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Il senso comune come criterio della nuova scienza

3. Dalle intuizioni giovanili al pensiero maturo: la riflessione sul linguaggio come filo conduttore

3.2. Il senso comune come criterio della nuova scienza

Prima di andare a parlare del senso comune in Vico, occorre fare una premessa che ci è imposta dalla polisemia della categoria in questione e dai suoi molteplici sviluppi che affondano le loro radici in fasi molto antiche della storia della filosofia.

Bisogna, quindi, innanzitutto, precisare il significato dell’aggettivo «comune», dicendo che esso, in Vico, si riferisce non alla comunanza fra più sensi, ma a

quella fra più individui420. Per quanto riguarda questa nozione, infatti, Vico si pone

come erede non della tradizione aristotelica del De anima, bensì di quella latino-

ciceroniana421 che, ancora una volta, arriva presso di lui attraverso il filtro

dell’Umanesimo. Come osserva felicemente Gadamer, riferendosi a quella tradizione: «Quello che si fa sentire già nel concetto latino di sensus communis è

419 Battistini, La sapienza retorica…, cit., p. 107. 420

Cfr. Idem, Vico, Kant e il senso comune, cit., p. 74. 421 Cfr. Gadamer , Verità e metodo, pp. 45-46.

dunque un tono critico, diretto contro la speculazione teorica dei filosofi»422 ed è proprio questa eco che risuona nelle parole del De ratione, dove l’ideale di sapienza pratica viene richiamato costantemente contro le astratte speculazioni del razionalismo. Il senso comune vanta il suo ruolo decisivo nell’opera vichiana già da molto tempo prima rispetto alla Scienza nuova.

Già nel De ratione, infatti, esso rappresenta la condizione di esistenza e di svolgimento di ogni argomentazione probabile, ciò che, nascendo dal verisimile,

rende realizzabile la via della prudenza, dell’agire pratico e dell’eloquenza423. Il

legame con la prudenza e con l’eloquenza è, inoltre, presente anche nel paragrafo

delle Institutiones oratoriae dedicato alla formazione civile del futuro oratore 424.

Ma nell’orazione pubblicata nel 1709 esso è anche, esplicitamente, ciò che legittima le pretese di validità di un metodo diverso da quello proprio della scienza

e che ne garantisce il successo425. Il riconoscimento dell’importanza di questa

dimensione presuppone, quindi, l’accettazione di quel terreno malfermo, ma tipicamente umano, che prende il nome di «verisimile» e, in riferimento a ciò, il riconoscimento della peculiarità della prospettiva retorica che, proprio riponendo grande fiducia nel senso comune, dà forma a un ambito del sapere che , pur non

422 Op. cit., p.46. 423

È degna di nota un’osservazione che ci riporta, ancora al capitolo precedente: anche Cartesio, quando si tratta di dirigere l’azione, riconosce di non poter ricorrere alla ragione. Lo dimostra la terza parte del Discorso sul metodo, dedicato alle massime della morale provvisoria: in questo ambito il filosofo dimostra la sua predilezione verso tutto ciò che appare assennato, fino a parlare esplicitamente dell’importanza dei viaggi, i quali, tuttavia, mettono di fronte al dato di fatto secondo lui incontestabile dell’estrema variabilità del senso comune. Cfr. Amoroso, Vico, Kant e il

senso comune, in Idem, Nastri vichiani, cit., p. 76.

424 Cfr. Vico, Institutiones…, cit., p. 35

pretendendo di incatenare la realtà in strutture e schemi logici, riesce a renderla comprensibile.

