• Non ci sono risultati.

La scoperta del verum ipsum factum

2 Il confronto col cartesianesimo

2.3. La scoperta del verum ipsum factum

Il discorso che abbiamo condotto nei precedenti paragrafi ci fa capire che l’obiezione a Cartesio è civile e morale, prima ancora di essere gnoseologica ed epistemologica: il pericolo implicito nel metodo del filosofo francese è quello di rendere i giovani completamente incapaci nella vita civile, privi di qualsiasi forma di immaginazione e proprio nell’ambito di queste tematiche si muovono le pagine del De ratione.

I risvolti gnoseologici della polemica anti-cartesiana sono, invece, più evidenti

nel Liber metaphysicus del De antiquissima345, dove Vico, dando validità al

«poliedrico principio»346 del verum ipsum factum, cerca di far vacillare il sistema

cartesiano nei suoi stessi presupposti filosofici. Tramite l’affermazione di questo principio, infatti, il filosofo ripristina l’antico nesso di verità ed essere, ripensandolo in rapporto con il fare e aprendo la strada per una concezione

operativa della conoscenza347.

Per i nostri scopi interessa soprattutto richiamare l’attenzione sulla matrice retorica del contesto che andiamo ora esaminando, la quale è garantita dall’intento

di ricavare l’antica sapienza degli Italici attraverso le origini della lingua latina348

. Come si può osservare, si ha un vero e proprio salto in avanti per quanto riguarda le potenzialità e il ruolo riconosciuti al linguaggio. La stessa validità del principio del verum-factum è dovuta a un’osservazione linguistica, secondo la quale in latino

i termini verum e factum si convertono reciprocamente349. Ciò consente a Vico di

scoprire quel criterio (o forse agisce a conferma del principio già intuito) che va a rappresentare per certi versi – e a una lettura più immediata – il punto di massima distanza dalla filosofia cartesiana. Esso, infatti, stabilisce, una volta per tutte, che la verità non può essere data da criteri quali la chiarezza, la distinzione e l’evidenza,

345 Il De antiquissima, infatti, è stato scritto, probabilmente, contro le cartesiane Meditazioni metafisiche. 346 Amoroso, Vico, Cartesio e l’autobiografia, cit., p. 38.

347 Cfr. op. cit., p. 42 e Idem, Introduzione alla Scienza Nuova…, cit., p. 17 (dove vengono ricordate le radici neoplatoniche del nesso di verità ed essere, per cui si rimanda all’articolo di Vittorio Mathieu, Vico neoplatonico, in «Archivio di Filosofia», n. 1, 1969).

348

Cfr. Idem, Introduzione alla Scienza Nuova…, cit., p. 17. 349 Cfr. Vico, De antiquissima…, cit.,

ma sta, invece, nella conversione di due categorie assai distanti nella filosofia cartesiana: il vero e il fatto.

Cartesio, infatti, non sarebbe mai in grado, secondo Vico, di cogliere la relazione esistente fra fatto e verità, non distinguendo fra scientia e conscientia, fra

verum e certum: come sottolinea giustamente Verene, attraverso il cogito, il

soggetto non trova il primo vero, ma scopre se stesso come un certum350.

Il concetto di scientia (e, quindi, quello a essa legato di verum) presuppone, invece, la conoscenza delle cause, in altre parole ciò equivale a dire che chi tenta di

conoscere deve identificarsi con l’agente351

. D’altra parte, però, alcuni studiosi hanno sottolineato che i confini che stabilisce il criterio posto da Vico vedono rientrare, in un certo senso, lo stesso Cartesio. In esso, inoltre, è possibile cogliere il tipico umanesimo vichiano, anche in osservazioni non esplicitamente connesse con questa tematica: pensiamo ad esempio al passo nel quale Vico afferma che l’ingegno è sinonimo di natura, perché proprio dell’ingegno è stabilire la misura delle cose, il che sembra dire che caratteristica specifica dell’uomo sia quella di stabilire la misura di tutte le cose, non, però, in un senso relativistico, ma molto più vicino al criterio rinascimentale dell’homo faber, nel senso di «facitore». Per quanto riguarda l’identità di ingegno-natura, sulla quale Vico insiste molto, bisogna ricordare che essa era già stata stabilita da Gerhard Johann Voss,

