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Dal verum ipsum factum all’integrazione di verum e certum

3. Dalle intuizioni giovanili al pensiero maturo: la riflessione sul linguaggio come filo conduttore

3.1. Dal verum ipsum factum all’integrazione di verum e certum

376

Cfr. op. cit.,, p. 258.

Abbiamo già detto come all’interno dell’opera vichiana sia difficile isolare i singoli elementi e considerarli al di là della stretta interconnessione col resto. Questa osservazione diventa ancora più vera quando ci si accosta alla questione del linguaggio. Quest’ultimo, infatti, non è oggetto fra gli altri, bensì ciò che tiene insieme e anima le riflessioni che vanno dal 1699 al 1744, dando loro unità, senza, tuttavia, oscurare l’importanza di questioni più circoscritte che, anzi, proprio in quell’insieme riscoprono il loro valore.

Il linguaggio – inteso nella sua matrice retorica – è, piuttosto, l’asse centrale intorno al quale la filosofia di Vico si va a costituire. La cosa importante per non perdersi fra le molte suggestione a cui Vico dà espressione nella fase più matura del suo pensiero è capire quale sia ruolo spettante al linguaggio e tenerlo a mente muovendosi da una questione all’altra.

Esso «non è solo uno degli elementi necessari che caratterizzano lo sviluppo

civile dell’uomo, ne è piuttosto il presupposto storico e il fondamento teorico»378

perché ogni «attività umana, conoscitiva o pratica, non può costituirsi senza un

linguaggio»379.

Dopo aver parlato, nel precedente capitolo, del particolare compito che gli è assegnato nel De antiquissima, dobbiamo spostare l’attenzione agli anni che separano questo scritto dalla prima versione della Scienza nuova dove il suo carattere di imprescindibilità emerge nella maniera più evidente. Parlando del

378 Gianfranco Cantelli, Mente corpo linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito, Sansoni, Firenze, 1986, p. 285.

capolavoro vichiano non si può prescindere da una precisazione preliminare e cioè il fatto che la storia del mondo lì narrata riguarda solo i gentili, non il popolo ebraico, il quale, essendosi mantenuto fedele alla vera religione, non conosce il

processo di corruzione dei costumi e rimane sempre intatto e identico a se stesso380.

Ci sarebbe davvero molto da dire sul ruolo svolto da questa distinzione, su come essa possa essere interpretata, ma anche, più in generale, sul rapporto di Vico con l’ebraismo e su quanto esso costituisca un riferimento imprescindibile per la

Scienza nuova. In questo contesto, naturalmente, non ci è consentito approfondire

il problema, ma dobbiamo almeno insistere sul fatto che alcuni dei temi vichiani (e, primo fra tutti, quello che riguarda il nesso presente tra il fare e il linguaggio, nonché lo sfondo biblico di esso) trovano nella mentalità ebraica un costante rinvio381.

Il periodo che conduce dalle opere giovanili alla Scienza nuova è caratterizzato da un importante mutamento di prospettiva proprio per ciò che concerne la questione del linguaggio. In quegli anni, infatti, riflettendo con spirito autocritico sul suo percorso intellettuale, Vico rifiuta il presupposto della sapienza riposta e accoglie, invece, l’ipotesi di una «sapienza volgare» non abbandonando, però, lo strumento dell’etimologia e, quindi, la fiducia nei confronti del linguaggio. E imprescindibile rimane anche il legame del linguaggio con il fare e, quindi, con il sapere umano. Nella Scienza nuova, anzi, questo «fare» si caratterizza

380

Cfr. Amoroso, Scintille ebraiche, cit., p. 78. 381 Cfr. op. cit., p. 66.

ulteriormente e va a coincidere con la costruzione del mondo civile382 . Il passaggio dal costruire matematico a quello civile può avvenire, grazie alla scoperta vichiana di una scienza che «procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o’ l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d’intorno alle

faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superfici e figure»383.