L’esigenza di tracciare gli orizzonti di intelligibilità del mondo si fa tanto più urgente nella Scienza nuova, dove si vuole fissare l’attenzione precisamente sul passaggio dall’uomo in quanto essere meramente biologico all’uomo come entità socio-civile. In vista di questo progetto, l’esigenza di un criterio che regoli e legittimi l’operazione che dovrà essere realizzata nella nuova scienza sembra emergere già da quel brano posto in apertura della Scienza nuova prima dove Vico,

con toni fra l’eroico e il tragico426

parla della «necessità del fine e difficoltà de’ mezzi di rinvenire questa Scienza entro l’error ferino de’ licenziosi e violenti di Tommaso Obbes, de’ semplicioni, tutti soli, deboli e bisognosi, di Ugone Grozio, e de’ gittati in questo mondo senza cura o aiuto divino di Samuello Pufendorfio, da’ quali le gentili nazioni son provenute» e già da allora è risulta evidente a Vico che per trovare i «princìpi dell’umanità delle nazioni» è indispensabile comprendere, anzitutto, il dominio in cui ci si deve muovere.

Il problema del criterio che deve legittimare la nuova scienza è sicuramente uno

dei rovelli che impegnano di più la mente di Vico427 e in ciò influisce molto anche

il contesto storico in cui alla crisi di fondazione delle scienze si accompagna un costante dibattito riguardante la legittimità dei processi indirizzati alla conoscenza,

426 Cfr. Stefano Velotti, Sapienti e bestioni, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1995, p. 15. 427 Cfr. Velotti, Sapienti e bestioni, cit., p. 20.

in seguito alla sempre maggiore affermazione del pirronismo428. Tutto ciò genera già nel Vico delle orazioni la convinzione dell’urgenza di rifondare il sapere, prima

che il mondo intellettuale si infiacchisca completamente429.

La necessità di tracciare il perimetro all’interno del quale muoversi è necessario innanzitutto per un motivo: essere certi di avere a che fare con una verità che si mantenga sempre umana, perché rischiare di andare oltre questi confini, significa avere solo l’illusione del sapere, mentre, in realtà, non lo si possiede davvero.

La domanda che Vico reputa necessaria per la buona riuscita del suo progetto è quella finalizzata a comprendere quale sia stato il cominciamento del mondo delle nazioni. Nel tentativo di rispondervi, il filosofo considera due alternative: «o da alcuni uomini sapienti che l’avessero ordinato per riflessione, o che uomini

bestioni vi fossero per un certo senso umano convenuti»430. A parergli più

convincente è la seconda possibilità, ma questa risposta, lungi dall’essere risolutoria, è, in realtà, il punto di partenza per una nuova serie di interrogativi. Prima di tutto occorre capire cosa abbia spinto quei rozzi bestioni primitivi a uscire dalla sregolatezza in cui vivevano e dare inizio a una vita condivisa e regolata e poi provare a capire attraverso quali modalità ciò sia avvenuto. Presupporre che quei

428 Cfr. Garin, Vico e l’eredità del pensiero del Rinascimento, in Battistini (a cura di), Vico oggi, Armando, Roma, 1979, cit., p. 74.

429 Della pigrizia culturale che Vico scorge nella sua epoca è testimone la Lettera a Francesco Saverio Estevan, nella quale si può ben osservare il passaggio dai toni entusiastici delle prime orazioni e polemici del De ratione a quelli apparentemente rassegnati ( ma accompagnati da un giudizio più severo sulla cultura circostante ) del periodo successivo alla cattiva accoglienza della Scienza nuova prima. Per la lettera a Estevan rimandiamo a quella contenuta nelle Opere a cura di Battistini, pp. 330-337.

bestioni possedessero già una qualche forma di sapienza sarebbe un atto del tutto infondato, il che rende tanto più ardua l’individuazione di qualcosa che legittimi il passaggio natura-civiltà. Così, nel sottolineare la fatica di quest’impresa, facendo

ricorso, a quel pathos autobiografico431 con cui abbiamo preso familiarità grazie

alle pagine della Vita, Vico ci pone davanti all’unica soluzione che gli pare plausibile e che è presentata come un’intuizione finalmente in grado di rendere accessibile quel mondo oscuro: «e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare; - e, nella loro immane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovi altro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa, ch’uno spaventoso pensiero d’una qualche divinità, il cui timore […] per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità, incontrammo l’aspre difficultà che ci han costo la ricerca di ben venti anni, e <dovemmo> discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a

gran pena ci <è> consentito d’intendere»432

.