350 Cfr. Verene, Vico. La scienza della fantasia, cit., pp. 44-45.

351 Ciò non significa che sia sufficiente definire il verum-factum dicendo che il conoscere si identifica con il fare, perché sono implicite in questa fase del pensiero vichiano delle imprescindibili premesse onto-teologiche che devono essere tenute sempre presenti per non correre il rischio di banalizzare il discorso. Cfr. Amoroso,

Introduzione alla Scienza nuova, cit., p. 18, dove vengono, tra l’altro, ricordati due contributi che insistono molto su

questo aspetto: si tratta del saggio di Karl Löwith, «Verum et factum convertuntur»: le premesse teologiche del

principio di Vico e le loro conseguenze secolari, in Aa. Vv., Omaggio a Vico, Morano, Napoli, 1968 e il volume di

nell’Etymologicon linguae latinae (scritto risalente al 1695 che Vico tiene in grande considerazione). Tale identità si basa sulla comune origine etimologica:

natura deriva da nascor e ingenium da gigno (che significa proprio «nascere»).

Con la scoperta della conversione di vero e fatto, Vico dà la sua risposta a una di quelle domande tipiche della filosofia: «cosa possiamo conoscere?» e lo fa distinguendo fra un’idea forte di scienza e un’idea «fortissima»: la prima di esse

consisterebbe nella conoscenza delle cause, mentre la seconda nel loro possesso352.

La prima è quella tipicamente divina, ma l’uomo «“imita” “ingegnosamente” la conversione di verum e factum che ha luogo in Dio […] in particolare, “facendo” un mondo di numeri e di linee, cioè il mondo matematico, che è così ciò che

l’uomo può meglio conoscere, proprio perché è una sua costruzione»353

.

Su questo elemento della «costruzione» è bene insistere, perché esso garantisce una continuità che attraversa tutto il pensiero filosofico vichiano e che, concepito negli orizzonti della topica e connesso alla capacità ingegnosa, ci consente di capire in che senso, su basi retoriche, venga elaborata un’originale teoria della comprensione che nei suoi esiti più maturi sarà «inteso come un poiein, come una

poiesis, […] come quella “poesia” o creatività mitopoietica con la quale i primi

uomini pagani costruirono originariamente il loro mondo»354.

352 Cfr. Amoroso, Nastri vichiani, cit., p. 41. 353

Idem, Introduzione alla Scienza nuova…, cit., p. 18. 354 Ibidem.

È stato fatto notare che nel De antiquissima il riferimento alla matematica

potrebbe avere un semplice valore di esempio355, perché in realtà per Vico la

costruzione di un sapere propriamente umano avverrebbe solo in ambito storico o, per meglio dire, civile. Ora, è certamente fuor di dubbio che il principio del verum-

factum raggiunga forma compiuta nella Scienza nuova (e, quindi, dopo

l’importante sostituzione del factum col certum), ma ciò non ci pare sufficiente a ridurre il lavoro del De antiquissima a semplice esempio. Fra lo scritto in questione e la Scienza nuova intercorrono quindici anni e durante questo periodo dev’essere avvenuta anche la consapevolezza dell’importanza di quel passaggio dal mondo ancora astratto della matematica al mondo concreto della storia. Ma ciò non significa, forse, che il primo non debba essere considerato espressione, a tutti gli effetti, della prima forma della teoria del conoscere umano.

In ogni caso, ciò che più di ogni altra cosa, ci interessa sottolineare in questo contesto è perché e in che senso ci troviamo negli orizzonti di un conoscere intimamente retorico. Lo capiremo meglio, ancora una volta, ricordandoci l’importanza del riferimento a Cartesio. I due filosofi, infatti, partono da presupposti e intenti molto simili: può l’uomo, nel suo avere continuamente a che fare con realtà sensibili e, quindi, mutevoli, approdare alla conoscenza di qualcosa di vero? Cartesio risponde positivamente, a patto che si sia disposti a compiere un faticoso lavoro di depurazione di tutto ciò che può destare il minimo sospetto di dubbio, bandendo completamente ogni traccia legata ai sensi e affidandosi a quelle

regole di chiarezza, evidenza e distinzione che rappresentano il presupposto per

avviare un corretto ragionamento356. Vico, invece, riconosce i diritti dei vari livelli

di conoscenza e si rende conto che esiste una forma di vero propriamente umana che si identifica con quello che l’uomo stesso si costruisce, intercettando come può il vero divino e imitandolo.

