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La retorica in Vico come matrice della sua filosofia

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Academic year: 2021

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Introduzione

Se ci dovessimo domandare che senso abbia dedicare uno studio alla retorica in Vico (e, dunque, al tipo particolare di filosofia che su di essa viene eretta) potremmo prendere a prestito le parole di Giorgio Tagliacozzo, il quale, riportando una frase pronunciata nel corso di una conferenza del 1964, scrive: «Se mi si chiedesse chi fu il pensatore, di qualsiasi epoca, che può maggiormente aiutarci a risolvere il problema, oggi così vivo, della unità del

sapere, risponderei senza esitazione che quel pensatore è Giambattista Vico»1.

Quella di ricomporre il sapere è, infatti, una necessità che si pone oggi con una forza di intensità pari (se non addirittura maggiore) a quella con cui si fa sentire negli anni in cui scrive lo studioso e che con altrettanta intensità si presenta ai tempi di Vico.

La retorica, così come la concepisce il filosofo napoletano, rappresenta una delle risposte più convincenti a questo tipo di interrogativi e, per questa ragione, a essa si vanno a legare i molteplici aspetti del pensiero vichiano, tanto che essa costituisce il fulcro intorno al quale ruotano le riflessioni di Vico nella loro totalità. Tenere sempre presente la prospettiva retorica anche nel corso di indagini più specialistiche significa, per Vico, avere la capacità di gettare una

1

Giorgio Tagliacozzo, Unità del sapere, cultura generale e istruzione. Una tesi moderna fondata su principi

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visione d’insieme anche nel corso di ricerche più particolari e ciò rappresenta uno dei compiti imprescindibili della sapienza.

È per questo che chiunque voglia approcciarsi a Vico, anche a un campo specifico del suo pensiero, dovrebbe muoversi in una prospettiva di insieme e rivolgersi al particolare ambito di cui intende occuparsi sempre in funzione della totalità2.

Nel fare ciò bisogna, naturalmente, prestare molta attenzione a non perdersi fra le molteplici suggestioni che riempiono gli scritti vichiani e, quindi, la prospettiva d’insieme dev’essere realizzata sempre con criterio e con un metodo adeguato. La difficoltà nello studiare Vico può consistere, infatti, nell’assenza di opere davvero sistematiche e specifiche: non si trova un testo dedicato, per esempio, esclusivamente all’etica, alla politica, alla poetica e naturalmente nemmeno alla retorica (escludendo le Institutiones oratoriae, per le quali, però, bisogna fare un discorso a parte, trattandosi di un testo che nasce per esigenze didattiche). Ciò è, senz’altro, coerente con la sua idea di un sapere composto da parti intimamente intrecciate e fa sì che la sua opera appaia, come qualcuno ha felicemente osservato, «un poliedro, ogni faccia del quale rinvia, quanto al senso, a tutte le altre; oppure come un campo di forze, in cui ogni elemento

interagisce con gli altri»3.

2 Cfr. Donald Phillipe Verene, L’originalità filosofica di Vico, in Andrea Battistini ( a cura di ), Vico oggi, Armando Armando, Roma, 1979.

3

Francesco Botturi, Tempo, linguaggio e azione. Le strutture vichiane della «storia ideale eterna», Guida, Napoli, 1996, p.5.

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La domanda che non possiamo fare a meno di porci è, allora: dove e come cercare l’aspetto particolare che ci interessa in questo lavoro (la retorica, appunto) dal momento che tutto è così compresente?

Potremmo concentrarci sul fatto che Vico sia stato insegnante di Eloquenza, ma avremmo a che fare solo con l’aspetto, per così dire, più esteriore e superficiale della retorica stessa (sebbene, come ci accorgeremo nel corso di queste pagine, sia una superficialità solo apparente). Vedendo la cosa da questa prospettiva, comunque, avremmo una concezione solo parziale e, quindi, avremmo già dato un’impostazione sbagliata al nostro studio che farebbe, a quel punto, un grande torto all’autore di cui ci stiamo occupando, visto che ci negheremmo la possibilità di vedere le cose nel complesso, come lui invita a fare ripetutamente.

Come cercare, allora, questa visione organica, profonda e, in definitiva, filosofica delle retorica vichiana? La risposta a questa domanda ci può essere data esclusivamente da una lettura scrupolosa e approfondita dei suoi scritti che si sforzi di andare a cercare il maggior numero possibile di nessi fra cose apparentemente slegate. La domanda sul «dove» deve, allora, cedere il posto a quella sul «come»: come dovremo accostarci alla lettura di Vico per capire in che senso si deve parlare di retorica? Come può concretizzarsi lo sforzo di andare oltre la lettera e, addirittura, oltre ciò che viene esplicitamente detto senza, tuttavia, lavorare di fantasia?

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Abbiamo già parlato della necessità di adottare una prospettiva d’insieme che dovrà essere tenuta presente nella trattazione di ogni punto di vista particolare che, pure, dovremo analizzare attentamente per esigenze di comprensione ed esposizione.

Così non potremo fare a meno di renderci conto che la retorica rappresenta la profonda ispirazione di tutta la riflessione vichiana e che, più che uno specifico ambito, si configura come una maniera di impostare il pensiero. È ciò che, in Vico, fa sì che non ci sia incoerenza fra l’attività di filosofo, di insegnante, di studioso del diritto, di scrittore di orazioni. È ciò che garantisce una continuità fra gli spunti giovanili, spesso espressi con toni polemici e le meditate riflessioni della maturità dai toni più pacati. È ciò che stabilisce un legame fra l’acquisizione e la presentazione di nozioni tecniche delle Institutions e i registri emotivamente ispirati e dai tratti, a volte, sublimi delle prolusioni accademiche. Ma soprattutto, è il terreno fertile che, contrapponendosi a quello sterile della logica, rende possibile la nascita di un complesso e articolato sistema filosofico.

Retorica e filosofia diventano, quindi, in Vico due facce della stessa medaglia, rappresentando l’una la forma, l’altra il contenuto; l’una l’eloquenza, l’altra la sapienza (secondo il famoso ideale ciceroniano). Si vengono, così, a costituire due aspetti legati da una corrispondenza biunivoca e che non ha senso separare se il fine dev’essere quello di raggiungere una forma di sapere civile e umana, obiettivo che effettivamente Vico non ha mai abbandonato. Al

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raggiungimento di questo scopo contribuiscono le scoperte di quei principi gnoseologici grazie ai quali il filosofo perviene a una concezione assai complessa dell’uomo che va a contrapporsi direttamente a quella di Cartesio e che può rivendicare i diritti tanto di un insieme molto complesso di facoltà, quanto di quel terzo elemento – il linguaggio – che, ponendosi a metà fra la

mente e il corpo4, ribadisce l’importanza della dimensione retorica. Partendo da

queste riflessioni preliminari e accorgendosi che una conoscenza valida può essere solo quella di cui si conoscono le cause, quindi solo quella che si fa, Vico giunge a una complessa visione del mondo che conoscerà espressione nel suo capolavoro che vede una prima stesura nel 1725, ma che raggiunge compiutezza quasi vent’anni dopo (1744). Qui le potenzialità della retorica raggiungono esiti inimmaginabili, tanto per la concezione complessiva che ne viene fuori, quanto per la forza filosofica di cui si caricano i singoli elementi. È questo, in sintesi e per sommi capi, il percorso che ci proponiamo di seguire nel corso di questo studio. Nel primo capitolo cerchiamo di fornire gli strumenti metodologici per comprendere il discorso delle pagine successive. Proviamo a farlo mettendo in luce la maniera originale con cui Vico imposta il proprio lavoro e che si realizza, anzitutto, nel rapporto con la tradizione antica, dalla quale trae molte delle nozioni che diverranno centrali nella sua retorica. Nel secondo capitolo, attraverso il confronto con il rivale Cartesio, tentiamo di far risaltare la portata umanistica del pensiero vichiano, concentrandoci su alcuni

4 È una questione che affronteremo in seguito, ma intanto rimandiamo a Gianfranco Cantelli, Mente corpo

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importanti aspetti che lo differenziano dal francese, come, per esempio, la triade di memoria, fantasia e ingegno, il ruolo della topica e la scoperta della conversione di verum e factum. Introducendo queste categorie, ci poniamo anche l’obiettivo di definire meglio la posizione di Vico nei confronti dei suoi contemporanei razionalisti. Il discorso svolto nel secondo capitolo sulle facoltà, sulla topica e sul verum ipsum factum rappresenta il tratto d’unione col capitolo successivo, in cui prendiamo in esame la Scienza nuova, nella quale le nozioni prima citate tornano in una forma diversa. A questo punto, è d’obbligo riservare un posto di riguardo alla discussione sui tropi, che esprimono bene la portata retorica della filosofia vichiana e che rappresentano una punto tanto centrale, quanto problematico, perché costituiscono un argomento di primissimo rilievo in ambito tanto filosofico, quanto didattico. Seguendo questa via vorremmo indagare il valore intimamente filosofico di aspetti specificamente retorici e, in particolare, della discussione che ruota intorno alla metafora (considerata nel suo intreccio con mito e poesia). Tutte queste riflessioni ci spingono a domandarci se e in che senso si possa parlare di estetica e di ermeneutica relativamente a Vico e in che misura questa possibilità sia legata alla mediazione della retorica e alla presenza di un orizzonte che si mantiene sempre filosofico.

