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L’intuizione della retorica come disciplina armonizzante

Per comprendere quale sia l’atteggiamento mentale che conduce Vico a compiere ciò che tenteremo di mostrare in questo paragrafo occorre, anzitutto, far

riferimento a quello che avviene nella Scienza nuova, dove si assiste al progetto di una sintesi sistematica di filosofia e filologia, messa in atto nell’ambito del diritto

universale132. La ragione per la quale può essere opportuno tenere a mente la

maniera di procedere del capolavoro vichiano sta nel fatto che un procedimento molto simile (tendente alla sintesi e all’inclusione) è presente già a partire dagli anni giovanili. Particolarmente esplicative risultano a tal riguardo ancora le parole di Battistini secondo il quale «merito di Vico è stato quello di avere saputo fondere vettori tanto eterogenei in una sintesi di raro equilibrio, governata in ogni

momento dalle direttive liberali ma ferme della retorica»133.

L’atteggiamento tendente alla sintesi, attuandosi anche al di fuori della Scienza

Nuova, non solo rappresenta un po’ il filo conduttore del modo di fare filosofia

vichiano, ma va a interessare tutti (o molti) degli autori del passato di cui si è parlato fin qui e sui quali viene effettuato un lavoro non molto diverso da quello che è esplicitamente indirizzato a Platone, Tacito, Bacone e Grozio. Prima del

1725134 questa tendenza rimane, per lo più, implicita, ma non per questo meno

rilevante.

Il collante di questa intricata rete di rapporti è rappresentato dall’idea che si possa parlare di cultura, di sapere, solo di fronte a una visione d’insieme, che abbia analizzato attentamente i singoli argomenti e che, dopo averli rielaborati, si sia resa

132 Cfr. L. Amoroso, Introduzione…, cit., p. 20.

133 Battistini, Note a Vico, In morte di Donn’Angela Cimmino, in Idem, Opere, a cura di Battistini, p. 1438.

134 La tendenza alla realizzazione di una sintesi sistematica è presente già nella Scienza nuova prima, tuttavia per una mente inclusiva, come quella di Vico, l’ordine della trattazione risultava ancora troppo schematico e, dunque, non soddisfacente. Cfr. Battistini, Note a Vico, Scienza nuova (1725) in Idem, Opere, a cura di Battistini, cit., pp. 1754-1755.

in grado di individuarne i punti dai quali far partire i legami. Così facendo, Vico raccoglie i frammenti di un patrimonio culturale molto vasto e li riporta alla luce

attraverso la concezione di una disciplina inclusiva e discorsiva135. Non è difficile

comprendere, sulla base di quanto detto finora, che un’esigenza del genere può essere realizzata in virtù della comune origine e finalità dei diversi ambiti del sapere contro ogni particolarismo e tecnicismo. L’efficacia di tale prospettiva è garantita dal fondamento retorico.

Attraverso il recupero e la rilettura dei classici, Vico trova un modello alternativo a un’epoca in cui ci si muove sempre di più verso la settorializzazione del sapere e, in risposta a ciò egli sente il bisogno di far valere la convinzione che ci sia una base comune a tutte le discipline. Nella fase giovanile del suo pensiero questa necessità si realizza come una sorta di tensione all’accumulo di conoscenze. Si tratta, però, di quello che, con un’espressione ossimorica, potrebbe essere definito come un accumulo selettivo, secondo quanto risulta dalle pagine

dell’autobiografia136

.

Il momento in cui tutto ciò inizia ad acquisire ferma consapevolezza coincide, però, con la nomina di Vico a professore di Eloquenza all’Università di Napoli e ciò è rintracciabile inequivocabilmente nelle prolusioni accademiche. L’esigenza inclusiva e armonizzante, dopo essersi fatta sentire in Vico fin dagli anni della formazione, viene messa in pratica nelle prolusioni universitarie (dalla prima del

135 Cfr. Mooney, Vico e la tradizione…, p. 45.

136 A più riprese, nelle prime pagine della Vita, Vico mostra di aver privilegiato dei rami disciplinari rispetto ad altri e, all’interno di ognuno di essi, solo alcuni autori, nei confronti dei quali il suo desiderio di conoscenza si fa sentire in tutta la sua forza.

1699 fino all’ultima del 1737) e argomentata sia all’interno di queste, sia nelle opere più specificamente filosofiche.

