolcezza, e poi, che più mi piace, la tua essenza amara.

(Seconda fuga, vv. 14-16)

Il poeta, quindi, trova una unità laddove l'affermarsi della molteplicità tenderebbe alla disgregazione e alla distruzione della morte. In questo senso la poesia

è l'affermazione della vita, molteplice e unitaria nello stesso tempo, e proprio per questo «viva eternamente», attraverso la fusione degli opposti e il superamento dei loro contrasti.

La tematica di vita e morte, poi, come abbiamo visto, si traduce nella Quinta

fuga nella riflessione sul tempo, che circolarmente ritorna su se stesso, unendo «il

principio e la fine».47 Mettendo in discussione la linearità del tempo, il poeta afferma

anche il ripiegamento della morte sulla vita, per cui il «vecchio stanco ed il ragazzo ardito»48 sono la stessa cosa nel momento in cui, da lati diversi, si trovano vicini

all'eternità: il primo, a quella dei «morti», il secondo a quella dei «non nati».

Con la Sesta fuga si introduce nella raccolta di Preludio e fughe il tema del desiderio di morire, che emerge quasi ossessivamente lungo tutto il Canzoniere. In questo componimento la seconda voce rappresenta l'introversione e si contrappone alla prima, quella dell'estroversione, e alla terza, che personifica la vita contemplativa. Nella quarta ripresa del suo tema, la seconda voce tematizza espressamente il suo desiderio di morire:

Io non so più cieco amore 161

dell'amore della vita. Nella mia stanza romita passeggiando solitario;

da un delirio unico e vario 165

tutta notte posseduto,

quante, quante volte ho avuto il pensiero io di lasciarla!

Te felice se puoi darla 169

del tuo amor nei rischi avvolto; più felice ancora, e molto, chi a gettarla si fa un vanto;

chi la getta come un guanto 173

al destino che disprezza. Ah, perché la giovanezza

47 U. Saba, Quinta fuga, v. 40, in Il Canzoniere, cit., p. 359. 48 Ibidem, v. 37.

della morte ha in sé l'amore?

Nel Canzoniere, l'invocazione alla morte è una tematica trasversale, ricorrente in tutte le raccolte, dal momento che la fine della vita è spesso vista dal poeta come unico sollievo dalla disperazione del presente. Nella Canzonetta I della raccolta Preludio e canzonette, ad esempio, troviamo la Morte come elemento salvifico, che la vita desidera identificandola con la speranza in una risoluzione dei propri dolori:

Malinconia, la vita mia

amò lieta una cosa,

sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa, ch'altro non spero.

(Canzonetta I, La malinconia, in Preludio e canzonette, vv. 21-25)

Nella poesia La vetrina, in Cuor morituro, il poeta dichiara che il nascere è una sventura, e perciò invoca la morte:

Ed io a guardarvi

non so, nel mio dolore, altro che morte non so invocarmi. Non vissuto invano, più d'esser nato la sventura sento. (La vetrina, in Cuor morituro,vv. 60-63)

La sventura del nascere è poi ripresa nella Nona fuga, in cui si appella la morte come estrema risoluzione al male della vita, rappresentato da un «mesto pensiero»:

Ma come un'ombra in me rimane, un mesto pensiero.

Anch'esso, credi, anch'esso come il resto è passeggiero.

no, che in me potrà solo con la morte passare;

(Nona fuga, vv. 9-14)

dicotomia tra vita e morte, quello cioè della stretta connessione tra la morte e l'amore. Così, la prima voce, nell'esprimere le sue lodi dell'amore, sostiene che due amanti muoiono l'uno nell'altro:

Io non so più dolce cosa dell'amore in giovanezza di due amanti in lieta ebbrezza, di cui l'un nell'altro muore. (Sesta fuga, vv. 1-4)

La morte provocata dall'amore non è quella che porta distruzione, contrapposta ad Eros per la sua forza disgregatrice, che Saba descrive nella Scorciatoia n. 147:

EROS è chiassoso; fa molto baccano sulla superficie della terra. Il suo nemico – l'istinto di Morte – è (come l'eminenza grigia dei romanzi popolari) silenzioso. Ma è lui che, in fine, prende tutto.49

L'istinto di Morte è, in questo caso, una forza oscura, nemica dell'amore. Nel caso della Sesta fuga, invece, la morte dell'individuo è funzionale alla fusione di due singolarità per far nascere una entità nuova. Perciò l'amore diventa esaltazione della vita, che, ancora una volta, nasce grazie alla morte individuale per rigenerarsi in una entità che ingloba in sé due individualità prima separate.

La Sesta fuga si conclude poi con una riflessione della terza voce a proposito della propria esistenza, che dipende dall'amore delle altre due per lei, poiché, se queste dovessero tacere, anch'essa svanirebbe:

Ma se voi tacete, anch'io, ecco, in aere mi risolvo; con voi libera m'evolvo, muoio libera con voi. (Sesta fuga, vv. 333-336)

La terza voce, che rappresenta la vita contemplativa, ma che può essere

interpretata, come abbiamo visto, come la Poesia stessa, dipende dunque dai due caratteri di interiorità ed esteriorità, che con il loro desiderio di vederla e udirla la mantengono in vita. Si va così ad indagare quali sono le “ragioni interne” necessarie alla nascita della poesia: il poeta, attraverso lo scavo interiore, si esprime in versi esternando i propri pensieri. La strada che il poeta percorre, dunque, va dall'interiorità all'esteriorità, giungendo al componimento poetico come meta ultima per rappresentare se stesso attraverso l'arte. La poesia diventa così una sorta di confessione, come sarà esplicitato nella Scorciatoia n. 68: «L'opera d'arte è sempre una confessione; e, come ogni confessione, vuole l'assoluzione.»50 Una confessione è

espressione della propria interiorità, è l'affermazione dei pensieri individuali che “nascono” alla vita esteriore grazie alla loro rappresentazione artistica. Ancora una volta è il poeta l'artefice della vita, che si attua nella forma e nei contenuti di questa monumentale fuga.