Se lo scopo delle letture vichiane dev’essere quello di procedere «a raggiera verso il centro, che, a sua volta, non è semplice e inesteso come un punto

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geometrico, ma complesso e plastico come una figura barocca»5, vorremmo capire se sia legittimo immaginare quel centro come costituito da un intreccio estetico-retorico-ermeneutico che sia in grado di leggere la realtà con una prospettiva coincidente con quella del senso comune.

Ora, dedicare uno studio alla retorica vichiana può essere importante per proporre una rivalutazione rispetto alla critica di derivazione crociana che ha fatto di essa un momento marginale nella filosofia di Vico e, addirittura, neanche degno di poter farne parte. Lo si vede, non solo, dal giudizio che lo stesso Croce consegna ad alcuni dei suoi scritti, ma anche dalla successiva svalutazione di Fausto Nicolini. E lo stesso Sorrentino, pur sottolineando la

novità della retorica vichiana, lo fa in un contesto che rimane ancora crociano6.

Una rivalutazione della retorica è, tuttavia, stata tentata in diversi contesti. Pensiamo, anzitutto, a quella avvenuta in ambiente anglosassone che vede importanti contributi, come quelli di Donald Phillip Verene che ha focalizzato la sua attenzione sul ruolo di memoria, fantasia e ingegno, in rapporto alla storia del mondo che, solo grazie alla retorica, ottiene la possibilità di essere narrata e che consente alla ragione umana di acquisire coscienza di sé,

attraverso la conoscenza delle sue fasi infantili7. Ma accanto a Verene è

5 Botturi, Tempo, linguaggio e azione…, cit., p. 6. 6

Cfr. Sorrentino, La Retorica e la Poetica di G. B. Vico, ossia la prima concezione estetica del linguaggio, Bocca, Torino, 1927.

7 Cfr. Donal Phillip Verene, L’Originalità filosofica di Vico, in Battistini-Garin-Verene-Grassi, Vico oggi, Armando, Roma, 1979.Come vedremo nel corso della tesi, il termine «infantile» non è affatto neutro, perché, sulla base del parallelismo fra ontogenesi e filogenesi, Vico si propone proprio di andare alla riscoperta dell’infanzia dell’individuo (per lo più nella prima fase del suo pensiero) e dell’umanità (nella Scienza nuova ) e la possibilità di ciò sarà garantita proprio dall’esistenza di quelle facoltà immaginative e ingegnose che abbiamo citato sopra a proposito dell’interpretazione di Verene.

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necessario fare anche il nome di Michael Mooney, il quale pone Vico al culmine di una tradizione secolare che parte addirittura dai retori presocratici e

giunge fino al pensiero rinascimentale8. Una rilettura della questione della

retorica in Vico si deve, poi, a Ernesto Grassi che su questi temi ha molto lavorato, insistendo, in particolare, sul rapporto con la tradizione dell’umanesimo.

Questi sono solo alcuni degli studi che sono stati dedicati al tema a cui questa tesi è dedicata e, tuttavia, la questione, nonostante l’interesse che, soprattutto negli ultimi anni, ha suscitato, pare ancora affrontata in minima parte, essendo numerosissime le prospettive da cui essa chiede di essere guardata e altrettanti i problemi a essa connessi che continuano a rimanere aperti.

1. La ricezione vichiana della tradizione retorica

1.1 L’importanza dei modelli classici

Qualsiasi tentativo di comprendere un filosofo deve necessariamente concretizzarsi in uno sforzo di immedesimazione che può avere luogo solo provando a pensare con la sua mente. In generale, per fare ciò non si può prescindere da una scrupolosa indagine riguardante il terreno sul quale il pensiero sorge e si sviluppa. È banale ricordare quanto sia importante interrogarsi sul contesto storico-culturale e sul rapporto col passato che ogni autore instaura in una maniera che gli è peculiare.

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Questa necessità diventa tanto più impellente nel caso di un filosofo come Vico, imbevuto di una tale erudizione, di una cultura così profonda da far sorgere

spontanea una domanda: in che senso può dirsi nuova la sua scienza?9

Infatti, se pensiamo alla Scienza nuova ci accorgiamo di quanto sia difficile trovare un altro libro che deve così tanto alle biblioteche erudite che lo hanno preceduto e che, al tempo stesso, sia dotato di un’originalità tale da lasciare,

spesso, sorpresi10. Ma prima di parlare del capolavoro vichiano (e anche al fine di

comprendere meglio le esigenze e le riflessioni dalle quali questo scaturisce), bisogna rivolgere lo sguardo indietro, specie in uno studio che del pensiero di Vico voglia prendere in esame la dimensione retorica.

Per farlo è necessario provare a capire quali testi del passato abbiano

maggiormente condizionato questo aspetto della sua filosofia11.

Quanto appena detto trova ragione nel particolare rapporto che Vico instaura con la tradizione e che sta alla base di un atteggiamento del tutto nuovo che rende possibile ciò che Giuseppe Patella ha definito «il frutto di un ripensamento filosofico, certo profondo e radicale, compiuto tuttavia sulla base dell’apporto di materiali provenienti dalla tradizione poetica, tanto antica quanto moderna, che nulla toglie al valore innovativo, e persino rivoluzionario delle singole “discoverte”

9 Cfr. Michael Mooney, Vico e la tradizione…, cit., p. 321.

10 Cfr. Andrea Battistini, Intertestualità e «angoscia dell’influenza»: Vico lettore agonistico, in Idem, La sapienza

retorica di Giambattista Vico, Guerini, Milano, 1995, p.132.

11 Se si dovesse fare uno studio approfondito ed esclusivo sulle fonti bisognerebbe rivolgere l’attenzione ai numerosi trattati di retorica (anche quelli meno noti) molto diffusi fra Seicento e Settecento e coi quali certamente Vico deve aver avuto dimestichezza, così come alle molte opere di giurisprudenza e di «dialettica legale» altrettanto importanti per la sua formazione.

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vichiane, le quali nascono proprio come Verwindung, per dirla con Heidegger, vale a dire sulla base di un articolato processo di “accettazione”, “appropriazione”,

“distorsione”, del patrimonio culturale tradizionale»12

.

Attraverso queste tre fasi Vico sviluppa una sorta di dialogo caratterizzato da un costante equilibrio fra il rispetto per gli interlocutori (e, dunque, la consapevolezza dell’importanza che essi ricoprono) e l’atteggiamento critico che, nella maggior parte dei casi, conduce al momento della «distorsione». È lui stesso a renderci consapevoli della problematicità dell’utilizzo dei modelli. Infatti, da un lato mette in guardia dal rischio di un’eccessiva ispirazione che li renderebbe addirittura

«nocivi»13, in quanto, in questo caso si avrebbe una limitazione delle potenzialità

di chi, tentando di imitarli, potrebbe al massimo raggiungere il loro livello, senza speranza di superarlo. «E se dicessi che gli ottimi modelli lasciati dagli artisti

nuocciono, anziché giovare, a qualsiasi istradamento a tal sorta di discipline?»14 si

domanda Vico nel De nostri temporis studiorum ratione e subito si risponde: «È asserzione che può forse apparire paradossale, ma che corrisponde indubbiamente a verità. Coloro che ci hanno lasciato migliori modelli artistici si giovarono forse di modelli anteriori? Al contrario, esemplarono direttamente l’ottima natura. Posto ciò, coloro che si propongono di imitare ottimi modelli lasciati da altri artisti […] non possono al certo né superarli, né eguagliarli. […] Non potendo, dunque,

12 Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica moderna, Guerini, Milano, 1995, p. 14.