Così, in questo contesto «le matematiche sono le uniche scienze che inducono il vero umano, perché quelle unicamente producono a simiglianza della scienza di Dio, perché si han creato in un certo modo gli elementi con definir certi nomi, li portano sino all’infinito co’ postulati, si hanno stabilito certe verità eterne con gli assiomi, e, per questo lor finto infinito e da questa lor finta eternità disponendo i loro elementi, fanno il vero che insegnano; e l’uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera talmente in quello con l’astrazione,

come Iddio nell’universo con la realtà»357

.

Se seguiamo l’indicazione di Mooney, secondo cui il verum ipsum factum

dev’essere considerato un corollario dei primi scritti vichiani358

ci accorgiamo di come le tematiche che nascono in essi trovino qui uno sbocco che va a costituire uno snodo decisivo nello sviluppo del pensiero del filosofo. Dire che il verum-

356 Questo seguirà poi ulteriori regole, fino ad arrivare al vaglio di quei criteri che dovranno darci conferma della correttezza di ogni passaggio.

357

Vico, De antiquissima…, cit., 55.

358 Cfr. Mooney, Vico e la tradizione…, cit., p. 204. La dimostrazione di ciò è vista in un passaggio in cui Vico stesso scrive: «Nella dissertazione De nostri temporis studiorum ratione ho mostrato che si può ovviare alle manchevolezze di quella [la fisica] coltivando l’ingegno: di che forse s’è meravigliato qualcuno prevenuto in favore del metodo cartesiano. Giacché codesto metodo, al tempo stesso che giova alla facilità, riesce d’ostacolo

agl’ingegni, e, nel suo voler provvedere alla verità, inaridisce la curiosità. D’altra parte, la geometria aguzza l’ingegno non in quanto metodo: bensì in quanto, appunto per forza d’ingegno, la si applichi attraverso discipline diverse, di altra natura, dai molteplici aspetti, disparate. Pertanto in quella dissertazione ho manifestato il desiderio che la si insegnasse non già analiticamente, ma sinteticamente, in guisa da pervenire alla dimostrazione col congiungere: il che vuol dire non già trovare la verità, ma crearla».

factum non sia stato pensato come un principio a sé stante non ne sminuisce il

valore, ma, piuttosto, ci consente di pensarlo alla luce di categorie fondamentali.

Seguendo la traccia indicata da Platone nel Cratilo, Vico risale alle origini della lingua latina che ritrova in antichi popoli italici (Ioni ed Etruschi) depositari di una

profonda sapienza riposta359. Ma la grande novità del procedere vichiano è

evidente fin da subito nella dichiarata volontà di andare contro una parte del progetto platonico: se il filosofo greco pensava di trovare nei vocaboli antichi l’essere della natura, Vico va in cerca di significati che rispecchiano l’uomo.

La polemica nei confronti della critica, connessa alla rivalutazione della topica, è espressa, adesso, in una forma di assoluta originalità. Lo si vede nella concezione del sapere che viene presentata nelle pagine del Liber metaphysicus: «Sapere (scire) significa comporre gli elementi delle cose: quindi alla mente umana è

proprio il pensiero (cogitatio), alla divina l’intelligenza (intelligentia)360. Dio

infatti raccoglie tutti gli elementi delle cose, estrinseci ed intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non siano essa stessa, può soltanto andare ad

accozzare gli elementi estremi delle cose, senza mai collegarli tutti»361.

Il sapere umano rimane sempre limitato, se confrontato con quello divino, ma la cosa, forse, da sottolineare è che Vico, insistendo sui limiti che l’uomo non può

359 Vico, De antiquissima…, cit. p. 56.

360 La conoscenza è presentata da Vico anche come una sorta di «lettura» che in Dio si configura come una lettura creativa, quindi di un vero e proprio intelligere, mentre nell’uomo assume la forma di un «incerto compitare e raccogliere» (Cfr. Amoroso, Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e Benamozegh, ETS, Pisa, 2004, p. 67). 361 Op. cit., p. 62.

oltrepassare perviene a una tipologia di sapere imperfetta, certo, ma profondamente umana. L’umiltà di accettare che non tutto il mondo del sapere è in nostro dominio consente di mettere in risalto quello che, al contrario, ci appartiene, risalendo alla verità prima per via linguistica e non logica e affiancando a ciò la tendenza tipicamente vichiana di incontrare le questioni filosofiche su un piano che si trova

al di qua del concetto362.