Il poeta, perciò, dona vita alla poesia annullando continuamente la propria individualità per esprimersi nella molteplicità delle voci che si rincorrono dentro di lui. In questo senso, può essere paragonato al mare,51 che nella Decima fuga si

infrange continuamente sulla sponda per dar vita alle onde:

non vedi come e in quante vite io moro per ricompormi in lor sonoramente?

(Decima fuga, vv. 9-10)

La Decima fuga si costruisce come un dialogo tra il mare, sempre agitato in superficie, e la sponda, simbolo dell'immobilità. Al mare sempre in movimento viene associato il suono, mentre all'immobilità della sponda il silenzio:

50 U. Saba, Scorciatoie e raccontini, in Tutte le prose..., cit. p. 36.

51 L'idea dell'identificazione del mare con il poeta è tratta dalla tesi di I. Comar, Una raccolta

e alla mia noia immobile silente nave alcuna da lungi più non viene. (Decima fuga, vv. 11-12)

Il mare è il padre delle onde, si infrange sulla sponda e in questo modo muore per generare nuove vite che risuonano e «vivono liete». Il moto incessante del mare contiene in sé quindi la molteplicità delle onde, e richiama la forma della Fuga musicale, in cui la struttura formale si tiene insieme grazie al continuo movimento delle voci. Così come nella Fuga musicale la forma si mantiene nell'intreccio sonoro delle parti contrappuntistiche, nel mare la distesa azzurra si “tiene” grazie al movimento perpetuo delle onde. Ma il mare è anche immagine della Fuga poetica, che si disfa in superficie attraverso le onde (voci), per ricomporsi in profondità in una entità che nasce dal molteplice per risolversi nell'unità della poesia. Siamo di nuovo nella concezione della vita (delle onde) che nasce dalla morte (del mare), in un tempo circolare che ritorna su se stesso perpetuando all'infinito questo processo. A proposito del mare come generatore di vita, nella Scorciatoia n. 86 Saba associa alla sua immagine il concetto di maternità:

UN UOMO (profondamente influenzato dalla madre) andò da un chiromante. Questi gli disse che il suo destino era sul mare. L'uomo (non era mai stato in mare; non lo aveva nemmeno veduto) stupì; si credette frodato. Aveva ragione il chiromante. La vita ricorda le sue origini; ricorda di essere nata dalle acque; e – per l'inconscio – mare = ma(d)re.52

Così come il mare in questo gioco linguistico diventa “madre” delle onde, il poeta è padre della poesia; e così come le onde si disfanno in superficie per mantenere la forma del mare, così le voci tornano alla coscienza del poeta per generare la forma della Fuga poetica. Ecco, ancora una volta, il poeta come generatore di vita: grazie a lui le voci-onde emergono in superficie e si generano

continuamente in un moto perpetuo.

Il poeta come artefice della vita si ritrova, infine, nella Dodicesima fuga, in cui l'io lirico dialoga con l'Eco e l'Ombra, due entità che nascono e si mantengono vive grazie a lui:

La vita che ricevi da me, ripeti in strana forma.

(Dodicesima fuga, vv. 11-13)

Le due entità dell'Eco e dell'Ombra non possono essere annullate dal poeta, poiché la loro vita è legata indissolubilmente a quella di colui che le ha generate:

Discacciarmi non puoi; con te rimango, io che nacqui con te.

(Dodicesima fuga, vv. 25-26)

E il poeta non può fare a meno di loro:

Del tutto a voi mi arrendo, amabili parvenze di me stesso.

(Dodicesima fuga, vv. 43-45)

Per sancirne, infine, la sua “paternità”:

Da me nate ombre e sussurri. (Dodicesima fuga, v. 48)

Ancora una volta, le voci della fuga sono nate dal poeta, anche se in questo caso, come approfondirò nel capitolo successivo, esse non provengono dall'interiorità, ma nascono come proiezione verso il mondo esterno. Il poeta, infatti, dopo il percorso delle fughe, si è liberato dai dissidi interiori rappresentati nelle poesie precedenti e gli «estremi accordi» possono adesso risuonare al di fuori di lui. Possiamo concludere che, nell'arco di tutte le fughe, la vita personificata dalle voci è stata generata dal poeta, che ne ha sancito la nascita morendo continuamente

in se stesso per rigenerarsi nella poesia. I versi, infatti, esprimendo l'interiorità dell'io lirico, lo hanno portato a risolvere i dissidi dell'anima proiettandoli verso il mondo esterno. Così, la vita dei «dolcissimi accordi» si inserisce perfettamente in quella legge da cui nessuno si può sottrarre, per cui la vita è generata dalla morte: come le voci sono nate dal poeta, i «dolcissimi accordi» sono nati dalla morte di quelle stesse «voci discordi», che, dopo aver ricevuto la vita dal poeta, si sono ricomposte in unità. Si sono annullate così le differenze tra passato e presente, gioia e dolore, morte e vita in una poesia che si eleva al di sopra delle categorie e che, per questo, «vive eternamente».

4. La struttura di Preludio e fughe

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