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La triade di memoria, fantasia e ingegno e il ruolo della topica

2 Il confronto col cartesianesimo

2.2 La triade di memoria, fantasia e ingegno e il ruolo della topica

Da quanto detto finora possiamo capire perché il tipo di uomo che ha in mente Vico non possa essere ridotto a una creatura guidata esclusivamente dal buon senso e dalla pura ragione, come vorrebbero i cartesiani. Questa convinzione di fondo che apre la strada a una serie di riflessioni e a una visione assai complessa del mondo umano e del suo legame con la dimensione pedagogica e gnoseologica è consegnata alle pagine degli scritti giovanili, ma trova completa realizzazione solo in quelle della Scienza nuova.

L’individuo presentato da Vico si pone come alternativa rispetto a quello

cartesiano che nel Discorso sul metodo è molto simile a una «crisalide dalla quale (attraverso un processo catartico di liberazione da tutti i pregiudizi e anche da tutti i giudizi non sufficientemente fondati) uscirà la farfalla dell’io metafisico, libero e

sicuro»240. Per Vico, invece, l’uomo non approda a uno stato di libertà e sicurezza,

rimanendo sempre inevitabilmente legato ai sensi e a un mondo nel quale è possibile orientarsi solo a patto di accettare la propria limitatezza e di abbandonare la pretesa di intraprendere il «droit chemin» cartesiano. Il presupposto dal quale partire è che «in realtà tutto ciò che l’uomo può conoscere, come anche l’uomo

stesso, è finito e imperfetto»241, senza che ciò comporti il fatto di doversi rassegnare all’ignoranza scettica di tutto ciò che ci circonda. La speranza di vincere la lotta contro lo scetticismo è data dalla consapevolezza che possediamo delle

facoltà grazie alle quali è possibile stabilire dei nessi242 anche fra cose che

apparentemente non ci sembrano correlate. Tale visione non può, certo, concordare con quella proposta dal razionalismo cartesiano e su questo punto la rottura diviene davvero effettiva. La questione ruota intorno allo statuto del vero, concepito dai due filosofi in maniera totalmente diversa. Cartesio, fiducioso di poterlo raggiungere, crede che sia opportuno bandire tutti i «secondo veri». Arrivando a mettere da parte, non solo le conoscenze che ci provengono dai sensi (i quali non possono essere assolutamente ritenuti affidabili, dimostrandosi ingannevoli in più di una occasione), ma, addirittura, portando all’esasperazione il principio del dubbio, si trova a dover estendere l’incertezza anche alla conoscenza matematica, perché nulla esclude che ci sia un genio maligno che fa sì che io mi inganni anche su di esse.

Giungendo alla certezza data dal cogito, Cartesio crede di essere in possesso del primo vero, non più oggetto di dubbio, una verità «così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli

scettici»243. La speranza, che alla fine Cartesio vede realizzata, di possedere il

fondamento del sapere è considerata da Vico una pretesa completamente illegittima. Tale infondatezza è ciò che il filosofo tenta di mettere in luce nelle

241 Vico, De nostri temporis…, cit., p. 93. 242

Cfr. ibidem.

pagine del De ratione, non solo attraverso una messa in discussione di quanto Cartesio ha affermato, ma anche e soprattutto tramite la proposta di una concezione gnoseologica e pedagogica alternativa che consenta di ricavare una conoscenza pragmatica e inclusiva, rivolta all’uomo nella sua interezza e non solo alla nobile

ragione e che tenga conto ancora della tradizione ciceroniano-umanistica244. Vico è

consapevole delle critiche che può attirare questo suo progetto, tanto che, nel De

ratione immagina le possibili accuse dei «doctissimi homines»245 di fronte alla sua insistenza sull’importanza della prudenza civile. Essi certamente lo criticheranno per il fatto di creare non dei filosofi, ma dei cortigiani che si attengano all’apparenza più che al vero.

«Nulla di ciò» si difende Vico «li vorrei filosofi anche a corte, che curino la

verità quale appare e perseguano l’onestà quale tutti approvano»246. Ma certamente

i suoi avversari faranno fatica a convincersi e insisteranno sul fatto che sia meglio «produrre nella mente con argomenti reali quella forza che si accresce col ragionamento e da cui non ci si può mai svincolare, piuttosto che piegare l’animo con lusinghe del discorso e infiammata eloquenza, sfumate le quali, si ritorna di

nuovo al modo originario di sentire»247, a questo punto la risposta di Vico pone

l’accento sull’elemento che interessa anche a noi sottolineare: «che farci» si

domanda «se l’eloquenza ha da fare tutta non con la mente, ma con l’animo?»248

.