Ma una nuova difficoltà sembra porsi a questo punto: quale cognizione di Dio

potrebbe essere appartenuta a uomini così selvaggi?433. La risposta viene fornita

dalla «favola di Giove» : «Con tali nature» scrive Vico all’inizio del Libro II «si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanità gentilesca quando – duegento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia […] il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […]. Quivi pochi

431 Cfr. Battistini, Note a Vico, Opere, cit., p. 686. 432

Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., pp. 180-181. 433 Cfr. Op. cit., p. 181.

giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura […] e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti robusti forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal

aspetto chiamarono Giove»434, così, con quella naturale curiosità che è figlia

dell’ignoranza e madre della scienza435

e con le loro menti per nulla capaci di astrazione, «tutt’immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite

ne’ corpi»436

quei primi poeti teologi iniziarono a fingersi «la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli

uomini e degli dèi»437.

Quei primitivi, tutta sensibilità e nessuna ragione, si formano, così la primissima immagine della divinità che riflette la loro stessa natura: «Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove, che Giove comandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero

universalmente le genti essere la divinazione»438.

434 Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 205. 435 Cfr. ibidem.

436 Op. cit., p. 206. 437

Op. cit., p. 207.

In questa prospettiva si può affermare, con Verene, che l’universale fantastico

di Giove è «il luogo dei luoghi che fonda questo sensus communis»439, il cui

dominio coincide con gli orizzonti di significatività resi possibili dalla provvidenza. Ed esso è, nello stesso tempo, il principio in virtù del quale si può parlare di «storia ideale eterna», «principio vitale che consente di vedere tutte le

nazioni come una sola e al tempo stesso separate»440.

Sul momento della fondazione del senso comune bisogna porre particolare attenzione anche per una ragione che esula solo apparentemente dal discorso che stiamo conducendo: si tratta dell’attenzione vichiana per il tema delle origini, richiamato insistentemente anche dai titoli di alcune opere (dal De antiquissima al

De universi iuris uno principio et fine uno agli stessi Princìpi di scienza nuova )

che si lega alla degnità per cui la natura delle cose non è altro che il loro nascimento e che può essere colto efficacemente solo a patto di intendere i princìpi nella duplice accezione di «fondamenti» e «inizi». Ciò è solo apparentemente slegato dal tema che stiamo affrontando perché per Vico è impensabile parlare di inizi a prescindere dal senso comune e ciò è vero non solo per la Scienza

nuova,(dove ciò emerge con particolare rilievo), ma per la maggior parte degli

scritti che, in una maniera o nell’altra, si muovono verso «l’istante unico e

irripetibile dell’esordio»441, infatti nel De ratione «ricostruisce i primi capitoli del

processo educativo, attento a rispettare le inclinazioni naturali dei fanciulli e degli adolescenti al momento delle prime esperienze conoscitive; nel De antiquissima

439 Verene, L’originalità filosofica di Vico, in Battistini (a cura di), Vico oggi, cit., p. 99. 440

Op. cit., p. 100.

risale ai primordi di una remota civiltà; […] nel Diritto universale si concentra sulla fase in cui gli uomini stabiliscono le prime leggi di convivenza; nell’autobiografia muove alla ricerca della propria vocazione letteraria […]; nella

Scienza nuova scopre il tempo oscuro e favoloso in cui si genera l’umanità»442. In un modo o nell’altro, il senso comune è, più o meno esplicitamente richiamato in ognuno di questi contesti e così, i princìpi si connettono, in ognuno di questi casi (sebbene in una maniera che cambia di volta in volta) a una dimensione retorica.