L’idea di fondo è che, al di là delle singole discipline, ci sia una comune impostazione che le rende valide e proficue. Si tratta di quella che istintivamente si potrebbe considerare un’ulteriore disciplina - la Retorica -, ma della quale si può parlare opportunamente solo comprendendo che essa non si aggiunge in un secondo momento a un apparato culturale già formato, bensì lo attraversa e lo anima dall’interno in ognuna delle sue parti. Soltanto un metodo di tipo retorico può davvero valorizzare i diversi campi del sapere e, nello stesso tempo, evidenziarne la comune origine (cosa che verrà fatta in maniera assolutamente inedita nella sezione della Sapienza poetica della Scienza Nuova ). A conferma di ciò possiamo ricordare che Vico ha ben compreso l’utilità della retorica anche per la diffusione e la riuscita di opere scientifiche, avendo chiaramente presente la

grandezza letteraria degli scritti, per esempio, di Galileo137. Ciò che permette di

accomunare discipline così diverse fra loro in un unico orizzonte è, in fondo, la loro stessa derivazione umana e considerando l’uomo come una creatura dotata di

una triplice natura - mentale, corporea e linguistica -138 si può capire perché proprio

la retorica abbia una parte tanto importante nel preservare dall’eccessiva frammentazione disciplinare che andrebbe a riflettersi anche sull’uomo stesso.

137 Cfr. C. Vasoli, op. cit., p. 192

138 Su questo punto (che affronteremo meglio in seguito) sono state scritte pagine molto esplicative, fra le quali si possono ricordare, per esempio, quelle di Gianfranco Cantelli, Mente corpo linguaggio. Saggio sull’interpretazione

Non si deve dimenticare che alla base di tutto questo discorso c’è uno scopo civile mirante a scongiurare la possibilità che si formino gruppi appartati di intellettuali o scienziati che si gloriano di quelle che, solo impropriamente, potranno considerare loro scoperte, utili, in realtà, solo ad alimentare il loro orgoglio, senza alcun effetto benefico per la comunità e nemmeno per loro stessi. Da qui tutta l’attenzione per la giurisprudenza, disciplina nella quale davvero può ancora avere luogo la prudenza civile e ambito in cui certamente l’eloquenza può provare a raccogliere i suoi migliori frutti.

Rinchiudersi in una prospettiva settoriale e autoreferenziale genererebbe solo atteggiamenti autodistruttivi e a pagarne il prezzo più alto sarebbe la ricchezza della mente umana. Infatti, proprio la straordinaria e talvolta problematica ricchezza dell’uomo è il riferimento privilegiato di queste riflessioni vichiane. Alla deduzione scientifica, incapace di cogliere molte delle sfumature della complessità umana, incapace di rendere ragione delle passioni che hanno tanta parte nella formazione del mondo umano, Vico contrappone l’intuizione, che meglio ci

ricorda quel carattere unitario dell’uomo e della mente139

.

Adesso possiamo comprendere meglio cosa significhi che l’eloquenza è sapienza che parla e possiamo scoprire cosa abbia in più questa definizione rispetto ai precedenti classici. La concezione di «sapienza» è molto più elaborata, andando a configurarsi come una «saggezza dalle finalità enciclopediche che diviene

compito dell’oratore rafforzare»140

. Tutto ciò conferma la capacità di Vico di

attingere al disordine senza subirlo mai141, cogliendone, al contrario, tutta la

dinamicità. Ancora una volta il merito di ciò è tutto della retorica che non teme la molteplicità, essendo in grado di darle una forma.

Ecco perché Vico guarda con ammirazione ai tempi di Cicerone, quando essere

istruiti significava padroneggiare bene l’eloquenza142

.

Ma com’è possibile arrivare a possedere l’intero ciclo del sapere, senza cedere alle tentazioni particolaristiche? Quando si hanno avuti buoni maestri e, in aggiunta a ciò, la ferma volontà di arrivare alla sapienza, non è così difficile raggiungere quest’obiettivo. Se ciò non avviene è perché gli insegnamenti non sono stati ottimali, oppure non si è stati in grado di vedere l’orizzonte comune a tutte le discipline e ciò ha spinto a rivolgersi a ognuna di esse per ragioni diverse ma riconducibili sempre a prospettive troppo parziali.