244 Cfr. Battistini, Note a Vico, De nostri temporis…, cit., p. 1321. 245

Idem, De nostri temporis…, cit., p. 136. 246 Op. cit., p. 137.

247 Vico, De nostri temporis…, cit., p. 137.

248 Ibidem. Per comprendere bene questo passaggio occorre ricordare la distinzione, presente nel De antiquissima, fra animus e mens. Il primo è ciò per cui sentiamo ( distinto dall’ anima, che è ciò per cui viviamo). La mens è, invece, il corrispondente latino di «pensiero». Cfr. De antiquissima…, cit., p. 104 e p. 110. Ora, non sarebbe molto

Gli spunti che conducono alla formazione di una complessa concezione psicologica dell’uomo devono essere ricercati nelle prime orazioni. Pur trattandosi soltanto di intuizioni sparse qua e là, ancora molto lontane dalla possibilità di essere considerate una teoria significativa nel suo insieme, i riferimenti a memoria, fantasia e ingegno risultano fondamentali alla corretta comprensione del pensiero vichiano, perché consentono di scorgere un’attenzione verso le facoltà non propriamente razionali che si situa molto lontano e che, giungendo fino all’ultima edizione della Scienza nuova, testimonia una continuità di pensiero degna di essere presa in considerazione.

Ora, poiché Vico ritiene che memoria, fantasia e ingegno siano delle «facoltà» dobbiamo anzitutto capire cosa indichi questa definizione. È Vico stesso a spiegarcelo nel Liber metaphysicus del De antiquissima, dove scrive: «Il termine

facultas è quasi la parola faculitas, onde poi si ebbe facilitas, vocabolo adatto a

significare la pronta immediata speditezza del fare ( faciendi solertia). Pertanto è

quella facilità per cui la virtù si pone in atto».249 Ma, come abbiamo accennato, i

riferimenti a memoria, fantasia e ingegno si trovano fin dall’orazione del 1699. A quell’epoca il giovane professore di Eloquenza parla di esse con i toni entusiastici e trascinanti tipici di quella fase e certamente più adeguati al genere dell’orazione; mentre lo stile più trattatistico e pacato del De antiquissima ci offre le definizioni più concise e assertorie, adeguate al contesto del breve trattato metafisico.

corretto affermare che l’affermazione del De ratione presupponga quella del De antiquissima, visto che quest’ultimo viene dopo cronologicamente. Ma si può, verosimilmente, affermare che la frase utilizzata per difendersi dai

«doctissimi homines» contenga in nuce la distinzione messa a punto l’anno successivo. 249 Vico, De antiquissima…, cit., p. 112.

Nella prima orazione la nostra attenzione viene anzitutto richiamata dal riferimento alla fantasia, che Vico descrive con toni esaltanti: «Ed invero quella facoltà di concepire immagini delle cose, che è chiamata “fantasia”, senz’altro dimostra e conferma la divinità della propria origine, producendo e facendo nascere nuove forme. Questa immaginò gli dei delle maggiori e minori genti;

questa immaginò gli eroi250; questa ora trasforma, ora collega, ora separa le

immagini delle cose; questa pone davanti agli occhi oggetti lontanissimi, abbraccia quelli lontani, svela cose ben nascoste, apre una strada attraverso luoghi impraticabili. Ma con che grande ed incredibile velocità! Ho appena detto Terra di Magellano e già voi l’avete tutta percorsa; ho appena pronunciato Nuova Zemblia e già vi siete arrivati; ho ricordato l’oceano e già l’avete attraversato a nuoto; ho nominato il cielo e già, per dirla col poeta, avete oltrepassato i “confini del

mondo”»251

.

Pur non essendo oggetto di una trattazione specifica all’interno di quel testo, la fantasia diviene, qualche anno dopo, presupposto della proposta metodica messa a punto nel De ratione: lo si vede dall’impostazione generale, ma anche da alcuni passi specifici, come per esempio quello in cui si esorta a educare i giovani che devono studiare la meccanica non attraverso le specie (termine che, ai tempi di

Vico, sta a indicare i simboli algebrici)252, ma attraverso le forme geometriche che

250

Non si può fare a meno di osservare in questo riferimento all’immaginazione degli dei e degli eroi un passaggio che ci riporta direttamente alle pagine della Scienza nuova, dove la fantasia dei primi uomini creerà prima gli dei, poi gli eroi. Pur essendo ancora lontana la grande scoperta dei caratteri poetici e dell’universale fantastico, già nella sua prima comparsa pubblica, Vico rende noti spunti che continueranno a essere fondamentali fino al pensiero maturo.