13 Sergio Campailla, A proposito di Vico nella «Querelle des ancients et des modernes», p. 191, in «Bollettino del Centro Studi Vichiani», III, 1973, pp.181-192.

14

G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano, 1990, p. 197.

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gl’imitatori né superare né eguagliare i loro modelli, è inevitabile che li

peggiorino»15 .

D’altra parte, però, ogni possibile dubbio sulla loro importanza scompare se si considera che, solo qualche anno prima, in una precedente orazione, Vico esortava i suoi studenti a seguire i canoni dell’umanesimo ciceroniano, ai quali egli stesso si ispirava. Secondo Battistini bisogna dare maggior credito a ciò che il filosofo dice nel De Ratione, dove si trovano tutti i canoni della pedagogia vichiana, mentre

l’orazione precedente si sforzava di ubbidire a imperativi più tradizionali16

. Ciò è senz’altro vero, purché si consideri l’affermazione del De Ratione non nel senso di una distruzione del passato, ma di un’esortazione a utilizzare quest’ultimo in maniera intelligente e proficua. I modelli diventano pericolosi nel momento in cui vengono presi per la fonte primaria alla quale attingere per le proprie scoperte o produzioni mentre, invece, essi devono svolgere il ruolo di interlocutori. Questa consapevolezza si consolida ulteriormente nel pensiero più maturo di Vico, tanto da venire esplicitata ai tempi del De Mente heroica, dove si legge: «Codesti scrittori sovrani e degni di ogni ricordanza sono da leggere prima di qualunque altro. A essi questi dottissimi insegnanti vengon consacrando commentari, con i quali, quasi indicandovi la cosa col dito, vi rendono edotti del perché ciascuno di quelli sia riuscito ottimo nella propria disciplina. È una sorta di commentari, codesta, che non solo, sin dall’inizio dei vostri studi, v’invoglierà ad aver sempre

15

Op. cit., pp.197-199. Naturalmente qui Vico parla di «modelli» in un senso più pratico, mentre i suoi maestri saranno tali da un punto di vista più teorico, ma il discorso fatto per i primi può essere tranquillamente esteso ai secondi.

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tra mano, giorno e notte, quegli ottimi scrittori, ma che, attraverso la ricerca delle cause per cui essi riuscirono ottimi, vi sarà inoltre di stimolo a concepire un’idea più precisa, al lume della quale anche i maggiori dotti, da modelli ideali, si ridurranno a semplici esempi, a tal punto che, prendendo a fondamento i loro primi archetipi, potrete emularli e persino superarli. E invero non è forse questo, a esclusione di ogni altro, il metodo con cui scienze o arti vengono emendate, accresciute, perfezionate? […] Durante tutto il tempo consacrato alle lezioni non dedicatevi ad altro che a un continuo raffronto tra le cose che andrete imparando, per creare una connessione tra loro, in guisa da farle concordare tutte in ciascuna delle discipline studiate da voi: nel che vi sarà di guida la natura stessa della mente

umana, che si diletta soprattutto dell’uniforme, del conveniente, del decoroso»17.

In questo brano si può assistere a una straordinaria confluenza di molte delle tematiche del pensiero vichiano, che, però, per adesso, è opportuno lasciare da parte per privilegiare le questioni di metodo, fissando le quali si potrà poi procedere a comprendere bene i contenuti specifici.

A venire esposto è il procedimento da attuare nel rapportarsi alla tradizione. Esso deve mantenere un carattere dinamico, sviluppando la capacità di trovare dei nessi in vista di una scienza unitaria in grado di dilettare l’animo umano che prova piacere di fronte all’uniforme e al decoroso.

Non molto più avanti, con toni entusiastici, Vico esorta i suoi studenti a non lasciarsi fuorviare dal luogo comune secondo cui tutto ciò che poteva esser

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compiuto nel campo degli studi è già stato fatto, il che genererebbe la convinzione di vivere in uno stato di perfezione, per cui non ci sarebbe più altro da desiderare.

Sono stati «letteratucoli paurosi»18 a divulgare questa falsità, alla quale non

bisogna cedere perché «il mondo è giovane ancora»19. In riferimento a ciò risultano

particolarmente illuminanti le parole di Battistini che ricorda la necessità di studiare il rapporto di Vico col passato, contro quei critici di parte crociana che hanno voluto vedere nel filosofo solo il ruolo del precursore, proiettandolo verso il futuro e concentrandosi sui punti dai quali hanno ritenuto possibile stabilire dei legami con l’Idealismo tedesco. Così facendo, hanno, però, commesso l’errore di

estirpare Vico delle sue radici.20 Sarebbe, quindi, un grosso sbaglio, quasi una

deformazione del pensiero vichiano, porre «i retori del passato nelle teche di un

museo inutile e polveroso»21, piuttosto, il paragone più adeguato potrebbe essere

quello di una biblioteca, ai cui testi Vico sempre attinge rivitalizzandoli e lasciandoli parlare. Un’immagine del genere viene in mente leggendo le parole di Vico stesso che ci ricordano che nel mondo della cultura nulla può dirsi realmente morto, perché ogni autore può diventare nostro interlocutore al momento opportuno. «La vostra consuetudine con i grandi scrittori» si legge ancora nel De

mente heroica «vi condurrà spontaneamente ad averli sempre presenti, quali

giudici, nei vostri lavori e a chiedere ripetutamente a voi stessi, se siete medici […]: - Che direbbe Ippocrate, se ascoltasse le cose che vado meditando e

18 Op. cit., p. 397. 19 Ibidem. 20

Cfr. Andrea Battistini, Introduzione all’edizione italiana di Michael Mooney, Vico e la tradizione…, cit., p. 10. 21 Ibidem.

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scrivendo? – se giureconsulti: - Che, se le ascoltasse un Cuacio?- se teologi: - Che,

se le ascoltasse un Melchiorre Cano?»22. Queste pagine, inneggiando alla cultura,

sembrano eliminare ogni barriera temporale a favore di un dialogo che si può realizzare costantemente in tutta la sua produttività. D’altronde, Vico non si limita a teorizzare un metodo, lasciando ai suoi studenti il compito di metterlo in pratica, ma lo applica egli stesso valorizzando così tanto il passato, da far ottenere ai suoi più importanti modelli la qualifica di «quattro auttori». Si tratta, com’è noto, di Platone, Tacito, Bacone e Grozio, i quali diventano qualcosa di molto simile a dei

punti cardinali in grado di orientare il pensiero e la ricerca di Vico.23 Ma si

commetterebbe un errore non ricordando che, accanto a questi importanti personaggi, ce ne sono molti altri che occupano una posizione imprescindibile nelle riflessioni del filosofo napoletano. Certamente i riferimenti agli altri «auttori» sono meno espliciti, talvolta quasi nascosti e sicuramente molto meno definiti, ma non per questo si deve sottovalutarne l’importanza. Per individuare l’influsso da parte di ognuno di loro bisogna leggere in profondità le opere di Vico, andando a cercarne i riferimenti anche dove non sono espressamente citati. È possibile, però, usufruire dell’aiuto che Vico stesso ci fornisce con il suo curriculum vitae et

studiorum rappresentato dalla Vita scritta da se medesimo. In quel contesto, infatti,

egli ci mostra come, a partire dagli anni giovanili, abbia avuto la fortuna di trovare i suoi veri maestri, riconoscendo nel colloquio assiduo con loro le sue tendenze più profonde. Così facendo egli si presenta come uno studioso che accoglie una

22

G. Vico, De mente heroica, cit., p. 397.

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precedente e duratura tradizione di pensiero24 consapevole, al tempo stesso, di avere qualcosa in più da dire.

Proprio per questa ragione, nelle prossime pagine cercheremo di risalire il pensiero vichiano, guidati dalla Vita e da altri riferimenti sparsi nelle varie opere, andando alla ricerca di quei segnavia che ci consentiranno di giungere al luogo d’origine di nozioni accolte e rese proprie da Vico e dalle quali derivano, nel pensiero maturo, molte delle sue più importanti «discoverte».