Il legame fra senso comune e universale fantastico ci consente di porre l’attenzione su due importanti aspetti a cui rimanda la nozione stessa di «senso comune». Da un lato, il sostantivo «senso» non va inteso in maniera vaga o generica, ma nello stretto legame con gli aspetti concernenti la corporeità, le passioni e in connessione con le «corpulentissime» facoltà di memoria, fantasia e

ingegno443. In quest’ottica, certamente la filosofia che, a partire da qui, viene

individuata da Vico può essere considerata una «sapienza del senso»444 , purché ci

si ricordi di considerare la sapienza al modo in cui ne abbiamo parlato nel secondo capitolo e si comprenda che il legame col senso dev’essere ricercato nel valore gnoseologico di cui sono dotate le facoltà conoscitive. Certamente, da questo punto di vista, Vico dev’essere inserito nel più ampio contesto della filosofia del suo tempo e di quella di poco precedente. Nella valorizzazione del senso, infatti, Vico

442 Ibidem.

443 Cfr. Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica moderna, Guerini, Milano, 1995, p. 13.

è certamente erede della cultura che, fra Cinquecento e Seicento, vede importanti esponenti, come Galileo e Campanella, per le cui filosofie il senso rappresenta un punto di partenza di enorme importanza. E, in generale, relativamente a ciò, Vico dovrebbe essere messo in rapporto con gran parte della cultura barocca che mette

in rilievo la sensibilità da vari punti di vista e in più di un ambito445. Su questo

piano si può attuare la difesa dei «vera secunda et verisimilia» che si manifesta, come sappiamo, fin dalle orazioni giovanili e che dev’essere letta in tutta la sua

portata gnoseologica446.

Solo insistendo su una lettura di tal genere si può comprendere il ruolo rappresentato dal senso come avvio e condizione di ogni forma di conoscenza. Infatti, nel valorizzare la dimensione della sensibilità, Vico va ben oltre l’aspetto meramente percettivo, anzi, si potrebbe dire che il momento della vera e propria percezione acquista significato solo in rapporto a una capacità più ampia di porsi in relazione col reale, a quella «prima operazione della mente» che dà avvio all’esperienza. La sfera del senso rappresenta, dunque, la sola via d’accesso alla comprensione del mondo, perché solo tramite questo passaggio si può creare la realtà umana. Del legame del senso con la conoscenza in generale sembrano essersi accorti già gli antichi popoli italici sui quali Vico indaga nel De antiquissima: «Invero nessuna delle scuole gentilesche affermò che la mente umana fosse priva di ogni corporeità. Tuttavia quei filosofi pensarono che ogni opera della mente

445 Cfr. op. cit., p. 35, dove la riabilitazione vichiana del senso è letta in connessione più con la cultura secentesca e barocca che con quella illuministica di cui il filosofo è contemporaneo.

fosse senso; ciò significa che ogni operazione della mente avviene per il contatto

dei corpi»447.

Ora, la dimensione del corpo non solo ha un ruolo centrale nella Scienza nuova nel senso che abbiamo lasciato intendere in quanto detto finora, ma anche da un punto di vista, per così dire, più «letterario» che si può evidenziare nell’insistenza,

in alcuni brani più significativi, sui dettagli «materiali»448. Questo riferimento ci

consente di esaminare l’altro aspetto legato al «senso comune». Potremmo partire da ciò che Vico dice all’inizio della sezione della Metafisica poetica: «Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza». Questi bestioni primitivi iniziano a raffigurarsi il cielo come un «gran corpo» e lo chiamano «Giove», a partire dal

primo grido onomatopeico449. Viene, così, avviato il processo conoscitivo che

manifesta, fin da subito, la sua natura intimamente linguistica e che nella dimensione della sensibilità trova la sua possibilità di esistenza. Quei primi

uomini, infatti, vedendo con gli «occhi del corpo»450 trasformano la mera natura in

realtà umana. La naturalità, quindi, conduce per forza di cose alla socialità e, quindi, allo sviluppo del sapere, il quale, quindi, non deve mai perdere di vista le