Questo discorso viene formulato in maniera polemica nella sesta orazione (tenutasi nell’ottobre 1707) dove Vico, mostrando tutta la sua competenza a livello pedagogico, critica quegli adulti che indirizzano i figli allo studio di una particolare disciplina, il più delle volte per motivi utilitaristici e magari anche contro la loro volontà, ma «anche quando l’indole li porta verso esse, i genitori li inducono a trattarle con mani, come si suol dire, immonde senza l’indispensabile sussidio delle

140 Mooney, Vico e la tradizione…, cit., p. 45.

141 Cfr. Battistini, Introduzione a Vico, Opere, a cura di Battistini, cit., p. XXX- XXXI. Pur riferendosi alla Scienza

nuova, dove Vico si confronta col caos primigenio, l’osservazione può essere valida per il suo atteggiamento

complessivo, rendendo, così, ragione della sua abilità di muoversi fra un gran numero di nozioni, trasformando il tutto in un insieme di conoscenze omogeneo.

altre scienze»143. Qualche passo dopo, sempre nella stessa orazione, vengono individuati tre punti intorno ai quali ruota l’intero ciclo del sapere e diviene sempre più esplicito il legame con la retorica: si tratta della conoscenza, della virtù e, infine, proprio dell’eloquenza. Non esiste sapienza laddove non si conosca in modo certo, non si agisca in modo giusto e non si parli in modo adeguato. Infatti: «proprio queste sono le tre funzioni doverose della sapienza: mitigare con l’eloquenza la ferocia degli stolti, con la saggezza distoglierli dall’errore, colla virtù esser loro utili ed in tal modo aiutare con zelo, ciascuno secondo le proprie

forze, la società umana»144. Così facendo, i sapienti saranno non solo al primo

posto fra gli uomini, ma addirittura di poco inferiori agli dei. Questa concezione è esemplificata dal riferimento al mito di Orfeo e Anfione, i quali furono in grado di unire la saggezza all’eloquenza, spingendo gli uomini dalla solitudine ai legami sociali. Ed è proprio questo il fine complessivo degli studi, di fronte al quale gli scopi utilitaristici delle singole discipline palesano la loro pochezza, perché non c’è sapienza che possa dirsi veramente tale se non è in grado di giovare alla società umana. Infatti, è proprio la constatazione della corruzione dell’uomo a invitarci a considerare l’importanza del complesso delle arti e delle scienze.

Se fino a questo punto l’eloquenza ha rappresentato solo uno dei tre punti attorno ai quali far ruotare il sapere, adesso diviene l’argomento privilegiato e, con toni e contenuti che prefigurano già inequivocabilmente l’orazione dell’anno successivo - il De nostri temporis studiorm ratione - diviene, finalmente esplicito

143 Op .cit., p.770. 144 Op. cit., p. 774.

ciò che già a partire dalla primissima orazione si andava formando nella mente di Vico: «La sapienza, come spesso si è detto, consiste nella conoscenza delle cose divine, nell’esperienza delle cose umane, nella verità ed adeguatezza del linguaggio. È necessario, però, che quella parte di un corretto discorso, insegnata dalla grammatica, preceda in modo adeguato e vero il contenuto dottrinale

dell’orazione»145

. Il filosofo prosegue occupandosi dell’ordine con cui le diverse discipline devono essere apprese, ma addentrarsi in questa problematica significherebbe chiamare in causa temi che saranno oggetto privilegiato del prossimo capitolo.

Bisogna, però, aggiungere che la congiunzione di tutti gli studi, oltre ad avere una validità di fatto, presenta una serie di vantaggi anche nel loro apprendimento. Infatti: «Cosa vuol dire il fatto che a nessuno di solito, si frappongono più ostacoli che a chi si affretta? Che chi compie confusamente gli studi, si muove come in un labirinto e non va avanti. La via più breve di tutte è, infatti, certamente la retta e il pregio specifico dell’ordine è di racchiudere in breve spazio molte cose. Ma poiché tali studi sono per natura congiunti e disposti nell’ordine suddetto, spesso sono separati e confusi per difetto degli uomini e sembrano molti, mentre in realtà non

sono molti, ma si scoprirebbe che sono gli stessi moltiplicati»146. È anche e

soprattutto da questo punto di vista che lo sguardo al modello antico diventa un’impellente necessità, perché, come Vico dirà nel De ratione, presso i Greci un

145

Op. cit., p.776. 146 Op. cit., p. 782

unico filosofo era, da solo, un’intera università147

, mentre adesso è risultato necessario fondare diverse università, dove ognuno insegna materie di propria competenza. Quest’ultimo aspetto può essere un vantaggio, ma a esso corrisponde l’inconveniente che le arti e le scienze, anticamente comprese nella filosofia, si sono separate.