251 Vico, Orazioni inaugurali, cit., pp. 710-712.

si prestano meglio a essere colte intuitivamente dall’immaginazione253. Ciò è più consono alle naturali caratteristiche della mente umana che, nelle prime fasi del suo sviluppo, è dotata di una fantasia molto viva e di una razionalità non ancora formatasi e il processo educativo, affinché sia efficace, deve seguire un percorso parallelo a quello dello sviluppo delle menti a cui è rivolto. Nel Liber

metaphysicus, poi, la fantasia è definita come la facoltà mediante la cui attività «ci

rappresentiamo, costruendole, le immagini delle cose»254.

Il riferimento alla fantasia, nella prima orazione, è immediatamente seguito da

quello alla memoria255, la cui importanza risalta immediatamente agli occhi: «Ma

io ammiro in modo anche maggiore la memoria: cosa v’è […] più ammirabile e divino di quell’abbondantissimo tesoro di concetti e parole contenuto nella mente umana? E con che velocità […] ce ne arricchiamo! In modo che, all’età di due o al

253 Cfr. Vico, De nostri temporis…, cit., p. 125. Ma si veda anche la relativa nota a p. 1339. 254 Ibidem.

255 Ci si attenderebbe, forse, più il contrario visto che la memoria è la facoltà tipicamente infantile, mentre la fantasia caratterizza una fase già adolescenziale, infatti « quando ci siamo immaginati da giovani la forma e la posizione di città e regioni lontane, a stento, nel restante tempo della nostra vita, riusciamo a formarci di essa un’altra immagine, tanto profondamente la prima è scolpita nella nostra mente che non può essere cancellata e che un’altra non può esserle sovrapposta» (Orazioni inaugurali, cit., p. 780) Ma occorre specificare che nell’ambito delle prime orazioni il legame con la teoria psicologica ontogenetica non è ancora molto definito ( quindi è normale che le facoltà vengano presentate senza un ordine preciso ). Quella teoria inizierà, invece, a essere presente nella sesta orazione che, infatti, precede solo di un anno l’esposizione orale del De ratione. Per avere un’idea di ciò si vedano le pp. 778- 780 delle Orazioni inaugurali, dove l’ordine di insegnamento delle discipline vede al primo posto le lingue ( perché legate alla memoria, assai sviluppata nei bambini ), poi la matematica perché «passata la fanciullezza la mente umana, o ragione, incomincia ad emergere sempre di più dal fango della materia» e, perché, essendo nei giovinetti molto potente la fantasia, che si oppone alla ragione più di ogni altra cosa «è necessario imitare i medici che, propinando a scarse dosi dei pericolosi veleni, guariscono le malattie; per poter rafforzare col suo mezzo la ragione, la fantasia deve essere attenuata ed i giovani devono applicarsi alla matematica, giacché il suo studio è aiutato moltissimo da una forte capacità di formare immagini» e così «la mente umana […] considerando i punti e le linee senza alcuna grossezza e corpulenza, perde la sua materialità ed incomincia a purificarsi» e in tal maniera «i giovani si avvezzano, in quelle cose su cui gli uomini si trovano già d’accordo, a dedurre il vero da una verità data, così che possano comportarsi colla stessa bravura anche nelle questioni fisiche su cui moltissimo si disputa». Il percorso di studi continuerà, poi, con la fisica, perché la mente umana diventa in grado di passare dallo studio dei corpi che si percepiscono coi sensi a quelli che non si percepiscono e, tuttavia, sono corpi. E, infine, quando per mezzo della matematica e della fisica la mente umana si sarà depurata gradualmente «da un genere di pensieri grezzo e materiale» potrà procedere alla contemplazione di Dio, dedicandosi, quindi alla metafisica. ( Cfr. Op. cit., p. 780 ).

massimo tre anni, noi riteniamo a memoria tutte le parole e le cose che esauriscono le comuni necessità della vita, per raccogliere ed ordinare le quali un lessicografo

avrebbe bisogno di scrivere numerosissimi e lunghissimi volumi»256.