447 Vico, De antiquissima…, cit., p. 114.

448 Ricordiamo, se non altro, il brano in cui viene descritta la condizione bestiale dei protagonisti dell’«erramento ferino» e della loro trasformazione in giganti: «per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri in maggior copia s’insinuavano ne’ loro corpi […] dovettero a dismisura» ingrandire le carni e l’ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti» ( Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 199 ). 449 «Nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt’i pensieri umani della gentilità, incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea» (Vico, Princìpi di scienza nuova, cit., p. 249).

proprie radici corporee451. Così, ci pare appropriata l’espressione secondo cui il

corpo fa quasi da «scintilla della conoscenza»452, perché esso, essendo diretto fuori

di sé453, rende possibile l’uscita dalla dimensione meramente biologica. In virtù di

tutto ciò può avere luogo quella comunanza in corrispondenza della quale si stabiliscono gli orizzonti di validità del sapere.

A questo riguardo bisogna tenere a mente il significato peculiare dell’ordine provvidenziale, che è ciò in virtù di cui il senso comune è tale e ciò che consente di parlare di un dominio di significatività. Infatti, in riferimento alla provvidenza è possibile parlare di «storia ideale eterna» e ciò permette di stabilire il principio di esistenza storica che è anche principio di mitopoiesi e, dunque, di conferimento di senso al mondo. Ma ciò avviene, chiaramente, solo quando la vita inizia a svolgersi in comune, prima attraverso delle prime e rozze forme di convivenza e poi attraverso istituzioni che si perfezionano sempre di più.

Tale comunanza è evidente ancora in un riferimento al brano di Giove, quando il nome del dio viene introdotto al plurale: «Quindi tanti Giovi, che fanno maraviglia

a’ filologi, perché ogni nazione gentile n’ebbe uno»454

. Ma non solo Giove è una rappresentazione comune a tutte le nazioni: più avanti Vico parlerà di tanti Ercoli e, infine, dirà esplicitamente che tutti gli dei e tutti gli eroi sono comuni a tutti i

451 Lavorando sul tema della corporeità in Vico, bisognerebbe tenerne presente sempre quello delle passioni che gli è intimamente connesso. Ciò può risultare interessante non solo perché rappresenta un altro punto di confronto con Cartesio, tanto che alcuni hanno ritenuto, da certi punti di vista, la Scienza nuova come una «riscrittura ribaltata delle Passions de l’âme», ma anche per il rapporto che la dimensione delle passioni ha, in generale, per la retorica. 452 Op. cit., p. 84.

453

Cfr. Ibidem. 454 Op. cit., p. 208.

popoli primitivi che se li rappresentano, dando nomi diversi, ma riferendosi alla stessa realtà.

In relazione all’importanza che il senso comune ricopre nella Scienza nuova lascia, certo, perplessi, il fatto che compaia esplicitamente in pochissimi luoghi. Ciò non deve, tuttavia, far sorgere alcun dubbio, anzitutto perché i passi in cui se ne parla sono molto significativi, ma anche per il ruolo che gli è dato dal fatto di attraversare in profondità tutta la Scienza nuova, rendendo possibile il percorso che in essa viene delineato. Il fatto che sia introdotto nell’XI degnità, quindi nel gruppo dedicato ai «fondamenti del vero» potrebbe non essere casuale e, in ogni caso, quella collocazione agisce quasi da monito, ricordandoci che il vero con cui abbiamo a che fare è tale solo in quanto inserito all’interno di quell’ambito di significatività, dato dal senso comune e dalla dimensione retorica che esso richiama. Come si può notare, il piano del discorso richiama molto quello del De

ratione, quello che cambia completamente è il contesto, il quale da pedagogico

diviene civile, sociale e antropologico e possiede delle premesse metafisiche e teologiche certo estranee allo scritto di allora. Anzi, per collocare precisamente il senso comune all’interno della Scienza nuova bisognerebbe tenere a mente la sua