In quanto professore di retorica, Vico sente di dover affrontare questa situazione che avverte, quasi drammaticamente, come un problema. «Ma qualcuno potrebbe dire: “affrontare i pericoli, quando è necessario, è grandezza d’animo, ma quando non occorre, è temerarietà; che importa a te discutere argomenti che trattino di tutte le cose?” Nulla a me, Giovanni Battista Vico; ma mi interessa davvero in quanto professore di retorica, poiché i nostri sapientissimi antenati, fondatori di questa università degli studi, intesero che il professore di eloquenza dovesse, in modo sufficiente per il suo ufficio, essere colto in tutte le arti e scienze, affinché egli, nell’annuale orazione di apertura, esortasse i giovani studiosi a

coltivare ogni genere di arti e scienze»148. La cosa importante di

quest’affermazione è il legame che viene instaurato fra «la discussione di argomenti che trattino di tutte le cose» e l’eloquenza. Per fissare bene nella mente dei suoi lettori questo punto fondamentale, Vico ricorre a sua volta a espedienti retorici mostrando ancora una volta come sia in grado di intrecciare pratica e teoria oratoria. Infatti, attuando di nuovo quel precetto aristotelico che comandava di giustificarsi anticipatamente, prima che venga rivolta l’accusa, scrive poco oltre:

147

Cfr. Vico, De nostri temporis…, cit., p. 205. 148 Op. cit., p. 211.

«Mi si obietterà ancora che in queste questioni ho fatto troppo sfoggio di me, per avere abbracciato tutti gli studi della scienza e per avere, quasi fossi versatissimo in tutti questi, enunciate sentenze ad alta voce. Ma chi ciò mi opporrà, voglia, di grazia, considerare quali siano stati questi giudizi, cioè come una dottrina giovi o nuoccia, e in qual modo possa non nuocere. Questo genere di giudizi, di sentenze, può rettamente enunciare solo chi non conosca in modo egregio e particolare nessuna di queste discipline… e tuttavia le conosca egregiamente tutte. Chi in un sol genere di dottrina abbia applicate le sue energie e riposta tutta la sua vita, ritiene che quell’arte o quella scienza valga più di tutte le altre e sia sotto ogni rispetto la migliore, e l’applica a qualsiasi più disparato uso; forse per la debolezza

della nostra natura, per la quale ci felicitiamo di noi e delle cose nostre»149.

Seguendo il filo conduttore fin qui tracciato non si può fare a meno di richiamare l’attenzione su quella che è forse la più bella fra le prolusioni vichiane, il De mente

heroica che, pur essendo un testo molto più tardo di quelli di cui ci stiamo

occupando, si pone sulla loro stessa linea e testimonia una continuità di pensiero che, assumendo varie forme e declinandosi in varia maniera, non abbandona mai l’impostazione iniziale ma la ripropone con una maggiore forza.

Qui la mentalità inclusiva di Vico raggiunge esiti impensabili, tanto da accogliere «nel Pantheon degli “spiriti magni” anche Cartesio, collocato accanto a Galileo, Colombo e Grozio, ossia tra coloro che nella scienza, nella geografia, nel

diritto hanno aperto le nuove frontiere dell’ecumenismo»150

. In questa tarda orazione, Vico avverte in una forma nuova la necessità di costituire «un sistema organico del sapere in grado di collegare le singole competenze sino a formare un

corpo solo»151.