Sulla memoria vichiana molto si è detto, ma la corretta comprensione di essa continua a presentare dei risvolti problematici. Altrove il filosofo specifica che si parla di «memoria, quando raccoglie come in un recipiente le percezioni acquisite

per mezzo dei sensi; reminiscentia, quando esprime le già acquisite percezioni»257.

La cosa importante di questo brano, oltre alla differenziazione interna alla memoria, è il riferimento alla raccolta dei dati da parte della stessa, che sta a indicare il suo ruolo profondamente attivo. La centralità che egli riconosce alla memoria fanno di lui un ingegnoso lettore della cultura barocca la quale, analogamente a ciò che abbiamo visto nella ricezione di altre tradizioni con cui, attraverso Vico, abbiamo avuto a che fare, «viene accolta, rimeditata e fatta propria

alla luce di una fondazione filosofica forte»258.

Tutto ciò potrà essere bene osservato nel pensiero maturo e soprattutto a partire dalla Scienza nuova del 1730, quando, in corso di stampa, Vico deciderà di sostituire la «novella letteraria» posta all’inizio dell’opera con la Dipintura che dovrà servire «al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria». Tuttavia, come abbiamo visto, già nel primo Vico sono presenti spunti che meritano di essere presi in considerazione. Essa è,

256 Vico, Orazioni inaugurali, cit., 709. 257 Vico, De antiquissima…, cit., p. 114. 258

Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica moderna, Guerini, Milano, 1995, p. 159.

per esempio, un fondamentale aiuto spirituale259 per l’oratore che deve esporre il

suo discorso.260

Pur lavorando su una nozione di memoria che gli proviene da Rinascimento e Barocco, Vico esclude esplicitamente la possibilità che essa possa essere oggetto di

un’ars261

: essa è, cioè, «ingenita virtus»262.

È certamente vero, come pare notare Trabant, che apparentemente Vico sembra dare alla memoria uno spazio limitato rispetto a quello che forse ci si potrebbe attendere. Tuttavia, bisogna anche osservare che la carenza quantitativa (pochi sono i luoghi in cui si sofferma su di essa, specie nelle opere che precedono la

Scienza nuova) è abbastanza compensata dal rilievo accordatale dal punto di vista

qualitativo, perché considerandola la raccoglitrice dei dati provenienti dai sensi, oltre a metterne in luce il ruolo attivo (secondo quanto abbiamo già sottolineato), ne fa anche il luogo di connessione fra il corporeo e lo spirituale. È vero, quindi, che di essa viene sottolineata la natura corporea (così avviene anche per le altre facoltà), ma proprio in quel corporeo risiede, forse, gran parte del suo valore. A ciò si aggiunga che la scarsità dei luoghi in cui Vico si sofferma a ragionare su cosa sia e non sia la memoria è ripagata dalla straordinaria importanza da essa ricoperta

259

Sulla differenza che Vico stabilisce fra aiuti spirituali e aiuti fisici (entrambi aiuti naturali) si veda il paragrafo 6 delle Institutiones ( p. 27 dell’edizione citata).

260 Nell’analizzare questo passo Trabant ha notato un significativo elemento di continuità con la Scienza nuova: già qui, infatti, ci troviamo davanti alla triade che possiamo scorgere fra le pagine del capolavoro. Cfr. Trabant, intervento contenuto in Retorica e filosofia in Giambattista Vico, cit., p. 85.

261

Il Barocco, al contrario, insiste molto sull’importanza delle mnemotecniche di origine umanistico-rinascimentale. Su questo argomento sono stati scritti libri in quantità indefinita. Ci limitiamo, qui, a ricordare il contributo di Paolo Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna, 1983 e quello di Frances Yates, L’arte della memoria, Einaudi, Torino, 1993.

262

nell’ambito della Scienza nuova, in connessione con il discorso relativo alle immagini e ai vari sistemi di segni.