Potrà stupire il fatto che gli autori coi quali, assumendo la prospettiva vichiana, cercheremo di confrontarci, appariranno in un ordine diverso dal naturale ordine cronologico. La ragione di ciò può essere facilmente spiegata: l’intenzione non è quella di fornire un resoconto della retorica antica, ma di far vedere in che maniera questa arriva a contatto con gli studi e le riflessioni del filosofo, dunque è forse molto più appropriato seguire, in linea di massima, l’ordine di apparizione che si trova all’intero dei suoi testi.

L’altra precisazione da fare riguarda quelle nozioni che qui verranno introdotte ma non sviluppate e approfondite: ciò è dovuto allo scopo principale di questo capitolo che, come già detto precedentemente, è quello di tenere conto più delle questioni di metodo che di quelle di contenuto (le quali saranno ampiamente affrontate in seguito).

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Assumendo come testo guida l’autobiografia, dunque, possiamo partire da ciò che Vico dice parlando degli anni trascorsi a Vatolla (che furono, certamente, i più proficui per i suoi studi): «Ma, vivendo egli ancora pregiudicato nel poetare, felicemente egli avvenne che in una libreria de’ padri minori osservanti di quel castello si prese tra le mani un libro, nel cui fine era una critica, non bene si ricorda, o apologia di un epigramma di un valentuomo, canonico di ordine, Massa cognominato, dove si ragionava dei numeri poetici maravigliosi, spazialmente osservati in Virgilio; […] e per vicende di giornate studiava Cicerone o Virgilio

overo Orazio»25.

È questo il momento in cui il giovane Vico entra in contatto con la cultura latina. Gli autori che vengono citati nel passo in questione assumono, da qui in poi, un’importanza straordinaria. Alle letture delle loro opere il filosofo dedicherà intense e faticose ore e ciò gli consentirà di avvertire una continuità con quella tradizione trascurata dalla sua epoca, tanto che, al suo ritorno a Napoli affermerà di

sentirsi come uno straniero nella sua patria26.

Questo senso di estraneità non gli impedirà, però, di continuare a dedicarsi a quegli studi trovando in essi un terreno di coltura assai favorevole per la crescita del suo pensiero.

I tre autori che vengono nominati nel passo sopra riportato sono fra i più grandi esponenti della latinità, alla quale Vico si sente profondamente legato. Occorre

25

Giambattista Vico, Vita scritta da se medesimo, in Idem, Opere, cit., p. 13. 26 Cfr. Op. cit., p. 26.

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precisare che la sua ricezione del latino non è affatto passiva o dovuta esclusivamente al contesto in cui si trova ma, al contrario, è uno studio consapevole, perché, in esso trova moltissimi suggerimenti che corrispondono

perfettamente alla sua disposizione27.

Fra gli autori prediletti un ruolo di primissima importanza viene riservato a

Cicerone28, che per quanto riguarda gli aspetti giuridico-retorici può essere

considerato l’autentico maestro di Vico. Da subito il retore romano diviene un ideale al quale ispirarsi, non solo dal punto di vista intellettuale, ma, in un certo senso, anche da quello umano. Un’affermazione del genere non sembra esagerata se si fa riferimento alle prolusioni universitarie pronunciate da Vico all’inizio di ogni anno accademico in qualità di docente di Retorica. Nella prima di esse, infatti,

lo definisce «il più eloquente dei sapienti, il più sapiente degli oratori»29. Ad

affascinare così tanto Vico delle opere ciceroniane è soprattutto la considerazione della topica, in particolare l’accenno alla superiorità dell’ars inveniendi rispetto

all’ars iudicandi30

. Molto probabilmente, infatti, attraverso la lettura di Cicerone, il

giovane studioso arriva pian piano a comprendere il valore della topica stessa. La linea che congiunge i due autori è così forte da spingere qualcuno a considerare

27 Cfr. Mario Fubini, Stile e umanità di Giambattista Vico, Laterza, Bari, 1946, p. 111.

28 Accingendoci a parlare di Cicerone è il caso di ricordare un testo falsamente attribuitogli e che deve aver esercitato un certo influsso sul pensiero vichiano, almeno per quel che concerne questioni di impostazione e terminologia. Si tratta della Rhetorica ad Herennium, che rappresenta il più antico manuale di retorica latina che ci è giunto per intero. In esso la materia è suddivisa seguendo le direttive indicate da Aristotele e la sua grande importanza sta nel fatto di aver creato la terminologia retorica latina attraverso traduzioni e calchi dal greco. Di essa si servirà tutta la tradizione successiva. Ma la cosa che più ci interessa (per gli sviluppi che il tema avrà in Vico) è che alle parti del discorso tradizionali esso aggiunge la memoria (la quale, tuttavia, era emersa in tutta la sua importanza già nella pratica oratoria di Cicerone, in particolare nella tecnica dei loci ).

29 Vico, Orazioni inaugurali, in Idem, Opere, a cura di Paolo Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze, 1971, p.7. 30

Cfr. Karl Otto Apel, L’idea della lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, traduzione di Luciano Tosti, Società editrice il Mulino, Bologna, 1975, p. 9.

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Vico il punto d’arrivo di quell’ideologia del linguaggio documentabile a partire da Cicerone stesso e che si fonda sulla reciproca implicazione di eloquenza e

sapienza31. Per comprendere pienamente il significato di quest’espressione occorre

ricordare che volgendo lo sguardo al passato, in cerca di un’alternativa al razionalismo di stampo cartesiano dominante nel suo presente, Vico scopre una concezione del linguaggio molto vicina a quella che lui stesso sta maturando. Karl Otto Apel sottolinea che «la topica dell’oratore, l’ars inveniendi degli argomenti […] sarebbe solo l’applicazione, certamente rappresentativa della cultura antica, di un rapporto linguistico più largamente comprensivo e a livelli più profondi, nel quale alla “forma interna” del linguaggio sia ampiamente demandato […] il

“trovare” una verità sostanziale (valida nel comportamento in pubblico)»32

e, ancora, ricordando l’interpretazione di Lohmann, aggiunge: «Non solo i singoli

topoi della retorica sono di volta in volta, ciascuno per sé, una direttiva linguistica

in ordine ad un comportamento dell’oratore in pubblico, ma anche e soprattutto l’ “argomento” medesimo, che rende disponibile all’oratore il linguaggio in tutti i

topoi, è una siffatta guida istituzionale. Mentre la ratio iudicandi dialettica designa

il punto d’emancipazione del pensiero ellenistico romano dal linguaggio, l’argumentum, che secondo Cicerone è per natura anteriore al giudizio, resta la

parte del pensiero legata al linguaggio»33.

Poco più avanti Apel asserisce che l’idea della topica che emerge dalle opere ciceroniane è un aspetto fondamentale dell’umanesimo linguistico del quale fa

31 Op. cit., p. 105. 32

Op. cit., p. 180 33 Ibidem.

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parte lo stesso Vico34. A ciò si aggiunga l’attenzione nel parlare della funzione del linguaggio con costante riguardo al suo significato per la comunità umana. Infatti: «Dall’arte oratoria lo stato riceve i massimi benefici, se in quella è presente la misura d’ogni umana faccenda, la sapienza […]. Sì, a me sembra che gli uomini, sebbene per molti aspetti siano al di sotto delle bestie e ne siano più deboli, pur superano le bestie, e in misura enorme, in una cosa: nel poter parlare. Pertanto mi pare che abbia raggiunto la posizione più nobile fra gli uomini colui che è

eminente in ciò che contraddistingue gli uomini dalle bestie»35. Così dicendo,

Cicerone riprende un topos che risale a Isocrate e che viene ripetuto dalla maggior parte degli esponenti della retorica ellenistica. Il linguaggio, dunque, è legato all’emancipazione dell’uomo dalle bestie e in ciò risiede la sua funzione morale. Per questa ragione in qualsiasi comunità acquisisce un ruolo centrale l’oratore, colui il quale ha la massima padronanza del linguaggio stesso e la consapevolezza di avere a che fare con l’«istanza determinante della vita associata, come veicolo

d’ogni tradizione culturale e d’ogni formazione»36

.

Egli, dunque, dev’essere in grado di docere (e in questo senso sono necessarie delle forti basi filosofiche), delectare e permovere, dunque parlare senza commettere errori, cioè in un corretto latino, ma anche utilizzare parole dotate di

una certa eleganza37. La prospettiva d’insieme che ne deriva è accolta dal Vico

insegnante, filosofo e oratore a sua volta (ricordando che i tre aspetti non sono così

34 Op. cit. p. 183.

35 Cicerone, De inventione , I, II, 3, citato da Apel, L’idea…, cit., p. 192. 36

Apel, L’idea…, cit., p. 193; p. 198.