La svolta implicita in questo cambio di prospettiva è quella che riguarda il principio del verum-factum. Grazie a un’attenta e critica riflessione sul secondo dei due termini, Vico riesce a trovare quel maggiore grado di «realità» rispetto a quello

concepito nel De antiquissima, nella sostituzione di esso col certum384. Così

facendo si sottolinea una questione molto importante che riguarda lo statuto del vero, poiché, come si può capire dalla degnità sopra citata, esso viene adesso inteso secondo una concretezza maggiore rispetto alla concezione del 1710. L’integrazione di vero e certo dev’essere letta tenendone presente un’altra, che le è intimamente connessa: quella che avviene fra filosofia e filologia. Tramite questo connubio, Vico crede di aver individuato «la terza via, mai percorsa, alternativa sia alla critica “erudita”, cieca e dispersiva, sia alla critica “metafisica”, astratta e

382

Per tenerci in guardia da pericoli di forzature testuali, in cui, nello studiare un autore come Vico, non è così difficile imbattersi, possiamo ricordare, con Cristofolini, che è sempre meglio parlare di costruzione «civile» che «storica», visto che da nessuna parte Vico scrive che l’uomo fa la storia, ma parla sempre di «mondo civile». ( Cristofolini, Vico pagano e barbaro, cit., p. 15 ) La distinzione è sottile, perché poi, di fatto, quel mondo civile procede storicamente, ma è decisivo per tenersi al riparo da interpretazioni improprie.

383

Vico, Principi di scienza nuova, cit., p.

384 Chi, a proposito della Scienza nuova, continua a parlare di verum-factum fa qualcosa di improprio, perché la formulazione del De antiquissima «non ricompare nell’impianto assiomatico né in altri luoghi delle tre redazioni della Scienza nuova» ( Facciamo ancora riferimento a Cristofolini, Vico pagano e barbaro, cit., p. 15 ). A quella conversione, infatti, Vico si limita a richiamarsi in pochi luoghi ( come viene sottolineato in Amoroso, Introduzione

nebulosa»385. Ciò significa demolire, rispettivamente, la «boria delle nazioni» e la «boria dei dotti», ma vuol dire anche aver trovato una base «epistemologica» abbastanza valida per poter parlare in maniera appropriata di una nuova scienza. Infatti, il problema, fino a quel momento, è stato proprio la mancanza di una tale arte critica, mentre adesso, finalmente, «entrando nella ricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime (nelle quali deono correre assai più di mille anni per potervi provvenir gli scrittori d’intorno ai quali la critica si è finor occupata), qui la filosofia si pone ad esaminare la filologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti così della pace come della guerra de’ popoli) […] e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni: talché, per quest’altro principale suo aspetto,

viene questa Scienza ad esser una filosofia dell’autorità»386. Si noti come la

congiunzione di filosofia e filologia avvenga dopo un significativo e decisivo mutamento semantico che, da solo, basterebbe a rendere ragione della profonda rivoluzione di cui è portatore il pensiero vichiano. Il termine «filologia», infatti, indica lo studio di tutte le cose umane, il che è indicativo dell’intima connessione fra contesto umano e contesto linguistico.

Non occorre sottolineare come in tutto ciò stia agendo, ancora, in profondità, la retorica. Non solo essa ha reso possibile il cammino che ha condotto fin qui e ha fatto maturare una consapevolezza capace di dare origine a scoperte di tale

385

Battistini, Note a Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 617. 386 Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 53.

spessore, ma proprio in virtù di essa ci è consentito affermare che la connessione di filologia e filosofia, realizzata solo a partire dal 1725, è ciò che, in forma embrionale, è presente a partire dai primissimi testi e che Vico stesso, più o meno consapevolmente, lascia emergere continuamente nella sua stessa attività. L’integrazione di verum e certum può essere fatta valere anche da un punto di vista stilistico-formale (e qui ricordiamo, ancora, la stretta connessione di forma e contenuto nella filosofia vichiana) in un senso che ci è suggerito da Battistini, il

quale, rifacendosi a una formula che Eliot riferisce ai poeti inglesi387, ci fa notare la

messa in atto da parte di Vico di quel processo tipicamente barocco, per cui i concetti vengono presentati nel loro corrispettivo plastico «per il bisogno di

certezze da assimilare attraverso una procedura visiva»388.

In breve, anche Vico nella pratica delle sue opere (e nella Scienza nuova più che mai) invera le immagini con una base concettuale molto forte e accerta i concetti grazie a un apparato immaginifico molto consistente .