Un’altra appassionata insistenza su questi temi si ha nel breve testo de Le

accademie e i rapporti tra la filosofia e l’eloquenza (1737), in cui la

preoccupazione per la frammentazione del sapere si associa all’esortazione, rivolta alle Accademie, di coltivare un sapere che sia sviluppato in tutte le direzioni. Il modello è l’Accademia socratica, luogo «dov’egli con eleganza, con copia, con

ornamenti ragionava di tutte le parti dell’umano e divin sapere»152. Così,

riproponendo in questa sede il tricolon ciceroniano di eleganza, copia e ornamenti, Vico da un lato insiste sul rapporto dell’Accademia napoletana col suo modello antico, da un altro testimonia ancora una volta il ruolo imprescindibile

dell’eloquenza. Il modello socratico diviene il punto fisso a cui guardare153

, «perché fuori della di lui scuola si fece quel violento divorzio: che i sofisti esercitarono una vana arte di favellare, e i filosofi una secca ed inornata maniera

d’intendere»154

. La rottura fra sapienza ed eloquenza è da imputare, poi, ai commentatori arabi di Aristotele e in particolare ad Averroè, il quale, commentando le opere del filosofo greco, vi introdusse «una sorta di parlari ciechi

150.Battistini, Note a Vico, De mente heroica, cit, p. 1451. 151 Op. cit., p. 1452.

152 Vico, Le accademie e i rapporti tra la filosofia e l’eloquenza, in Idem, Opere, a cura di Battistini, cit., p. 405. 153 Si noti come, a questo punto, il modello ciceroniano è completamente capovolto: Socrate non è più causa della frantumazione del sapere, ma diviene unico possibile rimedio. Ciò testimonia ancora una volta la forza della messa in discussione vichiana anche contro l’autore che aveva sempre rappresentato un modello al quale ispirarsi.

affatto di lume, non che privi di ogni soavità di colore, una maniera sazievole di ragionare, perché sempre l’istessa della forma sillogistica. […] Tanto che, se io non vado errato, porto opinione che <se> ne’ nostri tempi l’eloquenza non sia rimessa nel lustro de’ latini e de’ greci, quando le scienze vi han fatto progressi uguali e forse anche maggiori, egli addivenga perocché le scienze s’insegnano nude affatto d’ogni fregio dell’eloquenza». Qui Vico, polemizzando contro i commentatori arabi, riprende un motivo tipico degli umanisti, da Petrarca a

Valla155 e, soprattutto, come dirà esplicitamente più avanti, fa partire da lì una linea

nella quale, seppur con le dovute distinzioni, verrà inserito anche Cartesio.

Contro questa tradizione bisogna recuperare il modello dell’accademia platonica

dalla quale uscì, per esempio, Demostene, «armato del suo invitto entimema»156 e

il cui stile, che procede con quello che Vico con un ossimoro, definisce «regolato disordine», affascina enormemente il filosofo, al punto da spingerlo ad accostare l’oratore greco al tanto ammirato Cicerone, il quale «professa essersi arricchito della felice sua copia, che, a guisa di gran torrente d’inverno, sbocca dalle rive, allaga le campagne, rovina balze e pendici, e, rotolando pesanti sassi ed annose querce, trionfante di tutto ciò che fecegli resistenza, si ritorna al propio letto della

sua causa»157.

155 Essi, in realtà, come ricorda Battistini e, prima di lui, Garin, si rivolgevano agli arabi avendo come bersaglio critico i logici inglesi. I rapporti tra Vico e l’Umanesimo, con particolare attenzione alla retorica, saranno approfonditi nel prossimo capitolo.

156 L’entimema è la forma di sillogismo più apprezzata da Vico, poiché, essendo privo della premessa minore, risulta particolarmente sorprendente. Su ciò è il caso di rinviare ancora alle note di Andrea Battistini.

Dopo aver fornito questi e altri esempi, Vico si rivolge ai maestri delle Accademie, esortandoli, quasi pregandoli, di «praticare quel precetto di Orazio, che, ristretto in tre versi, contiene tutta l’arte così in prosa come in versi di ben parlare: scribendi recte sapere est et principium fons: perché non vi è eloquenza senza verità e degnità, delle quali due parti componesi la sapienza. Rem tibi

socraticae ostendere chartae: cioè gli studi della morale, che principalmente

informano il sapere dell’uomo, nella quale, più che nell’altre parti della filosofia, Socrate fu divinamente applicato […] Verbaque provisam rem non invita

sequentur: […] perocché ad ogni idea sta naturalmente la sua propia voce

attaccata, onde l’eloquenza non è altro che la sapienza che parla»158

. È così proposto un vero e proprio programma correttivo contro i tecnicismi e la specializzazione di una cultura che sembra aver perso il riferimento alle proprie origini e, dunque, la possibilità di progredire realmente, perché magari essa riuscirà anche a raggiungere dei risultati, ma questi non avranno molto di umano.

Avendo presente questo terreno comune alle più diverse fasi del pensiero