Ma il senso in cui il verum-factum si deve considerare una verità prima può essere colto interamente solo ricorrendo, ancora, alla questione della topica che, adesso, viene pensata in una forma di assoluta originalità. Il verum-factum, infatti,

può essere considerato «il termine medio dei termini medi»363 che non si limita a

rendere possibile qualsiasi forma di ragionamento (ruolo che spetta al termine

medio in quanto tale), ma è il presupposto della creazione stessa della verità364. In

generale, il termine medio, prodotto dall’ingegno umano365

, consente di rendere intellegibile un pensiero, attraverso una combinazione con altri pensieri, che sia

nello stesso tempo adeguata e inedita e quindi di creare una verità366. È evidente

che nulla di ciò potrebbe avvenire senza definire il contenuto di quella verità e, quindi, nello specifico, senza presupporre la convertibilità di verum e factum che stabilisce gli orizzonti entro i quali è possibile parlare di verità umana.

362 Cfr. Verene, Vico. La scienza della fantasia, cit., p. 48. 363 Verene, Vico. La scienza della fantasia, cit., p. 48. 364

Cfr. Verene…, pp. 48-49.

365 In questa fase, l’invenzione del termine medio è il ruolo fondamentale dell’ingegno. Non sarà più così nella

Scienza nuova, quando le sue potenzialità conosceranno nuovi orizzonti, andando a produrre, in una rete di

significati sociali e civili, «tutte le possibili connessioni dell’esperienza». (Quest’ultima espressione è tratta dall’opera di Verene sopra citata, p. 177).

Ciò significa rendersi conto del fatto che «il pensiero razionale esige una base

topica di significazione»367. È il caso di insistere su questo elemento della

significazione (più ancora che su quello del significato, perché meglio esprime l’idea di un processo) perché è proprio in virtù di ciò che la filosofia topica può dischiudere i suoi orizzonti.

Il vero umano, quindi, coincidendo col factum, può essere assimilato a un monogramma, a un’immagine piana delle cose, mentre il vero divino, identificandosi col genitum, trova rappresentazione in una figura solida, un plastico. Ciò garantisce, quindi, una distinzione sempre netta fra il fare divino e il fare umano, sottolineata, ancora, dai due diversi termini impiegati per i due tipi di conoscenza: quella di Dio è definita come intelligere, mentre quella umana è un

cogitare, un «andar raccogliendo i dati». Fissare la distinzione tra il conoscere

umano e quello divino non significa condannare l’uomo a una posizione di subordinazione. Lo fa capire bene Vico stesso nel riassunto che conclude il De

antiquissima, dove si legge che questa è una «metafisica commisurata alla

debolezza del pensiero umano»368 la quale «non concede all’uomo la possibilità di

conoscere tutte le verità, né gli nega la facoltà di poterle conoscere; ma gli

consente solo di apprenderne alcune»369.

La conoscenza a cui l’uomo può aspirare è, quindi, perfettamente adeguata alle sue esigenze, le quali possono trovare realizzazione soltanto entro questi orizzonti.

367 Ibidem. 368

Vico, De antiquissima…, cit., p. 130. 369 Ibidem.

Sarebbe, al contrario, il proposito cartesiano di rintracciare un metodo unitario e valido per tutte le discipline a ridurre l’uomo a una posizione che non gli renderebbe giustizia, perché esso ha come primo obiettivo quello di accogliere solo gli ambiti che rispettano i criteri stabiliti dalle quattro regole, con l’esclusione di

tutti quei saperi che, in una maniera o in un’altra, contemplano le opposizioni370

, le quali, però, rappresentano una parte importante dell’uomo stesso.

Sempre nell’ambito della trattazione del rapporto Vico-Cartesio è interessante notare, come ha fatto Grassi, che in corrispondenza del verum ipsum factum, che dovrebbe essere il punto in cui i due filosofi sono maggiormente lontani, in realtà le distanze si accorciano, perché, anche il cogito, essendo atto che realizza se stesso, può essere inserito negli orizzonti definiti dal principio vichiano. Ciò può essere vero, almeno se ci accostiamo ai due principi «nel senso di quel “farsi soggetto”, da parte dell’uomo, che è stato considerato come tratto filosofico

fondamentale della modernità»371.