(20)

nettamente distinti e che ogni loro separazione è fittizia e dovuta soprattutto a

esigenze espositive)38.

Basta leggere i testi delle Orazioni inaugurali per accorgersi dello sforzo di Vico di incarnare egli stesso il modello del perfetto oratore, dotato di un’abilità

retorica «informata dal dominio dell’intero ciclo del sapere»39. Non ci sono dubbi

sul fatto che Vico abbia accolto con entusiasmo l’idea ciceroniana per cui

«l’eloquenza senza sapere è vacua e vuota»40 così come «il sapere senza

l’eloquenza è muto e impotente»41

e la consapevolezza che «ogni orazione è fatta di contenuto e di parole» e «le parole non trovano collocazione se viene a mancare il contenuto, e il contenuto non si può esprimere con chiarezza eliminando le

parole»42. Queste riflessioni condizioneranno moltissimo il pensiero e la prassi di

Vico. Quest’ultimo punto è ben visibile in ognuna delle sue prolusioni (da quelle giovanili alle più tarde). In ognuna di esse emerge in pratica ciò su cui si regge gran parte della sua teoria: l’idea che l’arte della persuasione, anziché limitarsi ad abbellire i discorsi, abbia il compito di creare una sinergia indissolubile fra res e

verba, in virtù di quella convinzione per cui il linguaggio non è solo un neutro

veicolo di trasmissione, ma possiede la capacità di produrre un pensiero che si

38 Nel prendere questa posizione bisogna, tuttavia, stare molto attenti a non commettere l’errore opposto. A distinguere i diversi piani dell’attività di Vico è, in realtà, il particolare tipo di atteggiamento messo in atto. Da docente egli sa di avere di fronte degli studenti ai quali dover impartire dei precisi insegnamenti, fornendo, anzitutto, l’informazione dello statuto disciplinare in questione; da filosofo (nella Scienza nuova in particolare) può, invece, lasciar agire liberamente il pathos, giungendo, così, a esiti visibilmente diversi. Cfr. Battistini, Introduzione a Mooney, Vico e la tradizione…, cit., pp. 13-14.

39 Michael Mooney, Vico e la tradizione della retorica, cit. , p. 32. 40 Op. cit., p.33.

41 Ibidem

(21)

approfondisce col dialogo interpersonale e si alimenta con la virtù della

prudenza43.

La cosa importante rimane l’instaurazione di uno stretto legame fra la maniera in cui si parla e il contenuto veritiero di ciò che si dice che può essere realizzato

tornando alla «migliore età della filosofia greca»44 quando «mancava un termine

per designare lo specialista, dato che la retorica si apprendeva con la stessa

filosofia»45 in quanto quest’ultima «insegna a pensare, a fare, a dire cose vere e

degne. Sarà pertanto ottimo oratore colui che parla secondo verità e a vantaggio di ciò che è degno. E invero Demostene ha ascoltato Platone per molti anni e Cicerone dichiara di aver ricavato dall’Accademia la intera sua ricchezza oratoria. Ma quando avvenne la separazione dello studio della filosofia da quello dell’eloquenza, al quale era naturalmente congiunto, ed ebbe inizio il dissidio tra lingua e cuore, i maestri di questa arte, assolutamente sprovvisti di filosofia e vani parolai, si appropriarono del nome di sofisti, vale a dire del nome antico di

filosofi»46. Attraverso le sue lezioni Vico spera proprio di trasmettere ai giovani la

convinzione che sia necessario recuperare quell’unità, ecco perché anche dietro quelle che sembrano essere mere indicazioni tecniche bisognerebbe cogliere quest’idea di fondo continuamente presente. Il tema in questione è di evidente origine ciceroniana, visto che anche lo scrittore latino concepiva la sua attività come il tentativo di ristabilire l’unità andata perduta fra linguaggio e intelletto e, in

43 Cfr. Mooney, Vico e la tradizione…, cit., p. 12. 44 Op. cit., p. 5.

45

Op. cit., p.7. 46 Ibidem

(22)

definitiva, fra retorica e filosofia e proprio per questo non perdeva occasione di ribadire di essere diventato un oratore grazie all’Accademia e non alle scuole dei retori. Il perfetto oratore, infatti, oltre a possedere delle buone doti naturali (ingegno, abilità argomentativa, finezza ecc) deve aver acquisito una buona cultura

letteraria, storica e filosofica47.

Il riferimento a Cicerone dev’essere necessariamente accompagnato da quello a

Quintiliano48, le cui dottrine rappresentano il risultato finale di quelle ciceroniane,

con particolare insistenza sugli aspetti legati all’oratoria giudiziaria49

. Nella Vita Vico ne parla molto poco, mentre la sua presenza è molto più consistente nelle

Institutiones Oratoriae, dove viene ricordata l’organizzazione del discorso in tre

parti, operata da Quintiliano su basi aristoteliche. La ragione di questa suddivisione, come evidenzia Ernesto Grassi, sta nell’accoglienza di un principio fondamentale: quello secondo cui il mondo umano presenta una struttura

temporale.50 In altre parole, l’idea di fondo è che esso «non è, ma diviene»51.

L’adesione a questa concezione si lega indissolubilmente alle riflessioni sul linguaggio. Ciò ha delle conseguenze molto importanti sul piano del discorso

47

Cfr. Enrica Malcovati, Introduzione a Cicerone, Opere retoriche, a cura di E. Malcovati, Giannicola Barone, Filippo Cancelli, Mondadori, Milano, 2007, p.8.

48 In questo caso facciamo una lieve modifica rispetto al percorso tracciato nell’autobiografia per due ragioni: innanzitutto perché gli influssi derivanti da Cicerone e quelli provenienti da Quintiliano sono quasi sempre legati, quindi sembra più opportuno parlarne nello stesso passo; in secondo luogo, dal momento che ci siamo posti dal punto di vista del Vico scopritore di questi autori occorre segnalare la possibilità che abbia iniziato a leggere i due scrittori latini nello stesso periodo, dal momento che il nome di Quintiliano compare con riferimento alla discussione sul De statibus caussarum in occasione del concorso per la cattedra di Retorica del 1697-1698, momento nel quale presumibilmente lo conosceva già in maniera approfondita.

49 Cfr. Ernesto Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, trad di Roberta Moroni, a cura di Massimo Marassi, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1999, p. 97 e Mooney, Vico e la tradizione…, cit., pp. 106-107.

50

Cfr. Ernesto Grassi, Retorica…, cit., p.97. 51 Ibidem.

(23)

stesso, il quale, dunque, dev’essere plasmato in funzione del futuro e del passato52. Anche Quintiliano, inoltre, tenta di correggere la tesi di coloro i quali ritengono che il saper parlare sia il completamento formale a conoscenze acquisite attraverso la scienza. Un’idea di questo tipo presuppone una concezione dualistica in cui la retorica avrebbe solo il ruolo di attivare esteriormente dei contenuti già presenti, in

modo tale da garantire loro una maggiore efficacia53.

L’idea che lo scrittore contrappone suona molto simile a ciò che più tardi dirà Vico: non c’è nulla di estraneo all’arte del discorso in quanto ogni contenuto possiede di per sé anche una forma e naturalmente ciò implica l’eliminazione di

ogni dualismo54. Anche lui, come Cicerone, auspica un ritorno ai tempi in cui la

figura del filosofo coincideva con quella dell’oratore, identificazione andata perduta per colpa di entrambi: «Filosofia ed eloquenza, come Cicerone con grande chiarezza conclude, a quel modo che sono state congiunte dalla natura, così anche sono legate dai compiti loro imposti, sicché filosofi ed oratori furono identificati. In seguito questa che era un’unica branca di studi si scisse e per l’inerzia di coloro che la coltivavano si giunse a credere all’esistenza di molteplici arti; infatti non appena la parola cominciò a essere fonte di guadagno e si cominciò a fare cattivo uso dei vantaggi dell’eloquenza, trascurarono la morale coloro che erano ritenuti abili nel parlare. Una volta abbandonata la morale, l’eloquenza divenne per così dire preda degli spiriti mediocri. Ne derivò allora che alcuni, disdegnato l’impegno

52 Ibidem. 53

Cfr op. cit., p. 98. 54 Ibidem.