Anche dire che gli oratori per i quali scrive Vico sono perfettamente in grado di usare la scrittura e quindi non avrebbero bisogno della memoria per tenere a mente

i precetti impartiti dal maestro263, pur essendo senz’altro vero, non rende forse

completamente giustizia a quel carattere attivo che la memoria possiede. Sebbene le nozioni possano essere registrate tramite degli appunti, non si deve credere che la memoria, nella concezione di Vico, sia completamente bandita da quest’attività, perché ciò significherebbe anche ridurla a capacità di mantenere a mente i dati. È vero che a un progredire dell’età adulta e della civiltà corrisponde un indebolimento della memoria, ma, intanto, la possibilità che essa continui ad agire è uno degli elementi che ci preserva dalla caduta nella barbarie e, inoltre, essa può continuare ad agire proprio perché si configura come momento iniziale (ma non separato dagli altri due) del processo che ci consente di attribuire un senso alla realtà che ci circonda (da un punto di vista tanto ontogenetico quanto filogenetico).

Moltissimi studi sono stati giustamente dedicati alla terza delle facoltà vichiane,

che è l’ingegno264 e lo stesso Vico sembra attribuirgli un peso nettamente maggiore

rispetto alle altre due. Se già con la memoria abbiamo visto un intelligente recupero di elementi tipici del Barocco, è attraverso la nozione di ingegno che il filosofo si misura in maniera più profonda, ma anche più conflittuale con quella

263 Cfr. Trabant, La scienza nuova…, cit., p. 39. 264

Fra tutti, ci pare il caso di segnalare subito Pareyson, La dottrina vichiana dell’ingegno, in Idem, L’esperienza

tradizione. Nell’elaborazione della categoria dell’ingegno, infatti, Vico agisce continuamente sullo sfondo della cultura umanistica e barocca. Riferimenti importanti sono i teorici del Manierismo, come Matteo Peregrini ed Emanuele Tesauro, i quali hanno recuperato la connessione – rimasta marginale per troppo

tempo – fra ingegno e arte del discorso poetico265.

Per inquadrare bene la tematica occorre ricordare brevemente le discussioni che si situano fra Rinascimento e Barocco e che riguardano questioni platoniche e aristoteliche. Molte di esse sono, in particolare, da collegare al contesto della riscoperta della Poetica di Aristotele e all’utilizzo del principio di imitazione. Quest’ultimo, centrale fino al Cinquecento, viene messo da parte con l’inizio del Barocco, quando si iniziano a privilegiare quelle regole legate all’argutezza,

all’artificio e alla metafora266

e, quindi, alla messa in evidenza della novità. In questo contesto si assiste a una grande valorizzazione della retorica, accompagnata da una crescente insistenza sul ruolo dell’ingegno. Un testo esemplare per il fenomeno fin qui descritto è Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1654), al quale Vico rimprovera «la considerazione del linguaggio figurato […]

come sovrastruttura elegante»267. Tesauro, effettivamente, esprimendo pienamente

la cultura barocca, fa dell’ingegno una facoltà che, intanto, è subordinata alle raffinate procedure dell’intelletto e, per di più, con fini edonistici. Esso, infatti, per

mezzo dell’argutezza, suo «divin parto»268

, rende possibile il «doppio godimento di

265 Cfr. Donatella Di Cesare, Sul concetto di metafora in G. B. Vico, in «Bollettino del Centro Studi vichiano», XVI, 1986, p. 327.

266 Cfr. Lollini, Le muse, le maschere e il sublime…, cit., p. 146. 267

Lollini, Le muse, le maschere e il sublime…, cit., p. 147.

chi forma un concetto arguto e di chi l’ode»269. Si ha, quindi, non solo un «doppio godimento» (elemento che torna anche in Vico, ma in un senso diverso, legato all’apprendimento che esso genera e, quindi, più fedele a ciò che Aristotele scrive nella Retorica; mentre qui, pur avendo come riferimento lo stesso passo aristotelico, l’ambito del discorso viene deformato), ma soprattutto un inscindibile nesso col concetto. Per capire come Vico arrivi, da un lato a una nozione dell’ingegno che prende spunto dal Barocco (e, in particolare, dalla lettura barocca di Aristotele), per poi capovolgerla e individuarne diverse e, dal suo punto di vista, migliori finalità, dobbiamo, ancora una volta risalire ai primordi del pensiero vichiano, cercando di coglierne gli sviluppi fondamentali. Ci troviamo, di nuovo, di fronte a un’origine molto lontana della nozione di ingegno nel pensiero di Vico, collocabile, ancora, ai tempi della prima orazione. In essa, però, almeno un’accezione in cui l’ingegno compare, sembra ancora molto distante dalla

complessità di cui, in seguito, questa nozione sarà dotata270. Infatti, in questa prima