Nel caso di Vico, più che nel De antiquissima, quel farsi soggetto dev’essere ricercato nell’autobiografia, la quale non è certo estranea ai criteri individuati

tramite il verum-factum372. In fondo, anche Cartesio, nella dimensione

autobiografica del suo Discorso, va alla ricerca della propria identità, facendosi

anch’egli soggetto373

. Anche con Cartesio siamo di fronte a un soggetto che

370 Cfr. Verene, Vico. La scienza della fantasia, cit., p. 172. 371 Amoroso, Vico, Cartesio e l’autobiografia, cit., p. 43. 372 Idem , Nastri vichiani, cit., p. 37 e ss.

373 Lo suggerisce, se non altro, la scelta del soggetto del Discorso: quell’ «Io» che, diventando protagonista di un itinerario volto all’autoconoscenza, perviene, infine, alla scoperta della propria identità: «Poi, esaminando con attenzione ciò che ero […]: ne conclusi esser io una sostanza, di cui tutta l’essenza o natura consiste solo nel

narrandosi, parlando di sé, arriva a «farsi» e a conoscersi. Il problema è tanto complesso, quanto interessante e meriterebbe senz’altro approfondimenti ulteriori. Ci limitiamo, però, a osservare come lo stesso Cartesio non sia estraneo ai criteri di

una costruzione374 legata alla comprensione di sé (sebbene il fine dichiarato del

cogito sia più il raggiungimento del primo vero che quello di un’autoconoscenza).

Il problema che rimane aperto è, però, sempre quello che continua a rappresentare il discrimine fra i due filosofi e che li tiene, in ogni caso, sempre ben separati: è vero che entrambi gli itinerari filosofici hanno molto a che fare con il fenomeno tipicamente moderno della formazione del soggetto, ma a essere profondamente differente è proprio lo statuto di questo soggetto.

Osservando ciò, ci riferiamo non solo a quanto detto già precedentemente (la constatazione, cioè, che uno sia un individuo prevalentemente razionale e l’altro un essere mosso dal complesso gioco di memoria, fantasia e ingegno), ma anche e soprattutto al fatto che il primo è un soggetto che crede di aver raggiunto, nello stesso momento, la conoscenza di sé in quanto res cogitans e la prima verità da cui far partire tutto il resto; l’altro sa di non poter conoscere se stesso in profondità, ma è soggetto in quanto da lui e dal suo agire prende avvio il conoscibile.

pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale. Questo che dico “io”, dunque, cioè, l’anima, per cui sono quel che sono, è qualcosa d’interamente distinto dal corpo, ed è anzi tanto più facilmente conosciuto, sì che, anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe di esser tutto ciò che è» (

Discorso sul metodo, cit., p. 45).

374 Certo, è curioso che tale «costruzione» avvenga in Cartesio sotto le sembianze di una decostruzione che si realizza nella depurazione da parte dell’Io di tutti quegli elementi, legati al mondo dei sensi, che possono essergli d’intralcio nel raggiungimento della verità. È anche vero, però, che lo stesso filosofo afferma che quella demolizione è funzionale alla successiva edificazione di qualcosa di stabile e che sia al riparo da ogni tentativo di distruzione.

Il fatto di insistere tanto su questo elemento della costruzione non è fine a se stesso: ciò ci tornerà molto utile quando andremo a confrontarci con la complessa e intricata vicenda della creazione di un mondo di senso che trova spazio fra le pagine della Scienza nuova. Il grande merito del De antiquissima è quello di aver fissato un principio che non sarà mai abbandonato da Vico: l’idea che la ricerca filosofica non può essere svincolata da quella linguistica. Si spiega, così, non solo la tanta insistenza nei confronti delle etimologie, ma anche la ragione per la quale il fatto che non sempre tali etimologie siano corrette sia passato in secondo piano, di fronte all’importanza che il criterio stabilito ha ricoperto per la storia della filosofia.

Per rimanere nell’ambito dell’opera vichiana (pur sapendo che quanto appena