(24)

necessario alla cura del parlare, ritornati a foggiare gli animi e a stabilire leggi di vita, conservarono in verità la parte migliore dell’eloquenza […]; si arrogarono tuttavia un nome molto pretenzioso, al punto che essi soli erano definiti amanti

della saggezza»55. Per Quintiliano, come sottolinea Grassi, res e verba sono le

componenti essenziali di ogni discorso dotato di senso, cioè per esprimere qualsiasi

cosa devono esserci degli argomenti e delle parole56, ma le parole non sono

un’aggiunta esteriore all’argomento, il quale a sua volta non è un contenuto privo di forma. Un’ulteriore somiglianza fra Vico e Quintiliano è stata individuata da alcuni studiosi nell’atteggiamento col quale viene denunciata la decadenza dell’eloquenza: si ha, fra i due, la medesima preoccupazione, il medesimo bisogno di proporre una via alternativa ai propri tempi. E se lo scrittore latino individuava la causa di ciò nel fatto che non si studiasse più Cicerone, Vico, analogamente, crede che i colpevoli del suo tempo siano quei cartesiani, quei razionalisti convinti che, per raggiungere una scienza degna di questo nome, si debba bandire lo studio

della tradizione retorica57.

Nella Vita, il riferimento che segue quello a Cicerone riguarda, però, lo scrittore latino Orazio a cui, per la verità, Vico riserva uno spazio molto ristretto limitandosi a ricordarlo come colui dal quale gli deriva l’interesse per «la morale

degli antichi greci»58. Occorre, tuttavia, soffermarsi brevemente sul rapporto che

lega Vico al poeta latino, non solo per la presenza di un testo che porta il nome di

55 Quintiliano, Institutio oratoria, Einaudi, Torino, 2001, pp. 9-11. 56 Cfr. Op. cit., p. 99.

57 Cfr. Marcello Gigante, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico, a cura di Giuliano Crifò, Guida, Napoli, 1994 ( Atti del Convegno «Retorica e filosofia in Giambattista Vico», 19 marzo 1990), p. 27.

(25)

Commento all’«Arte poetica» di Orazio59

, ma anche per il ruolo che quest’ultimo ricopre per una serie di aspetti sostanziali nel pensiero del napoletano. Facendo riferimento allo scritto sopra citato si possono rintracciare almeno tre aspetti di vicinanza.

Il primo di essi è, senza dubbio, il principio ut pictura poesis che Vico recupera affermando che miglior poeta è colui il quale è in grado di usare le immagini sensibili come mezzo di espressione andando a colpire non l’intelletto, ma gli

occhi dei lettori60. Tornando ancora una volta a quelle straordinarie prove di abilità

oratoria contenute nei testi delle Orazioni possiamo accorgerci di come sia costante il tentativo di parlare per immagini e di produrre dei discorsi dotati della stessa

vivezza propria di un quadro61, non solo in contesti propriamente poetici ma anche

letterari in generale. Andrea Battistini ha colto molto bene quest’aspetto, richiamando l’attenzione sulla «tendenza sincretica a convertire il procedimento mentale in un modello spaziale, a raffigurare le idee con i contorni delle

59 Sulle vicende editoriali e sui problemi legati all’attribuzione di questo scritto si veda Guido De Paulis,

Introduzione a G. Vico, Commento all’ «Arte Poetica» di Orazio, Guida Editore, Napoli, 1998., pp. 7-78.

60 Cfr. Vico, Commento all’ «Arte poetica» di Orazio, in G. De Paulis, Introduzione…, cit., p. 87.

61 Le applicazioni più evidenti di questo principio si hanno, però, nella Scienza nuova e, in particolare in un brano che quasi sconvolge per la sua crudezza: «Finalmente, quanto gran principio dell’umanità sieno le seppolture, s’immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de’ corvi e cani; che certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d’esser incolti i campi nonché disabitate le città, eche gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentro il marciume de’ loro morti congionti. […] Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l’anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a’ loro corpi inseppolti, e ‘n conseguenza che non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali». ( Vico, Principi di scienza nuova, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano, 2011, p. 179.)

(26)

immagini»62. Si ha, certamente, in Vico, un pensare «figurativo» che «sancisce la

superiorità del senso della vista sull’udito»63 .

Gli altri due temi che Vico ritrova in Orazio sono l’idea dell’utilità come fine della poesia congiunta alla convinzione (peraltro già presente in Cicerone) che la poesia debba trarre i suoi insegnamenti dalla filosofia morale e il criterio del «verisimile». Questi due insegnamenti ci impongono di spostare l’attenzione

sull’altra «autorità in materia di poesia»64

che è Aristotele. Ancora una volta è Vico stesso a guidarci su questa strada, infatti: «Leggendo nell’Arte di Orazio che la suppellettile più doviziosa della poesia ella si proccura con la lezion de’ morali filosofi, seriosamente applicò alla morale degli antichi greci, dandovi principio da quella di Aristotile di cui più soventi fiate su vari princìpi d’instituzioni civili ne

aveva letto riferirsi le auttorità»65. Attraverso Orazio, dunque, avviene

l’avvicinamento alla filosofia aristotelica e certamente sorprende molto il fatto di non trovare, in questa sede, alcun riferimento esplicito agli scritti di poetica e retorica, tanto più se si pensa che i precetti oraziani del «verisimile», del valore didascalico della poesia e dell’unità del poema trovano la loro origine proprio nella Poetica.

D’altra parte, ciò non è certo sufficiente a generare dubbi sull’importanza di questo testo per il pensiero vichiano, visti i numerosi riferimenti presenti altrove.

62 Andrea Battistini, Introduzione a Vico, Opere, cit., p. XXVIII 63 Ibidem.

64 Salvatore Cerasuolo, Vico esegeta dell’Arte Poetica oraziana, in «Bollettino del Centro Studi Vichiani», VIII, 1978, p. 85.

(27)

Bisogna, però, precisare che la lettura di Aristotele da parte di Vico, in molti casi,

non è diretta66. A volte egli lo cita per com’è citato dagli scrittori latini67 oppure dai

trattatisti rinascimentali68 che utilizzavano i princìpi aristotelici (liberamente

attinti) per far luce su testi latini69. Ed è proprio questa tradizione che Vico

accoglie, appropriandosene in funzione di una risposta classicista ad alcuni eccessi della poetica del Barocco (alla quale, tuttavia, è debitore per una serie di elementi).

In questo contesto l’importanza decisiva è assegnata al verosimile, «inteso come focalizzazione della realtà attraverso la lente della medietà, del giusto mezzo, che pota gli eccessi, rapportandosi e adeguandosi relativamente alle diverse

circostanze»70. Avendo come sfondo questo aristotelismo mescolato alla tradizione

latina, il tutto mediato dalla Scolastica, prima, e dagli interpreti rinascimentali poi,

66 Si deve ricordare, inoltre, che per l’insegnamento della retorica erano molto diffusi testi come il De arte rhetorica

libri tres ex Aristotele, Cicerone, Quinctiliano deprompti, uno scritto del 1562 del p. Cipriano Soarez. La

consuetudine di raccogliere un sapere molto vasto in un manualetto al fine di facilitare e rendere più comodo lo studio, corrisponde a un vero e proprio genere letterario che prende il nome di Summulae. Tipico del Medioevo (periodo nel quale aveva, in realtà, lo scopo di sottrarre opere dell’antichità alla distruzione completa), viene accolto favorevolmente dai Gesuiti, fino a diffondersi enormemente per tutto il corso dell’epoca moderna. Su ciò si vedano le note di Andrea Battistini, a G. Vico, Vita…, cit., p. 1245. Inoltre, erano molto conosciute le raccolte di massime e aforismi, alle quali Vico potrebbe aver attinto, per esempio, le Auctoritates Aristotelis., che potrebbero, dunque, aver ricoperto un ruolo rilevante nella ricezione del filosofo greco.

Ipotizzando, invece, che la lettura sia stata diretta è quasi certo che Vico abbia fatto riferimento all’edizione della

Retorica di Alessandro Piccolomini del 1565, che era ancora la più recente ai suoi tempi.