E, d’altra parte, adesso, nella Scienza nuova, non si limita a teorizzare questo principio, ma lo attua in maniera continua, mostrando tutti i livelli sui quali le due discipline si intersecano. Naturalmente, per capire in che maniera si vadano a identificare vero e certo, dobbiamo comprendere a cosa, precisamente, ci riferiamo coi due termini in questione. Possiamo ricorrere alle definizioni offerteci dallo

387 L’espressione in questione è «appercezione sensuosa del pensiero» (citata da Battistini, Introduzione a Vico,

Principi di scienza nuova, cit., p. 19.)

stesso Vico, il quale suddivide le ventidue degnità generali389 in quelle contenenti i «fondamenti delle confutazioni» (le prime quattro) e quelle che rappresentano «una

sorta di pars costruens»390 e all’interno di queste ultime dedica le prime dieci ai

«fondamenti del vero», le restanti sette ai «fondamenti del certo».

Compito delle prime è meditare sul mondo civile «nella sua idea eterna», mentre le altre «si adoperanno a veder in fatti questo mondo di nazioni quale l’abbiamo

meditato in idea»391. Questa suddivisione non deve trarre in inganno, perché, in

realtà, i due gruppi vengono mostrati nel loro costante intreccio e le degnità

dedicate al vero ne parlano sempre nella sua relazione col certo392. La

complementarità fra filologia e filosofia viene, per esempio, confermata nella successione fra VI e VII degnità, dedicate rispettivamente alla filosofia e alla

legislazione393. Ancora più vicini appaiono vero e certo nella IX degnità: «Gli

uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d’attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla

coscienza»394. La prima, infatti, «considera l’uomo quale dev’essere»395, la seconda

«qual è, per farne buoni usi nell’umana società»396

, infatti «la filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell’umano

arbitrio, onde viene la coscienza del certo»397 (degnità X). Attraverso il legame di

389

Le degnità generali sono quelle che riguardano la nuova scienza nel complesso, mentre quelle particolari se ne occupano «partitamente» ( cioè, dal punto di vista delle singole materie ).

390 Amoroso, Introduzione alla Scienza nuova…, cit., p. 59. 391 Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 138.

392

Cfr. Amoroso, Introduzione alla Scienza nuova…, cit., p. 61. 393 Cfr. Battistini, Note a Vico, Princìpi di Scienza nuova, cit., p.656. 394 Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 132

395 Op. cit., p. 130 396

Op. cit., p. 131. 397 Op. cit., p. 132.

certo-volontà-coscienza (a cui corrisponde quello di vero-intelletto-scienza)398, Vico fa valere ancora il ruolo gnoseologico della retorica che, come fa notare Battistini, è recuperato dagli autori secenteschi, con particolare riferimento a

Sforza Pallavicino399.

L’intersezione fra vero e certo si coglie non solo nel gruppo di degnità dedicate al vero, ma anche in quelle che, dalla XVI in poi, si occupano del certo. Già la prima di esse ci pone di fronte a una novità alla quale bisogna accostarsi più di una volta per poterla comprendere e che va davvero a rivoluzionare le credenze fino a quel momento considerate vere. Le «tradizioni volgari» scrive Vico al cv. 149 «devono aver avuto pubblici motivi di vero» e il «grande lavoro di questa Scienza» sarà proprio «ritruovarne i motivi del vero, il quale col volger degli anni e col

cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso»400.

L’integrazione di filosofia e filologia consente a Vico di stabilire la reale novità della sua scienza: quella «nuova arte critica» a cui, finora, nessuno ha saputo accostarsi. Essa è, nello stesso tempo, ciò che rende possibile la nascita della nuova scienza e che ha valore proprio all’interno di essa. Sulla nuova arte critica si reggono le pretese della scienza vichiana di essere considerata un’autentica

scienza401. Sebbene Vico ne sottolinei la novità solo adesso - nella Scienza nuova -

398 Cfr. Amoroso, Introduzione alla Scienza nuova…, cit., p. 62, dove ci viene ricordato anche un aspetto molto importante della degnità X: il rapporto tra vero e certo è colto non più nell’aspetto della loro produzione, ma in quello dell’integrazione, la quale è, quindi, simultanea ( mentre la produzione avviene in momenti differenti ) ed è ciò che propriamente si compie nella nuova scienza. Proprio per questa ragione il termine «legislazione» viene sostituito con «filologia».