67

Per esempio, la condizione di malinconico che Vico attribuisce a se stesso nella Vita (Cfr. edizione cit., p. 6) e che fa risalire alla caduta dalle scale all’età di sette anni ha una derivazione aristotelica che il Vico riprende, però, dalle

Tusculanae Disputationes di Cicerone (Cfr. Cicerone, Tusculanae Disputationes, I, XXVIII, 80, citato Fabrizio

Lomonaco, La Vita di Vico “Istorico” e “Filosofo”, in« Educação e Filosofia Uberlândia» v. 28, n. especial, 2014, p.25. )

68 È molto curioso che la Retorica venga citata solo nelle Institutiones Oratoriae e, per di più, in pochissimi passi, visto che è evidente che essa abbia avuto un’importanza non secondaria non solo per la fondazione della gnoseologia vichiana -come rileva, per esempio Dorfles in Mito e metafora in Vico e nell’estetica contemporanea, in Idem, L’estetica del mito (da Vico a Wittgenstein), Mursia, Milano, 1968, p. 7 e ss. ma anche per l’elaborazione di alcuni aspetti più tecnici della retorica stessa (per esempio la suddivisione in tre generi: cfr. Aristotele, Retorica, Libro I, 1358b, a cura di Marco Dorati, Mondadori, Milano, 1996, p. 25 e Vico, Institutiones Oratoriae, cit., p21), nonché per molti elementi dell’impostazione delle Institutiones.

69

Cfr. Salvatore Cerasuolo, Vico esegeta…, cit., p. 85. 70 Ibidem.

(28)

non è facile capire quali categorie Vico concepisca come effettivamente aristoteliche. Certamente egli ha presente il fatto che molte delle nozioni con cui si confronta hanno come fondamento le opere del filosofo greco, ma è difficile stabilire se la forma in cui gli arrivano e sulla quale lavora sia puramente aristotelica, anche se non sembra azzardato affermare che ciò sia avvenuto in numero molto limitato di casi.

Conviene, comunque, affidarsi a quello che dice lo stesso Vico, senza lasciarsi prendere troppo la mano da supposizioni e ipotesi e rimanendo vincolati ai testi a disposizione. Proprio stando a quanto scritto nelle Institutiones, si può osservare che l’importanza di Aristotele si ha soprattutto nell’elaborazione della dottrina dell’ingegno e della metafora. Infatti nel paragrafo Le frasi sentenziose, ossia «del

ben parlare in concetti», dopo essersi occupato delle massime e degli entimemi

l’autore pone l’attenzione sul fatto che i Latini chiamassero «massime» soprattutto quelle ricche di ingegno e che, in virtù della loro nobiltà, vengono chiamate in italiano «concetti». A questo punto si sofferma su quella che definisce «virtù dell’ingegno» e la introduce facendo riferimento a Matteo Peregrini, che la

definisce come «il vicendevole collegamento di cose diverse fra di loro»71. Per

comprendere bene questo passaggio delle Institutiones, bisogna ricordare che Vico conosce il dibattito dei trattatisti barocchi sui detti acuti, i quali sarebbero legati alla possibilità dell’ingegno di scorgere fra le idee dei nessi che, oltre a consentire un abbellimento del discorso, corrispondono perfettamente ai meccanismi

(29)

dell’intelletto. Ma questa attenzione per i nessi e per la possibilità che essi abbiano un valore conoscitivo è tematizzata per la prima volta da Aristotele, così come è lui il primo a parlare in termini tecnici di «metafora». A essa dedica, infatti, tutto il XXI capitolo della Poetica, dove la definisce come «la sovrapposizione al segno di un segno linguistico che usualmente indica altro o dal genere alla specie o dalla

specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia»72. Nella Retorica73,

invece, si ha un vero e proprio salto in avanti, in quanto non solo viene considerata come la capacità di vedere le somiglianze, ma viene caricata di un potere

conoscitivo che sarà molto caro a Vico74. Egli accoglie questa teoria rimanendone

affascinato e insistendo sul piacere che deriva dall’imparare molte cose

rapidamente e facilmente75. Naturalmente occorre prestare molta attenzione alla

qualità dei nessi in questione: non c’è alcuna dimostrazione d’ingegno nell’enunciare «un nesso semplice», mentre meritano grandi elogi le massime

ragionanti, le quali palesano una «tacita forza entimematica»76, vale a dire «una

ragione per mezzo della quale due idee diverse vengono acconciamente collegate

tra loro»77 e talvolta può succedere che questa forza emerga anche in assenza di

una frase che espliciti il collegamento e che, quindi, l’entimema sia contenuto tutto

72 Aristotele, Poetica, 1457 b 5 ss., a cura di Diego Lanza, BUR, Milano, 1990, p. 191. In realtà, in questo contesto potrebbe essere non molto appropriato parlare di «metafora». Molti studiosi, infatti, preferiscono tradurre con «traslato» . Cfr. Lanza, Note all’edizione citata della Poetica, p. 191.

73 Aristotele, Retorica, 1410 a- 1412b, a cura di Marco Dorati, Mondadori, Milano, 1996, pp. 331-339.

74 La trattazione della metafora sembra essere, fra tutti, l’elemento più aristotelico del pensiero vichiano. Naturalmente anche questo aspetto, come tutti gli altri, è arrivato mediato da tutta la tradizione post-aristotelica. Il testo che ebbe il ruolo maggiore a questo riguardo fu certamente Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1654). In esso l’autore insiste molto sul ruolo della metafora, considerata la più importante fra le figure retoriche, essendo in grado di collegare fenomeni molti lontani (idea, come abbiamo notato, presente già in Aristotele e sulla quale Vico costruirà gran parte della sua gnoseologia).

75 Vico, Institutiones…, cit., p. 291 76

Op. cit.,p. 287. 77 Ibidem.

(30)

dentro una parola78. L’importanza del retroterra aristotelico è fatto valere con convinzione dallo stesso Vico che scrive: «Nella Poetica Aristotele giudica che si tratti di invenzione molto difficile, là dove a proposito delle metafore dice: «Usare in modo giusto delle traslazioni è cosa particolarmente ardua, che riesce solo a ingegni versatili»; e nella Retorica scrive che «solo i filosofi sagaci e acuti riescono a cogliere le somiglianze esistenti in cose distanti tra loro» […]. Dopo aver studiato in che cosa consistano i detti acuti, vediamo perché essi piacciono. Aristotele nella sua Retorica ritiene che ciò avvenga perché per loro mezzo si apprendono molte cose rapidamente e facilmente; è cosa naturale – egli dice – che chiunque provi molto piacere quando si impara in modo facile e rapido. […] Per cui osserva che non si apprezzano né gli argomenti chiari e evidenti (tali sono, egli dice, gli argomenti a tutti noti e che non hanno bisogno di essere cercati) né quelli che restano ancora oscuri dopo che sono stati esposti, bensì quelli che, quando vengono enunciati, ci forniscono immediatamente una qualche conoscenza, benché prima non sapessimo nulla, o quelli che si afferrano dopo un po’ di

riflessione»79.

Parlando dell’adesione di Vico al modello aristotelico occorre richiamare l’attenzione su un secondo aspetto messo ampiamente in luce da Andrea Battistini: molti dei topoi autobiografici sono la messa in pratica di precetti rintracciabili nella

Retorica. Per esempio, elencare le avversità che ostacolano il cammino del

protagonista allo scopo di farne emergere maggiormente la virtù corrisponde a

78 Cfr. op. cit, pp. 287-289. 79 Op. cit., p. 291.

(31)

quelle che Aristotele ha definito «prove etiche»80 oppure il fatto di far emergere l’amplificatio tipica del genere epidittico, che Aristotele ha ampiamente

tematizzato81. Ancor più che nell’autobiografia, l’applicazione dei canoni retorici,

si può osservare nelle orazioni, per esempio in quella In morte di Donn’Angela

Cimmino che ci consente di evidenziare l’utilizzo di una serie di precetti aristotelici

uniti a un’impostazione riconducibile a Cicerone e Quintiliano. A tale riguardo Andrea Battistini fa notare come tutti quei sentimenti che sembrano affiorare nella loro genuinità siano dovuti proprio alla padronanza dello strumento retorico da parte di Vico, il che corrisponde ad attribuirgli una tale dimestichezza da renderlo in grado di nascondere l’artificio, facendo apparire il testo dotato di una spontaneità che, invece, è riconducibile a un disegno assai scrupoloso. Tutto ciò, insiste Battistini, può essere usato come controprova di chi vorrebbe distinguere in Vico il letterato e il filosofo, come se in lui ci fosse una duplice natura e come se l’autore della Scienza Nuova fosse una persona diversa rispetto allo scrittore delle orazioni. Una certa impostazione aristotelica è individuata ancora da Mooney in una questione di grande rilievo: l’idea, fondamentale nella filosofia vichiana, che la vita non sia governabile completamente dall’attività teoretica da cui deriva il fatto che, in gran parte, gli esseri umani dipendono dalla prudenza. Oltre a esser prudenti, è necessario che siano in grado di argomentare, nel tentativo di render plausibili le azioni alle quali sono favorevoli partendo da premesse considerate comuni. È vero, infatti, che la vita pubblica è priva di certezze, ma questa non è

80

Cfr. Battistini, I topoi autobiografici della Vita di Vico, in Idem, La sapienza retorica…, cit., p. 50. 81 Cfr. Aristotele, Retorica, I, 9, 1368a, a cura di Marco Dorati, Oscar Mondadori, Milano, 1996, pp. 77-79.

(32)

una buona ragione per ritenerla totalmente irrazionale. Di fronte alla contingenza è possibile ragionare e lo si può fare attraverso la prudenza, l’onestà e, soprattutto, l’eloquenza .

L’importanza che la dimensione retorica ricopre nel pensiero vichiano richiama l’attenzione sul rapporto con il primo dei suoi «quattro auttori». Prima ancora di ricevere la qualifica di «primo auttore», Platone è presentato da Vico in toni entusiastici, come colui al quale si rivolge, insoddisfatto della metafisica

aristotelica82, trovandovi l’intuizione di «meditare un diritto ideale eterno»83. È

banale ricordare quante volte, da questo momento in poi, Vico citi Platone e quanto, più ancora dei riferimenti espliciti, valga lo sfondo platonico presente nella maggior parte delle pagine vichiane. Ci si può stupire del fatto che Vico non faccia mai riferimento alla condanna platonica della poesia contenuta nella

Repubblica e ancor di più lascia perplessi il mancato accenno alla polemica nei

confronti della retorica, presente nel Gorgia e alla complessa discussione del

Fedro84. Ora, come si sa, il problema della retorica in Platone è molto complesso:

82 Cfr. Vico, Vita.., cit., p. 14. 83 Op. cit., p. 15.

84

Non pretendiamo qui di risolvere definitivamente questa problematica, ma possiamo ritenere che due soluzioni sianoquanto meno plausibili: la prima è che Vico non si sia posto il problema volendo vedere in Platone il simbolo della filosofia e desiderando accentuare il più possibile questo ruolo; la seconda (e, forse, più convincente) è che il silenzio sia dovuto al fatto di aver ricevuto una versione di Platone mediata dalla tradizione latina, in particolare da Cicerone che, in qualche maniera, ha tentato di sviluppare le allusioni presenti nel Fedro sulla retorica ideale che andrebbe a coincidere con la filosofia. Una simile interpretazione è stata, in parte, confermata da Ernesto Grassi, il quale propone un’interessante lettura del dialogo platonico, finalizzata a mettere in luce lo stretto legame presente tra retorica e filosofica tentando di riavvicinarle, contro chi ha voluto vederne solo la separazione. Ciò gli permette di inserire Platone all’inizio di un percorso che conduce a Vico, attraverso i Latini, prima, e l’Umanesimo, poi. Cfr. Grassi, Retorica e filosofia, in Idem, Vico e l’umanesimo, pp. 105-110. (Il medesimo saggio è presente anche in Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, trad. di Roberta Moroni, a cura di Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, pp. 55-77). Anche Mario Papini fornisce qualche conferma a riguardo: egli, infatti, si domanda se la conoscenza di Platone, da parte di Vico, sia stata diretta oppure no. In breve: tenendo presente la sua imperfetta conoscenza della lingua greca, si potrebbe supporre che abbia fatto riferimento al corpus latino dei

(33)

nel Gorgia si ha, infatti, una critica decisa che conduce addirittura a definire la retorica come εἴδωλον di una parte della politica, in quanto, essendo una forma di adulazione dell’arte corrispondente (la politica, appunto) ne ha le sembianze, senza

possederne la sostanza85. Nel Fedro la situazione si complica ulteriormente: alla

polemica nei confronti della persuasione operata da Lisia segue una sorta di riavvicinamento fra retorica e filosofia, sulla base di questa tesi: affinché un discorso risulti davvero persuasivo dev’essere in possesso della verità, la quale, però, appartiene solo alla filosofia, intesa come dialettica, dunque, a rigor di logica, si dovrebbe concludere a favore di un’identificazione fra retorica e filosofia. In realtà una tale presa di posizione sarebbe non solo scorretta, ma anche assai semplicistica e riduttiva, perché priverebbe la riflessione platonica di tutta la sua problematicità.

Certamente Platone condanna più che la retorica in sé, la retorica malata e corrotta della sua epoca, messa in pratica dai sofisti (dunque una particolare

manifestazione) ma, attraverso questa polemica, sembra alludere86 alla possibilità

di una retorica ideale che si identifichi con la dialettica e, in definitiva, con la filosofia.

dialoghi, cioè un insieme di luoghi rintracciabili in compilazioni. Questo metodo avrebbe determinato una conoscenza indiretta. Queste osservazioni ci forniscono qualche utile indicazione per affrontare l’analogo problema per la conoscenza di Aristotele. Cfr. Papini, Il geroglifico della storia. Significato e funzione della dipintura nella

“Scienza nuova” di G. B. Vico, Cappelli, Bologna, 1984, p. 43.

85

Cfr. Platone, Gorgia, a cura di Angelica Taglia, trad. di Federico M. Petrucci, Einaudi, Milano, 2014, p. 63. 86 Sulla possibilità di leggere alcuni passi dei dialoghi platonici e, in particolare, il 261e7-262c4 del Fedro come allusione al buon retore, attraverso la descrizione e la condanna di quello cattivo, si veda Bruno Centrone, Fedro

261e7-262c4,o l’inganno della buona retorica, in Il Fedro di Platone: struttura e problematiche, a cura di Giovanni

(34)

Tornando a Vico, verrebbe quasi da credere che egli abbia voluto concentrare l’attenzione esclusivamente sulla possibilità di una retorica positiva, identificabile con la conoscenza, lasciando, quindi, impliciti i riferimenti alle retoriche cattive, per le quali varrebbero, probabilmente, le stesse critiche di Platone. Diversamente non si spiegherebbe perché uno studioso così attento alla dimensione pedagogica e morale della retorica non tenga conto delle condanne mosse a quest’ultima in analogo contesto e, per di più, da parte del primo dei suoi modelli. In ogni caso, la cosa più opportuna da fare è lasciare a Platone il ruolo che il filosofo napoletano gli ha voluto assegnare, riservandoci, tuttavia, la possibilità di suggerire delle linee interpretative sulla base di alcuni indizi testuali.

C’è ancora un’altra opera dalla quale non si può prescindere se si vuole tentare di risalire alle radici del pensiero vichiano: si tratta del trattato Del Sublime dello

Pseudo-Longino87. Vico, infatti, «vuole essere, al pari di Longino, retore e insieme

filosofo: o, piuttosto, vuol essere filosofo della retorica. Sedendo, a Napoli, proprio sulla cattedra di Retorica (quella cattedra tanto poco considerata, come egli stesso, non senza amarezza ricorda nella propria autobiografia) egli sembra raccogliere una sfida: mostrare che il pensiero procede lungo sentieri oscuri e opachi e che la chiarezza si guadagna al prezzo di una dura lotta per mezzo delle parole e contro le

87 Senza ricostruire le complesse vicende relative all’attribuzione dell’anonimo trattato Del Sublime, è il caso di segnalare l’errore di Vico, convinto che l’autore fosse Dionigi Longino, un retore del III secolo d.C., sulla cui esistenza storica non sembra avere alcun dubbio. La confusione può esser facilmente spiegata se si pensa che le prime vere incertezze a riguardo si hanno nel corso del XIX secolo, quando, dopo una serie di dibattiti intorno all’opportunità di attribuire lo scritto a Dionisio d’Alicarnasso, oppure a Cassio Longino, si decide di collocarlo in età augustea attribuendolo allo pseudo Longino. A questo proposito si veda: G. Martano, Nota sulla presenza del

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