399 Cfr. Battistini, Note a Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 657. 400 Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 134.

401

Cfr. Robert A. Caponigri, Filosofia e filologia: la «nuova arte critica» di Giambattista Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiano», XII-XIII, 1982-1983, p. 29.

i primi principi della nuova arte critica sono presenti già altrove e, in parte, possiamo vedere la dimostrazione di ciò nel percorso fin qui delineato.

Il primo abbozzo si ritrova certamente nel De ratione, ma, come abbiamo cercato di far emergere, è nel De antiquissima che ne viene fissata una prima forma, attraverso la scoperta del verum-factum e l’insistenza sullo strumento dell’etimologia, solo nel Diritto universale, però, se ne possono osservare in

maniera abbastanza precisa i lineamenti402. In quest’insieme di scritti a cui Vico dà

luce fra il 1720 e il 1722, infatti, uno degli scopi è quello di far emergere le ragioni per le quali bisogna preferire al metodo dimostrativo dei Greci, quello dei giureconsulti romani che, nell’interpretare il diritto, agiscono con un metodo che può essere considerato, secondo alcuni, un degno antecedente della nuova arte critica, in quanto (sebbene in un contesto ancora molto circoscritto) appaiono i

principi su cui essa si basa, cioè tempo e linguaggio403. Procedendo lungo questa

strada, bisogna tenere ancora a mente ciò che avviene nella «scienza nuova in forma negativa» e nella Scienza nuova prima, dove i principi in questione, non solo sono presenti, ma agiscono già in maniera evidente, per poi manifestarsi con

significativi mutamenti nella Scienza nuova seconda404.

La Scienza nuova rimane, quindi, il luogo nel quale la nuova arte critica si

muove con la maggiore sicurezza rendendo possibile l’inveramento del certo e l’accertamento del vero. Così facendo, nell’impianto complessivo della Scienza

402 Per questa ricostruzione cfr. op. cit., p. 31. 403

Cfr. ibidem.

nuova, Vico agisce lasciando parlare tutti quei «rottami di antichità» che scopre

lungo il suo percorso a ritroso in cerca dei più antichi popoli pagani. Oggetto della nuova arte sono, quindi, le testimonianze più antiche della vita umana, che Vico

interpreta con metodi filologici riempiti di speculazioni fantasiose405. E lo può fare

perché essi sono i prodotti degli uomini di precise epoche storiche che, attraverso quel sistema di segni, hanno espresso una particolare mentalità che, non solo può e deve essere ricostruita, ma senza la quale non saremmo in grado di comprendere la nostra natura razionale.

È fuor di dubbio che l’elemento al quale Vico deve questo gusto verso il vero concreto e visibile sia la giovanile formazione retorica. La nuova arte critica, di cui finora abbiamo discusso, si pone, quindi, come alternativa «sia alla critica

“erudita”, cieca e dispersiva, sia alla critica “metafisica”, astratta e nebulosa»406

.

Essa agisce conciliando universale e particolare407 e si distingue profondamente

dalla «critica» cartesiana408.

Non deve, certo, trarre in inganno l’utilizzo della stessa terminologia, il che è, del resto, sottolineato dallo stesso Vico attraverso l’introduzione dell’aggettivo «nuova». Eppure non dev’esser stato facile per tutti cogliere il significato dell’intreccio di filosofia e filologia. Non si spiegherebbe diversamente il fatto che

405 Cfr. Eric Auerbach, San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, De Donato, Bari, 1970, pp. 58-59. Auerbach si sofferma, giustamente, sul fatto che all’epoca di Vico non c’era grande disponibilità di materiale: non solo erano poco e male conosciute la preistoria e le civiltà orientali, ma anche il Medioevo era piuttosto sconosciuto. «Rimarrà sempre un fatto memorabile» prosegue lo studioso «che il genio di un uomo abbia potuto giungere a tali scoperte attingendo a un materiale così insufficiente».

406 Battistini, Note a Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 617.

407 Ed ecco, ancora, il ripensamento di quel rapporto di particolare e universale - recuperato dal retroterra aristotelico - cui abbiamo accennato già nel primo capitolo e del quale, adesso, si possono cogliere gli sviluppi più ingegnosi. 408 Cfr. ibidem.

Vico si sia ritrovato a dover rispondere all’accusa di aver costruito un sistema di diritto naturale su principi diversi da quelli seguiti dai filosofi. La risposta che rivolge al suo accusatore suona così: «Se egli pensa ciò […] intende una delle seguenti due cose: o ignorando l’opinione dei dotti, ritiene, in accordo con quella volgare, che io non sia un filosofo ma un maestro di filologia, e precisamente di eloquenza, poiché crede, in accordo con la convinzione volgare, che l’eloquenza sia cosa ben diversa dalla filosofia; oppure egli non ha affatto letto l’opera, il cui assunto è sempre quello di riportare la filologia di tutte quelle cose che dipendono dalla libera scelta dell’uomo, ossia il linguaggio, i costumi, e le paci e le guerre della storia, alla filosofia (come è giusto, e nessun filosofo l’ha mai tentato finora) e, muovendo da ben noti principi filosofici, ricondurre la filologia a scienza esatta»409 .

Quando filosofia e filologia, vero e certo, si separano si hanno quei due

«oscuramenti spirituali»410 che sono la «boria dei dotti» e la «boria delle

nazioni»411. Relativamente all’impostazione che le viene data sulla base

dell’integrazione di verum e certum e, quindi, di filosofia e filologia, qualcuno ha

ritenuto di dover definire la Scienza nuova una «semiotica trascendentale»412.

Integrare verum e certum tenendo a mente la dimensione della topica significa

409 Vico, Vici vindicae, in Idem, Opere a cura di Cristofolini, cit., p. 346. 410 Trabant, La scienza nuova…, cit., p.11.

411 È interessante notare come queste due degenerazioni possano essere accostate (seppure con le ovvie distinzioni) a quelle di cui abbiamo parlato nel primo capitolo in relazione alla prima fase del pensiero vichiano. La prima deriva, infatti, dall’ignoranza dei fatti empirici e consiste nell’universalismo filosofico-razionale, la seconda è causata dall’assolutizzazione del particolare dovuta all’ignoranza dell’universale filosofico. Su ciò si veda Trabant, op. cit., p.11 che legge le due condizioni in chiave contemporanea, osservando che si tratta, rispettivamente, di

logocentrismo ed etnocentrismo.

segnalare un punto molto importante che consente a Vico di dire la sua contro le pretese dei dotti del suo tempo e di aver dimostrato quanto sono vani i tentativi dei filosofi della sua epoca volti a purificare la filosofia da qualsiasi presupposto storico o poetico, da qualsiasi residuo «materiale».

La forza di tale integrazione permette di vedere ogni prodotto umano come il riflesso di una società che dava voce, tramite esso, alla propria verità. Dicendo questo, bisogna prestare molta attenzione a non cadere nell’errore di dare al vero la priorità sul certo. Ciò significherebbe perdere di vista il fatto che l’identificazione è completa e non lascia spazio a confronti fra i due termini che finirebbero per farne prevalere l’uno o l’altro. Se non ci si riesce a svincolare da questa prospettiva, ci si trova ancora nell’ambito delle pretese della metafisica tradizionale, la quale ha

«con il concetto razionale la pretesa di determinare il reale»413. Per Vico assume,

invece, un’importanza fondamentale ciò che si palesa e si mostra, ciò in cui ci si imbatte e che non costituisce oggetto privo di significato, ma simbolo ed espressione della verità di un popolo. Si ha un vero e proprio svelamento del reale nella storia che ci mette di fronte a una verità diversa da quella dedotta dai processi

razionali e logici414. La definizione migliore per questa verità ci pare ancora quella

che rinvia all’ambito della retorica opportunamente rivisitata. Siamo ancora di fronte, infatti, a delle parole che scorrono, come recita la definizione delle

Institutiones oratoriae, solo che le parole non sono quelle proprie del retore, ma

413 Grassi, G. B. Vico filosofo epocale, in Aa. Vv., Giambattista Vico Poesia Logica Religione, Morcelliana, Brescia, 1986, p. 106 .

quelle che possono essere considerate tali sono in un senso ampliato che è, poi,