• Non ci sono risultati.

L’esigenza di un ripensamento

Parlare di «ripensamento» è, forse, la maniera migliore per esprimere la complessità dell’azione in corso nella mente di Vico, purché si concepisca l’attività del ripensare come una riflessione che avviene due volte con la medesima forza: nel primo momento si ha un pensiero volto alla comprensione, finalizzato, cioè, a maturare una conoscenza approfondita degli autori coi quali si entra in contatto; nel secondo deve avvenire, invece, lo sforzo di rimettere tutto in discussione,

dovuto al fatto di aver assimilato talmente bene i concetti coi quali ci si misura, da essere in grado di elaborarli in maniera inedita, dotandoli di una forza diversa e scoprendo per essi nuove potenzialità. I due atteggiamenti in questione non entrano mai in conflitto: la profonda adesione non esclude (ma, anzi, rende possibile) la problematizzazione, così come il momento della messa in discussione non genera un rifiuto di ciò che precedentemente si è accolto, ma ne garantisce una ricezione più matura ed efficace.

In questo paragrafo, dunque, ci concentreremo sul secondo momento, per poi mostrare, nel prossimo, come i due aspetti confluiscano nell’elaborazione di originali intuizioni, attraverso una sintesi resa possibile dal particolare atteggiamento assunto da Vico.

Per ora, dunque, metteremo in luce innanzitutto la maniera specifica in cui avviene l’attività di rilettura, secondariamente anticiperemo la tendenza di Vico di collegare in maniera originale temi apparentemente sconnessi ed eterogenei. Quest’ultimo punto ci servirà proprio per allacciarci al paragrafo successivo in cui tenteremo di richiamare l’attenzione sulla genesi e lo sviluppo dell’idea di una disciplina armonizzante che tenderà a coincidere sempre di più con la retorica.

Abbiamo più volte notato che gli autori del passato forniscono a Vico molti interessanti spunti di riflessione grazie ai quali crede di poter reagire all’aridità

della sua epoca caratterizzata da un eccesso di razionalità95.

Tuttavia, la consapevolezza dell’insufficienza di un atteggiamento volto all’imitazione, lo spinge ad assumere una prospettiva particolarmente critica (e, per certi versi, quasi polemica) nei confronti di chi lo ha preceduto. È questa la fase della problematizzazione che, talvolta (e in un contesto diverso da quello qui considerato) si esprime nella dichiarata volontà di svolgere le ricerche come se non

fossero mai esistiti altri libri al mondo96. Diventa, così, sempre più forte l’esigenza

di muoversi verso qualcosa di nuovo. Si tratta, naturalmente, di un atteggiamento che accomuna molti filosofi, ma ciò che rende particolare quello di Vico è, come accennato in precedenza, la convivenza di un’erudizione, a volte quasi eccessiva, e

di un’originalità assolutamente fuori dal comune97. Il suo tentativo, insomma, è

quello di far interagire le solide basi culturali con un atteggiamento mentale sempre vivo, accompagnato da continue esortazioni, rivolte ai lettori, ad appellarsi alla propria mente e valorizzarne la forza. In fondo, non è certo un caso se, prima ancora di insistere sull’importanza dei modelli, Vico ponga come fondamento della

cultura la conoscenza di se stessi98. Certamente a lui, come sottolinea Battistini

ricordando il giudizio di Harold Bloom, è possibile attribuire la stessa disperazione di tutti i moderni per il fatto di essere arrivati troppo tardi, sentendo, quindi, il peso

dal passato e vivendo nel terrore che non ci sia più nulla da dire99. Ciò può

generare una vera e propria paralisi, alla quale è possibile reagire in due modi: immaginando che non vi siano altri libri al mondo, accettando, così, la lezione di

96 Cfr. Vico, Princìpi di Scienza Nuova, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano, 1990, p. 175.

97 La dimostrazione esemplare di ciò si avrà nella Scienza nuova, dove la quantità quasi eccessiva di riferimenti eruditi convive, in una sorprendente armonia, con esiti originali che, a una lettura superficiale, sembrano quasi rasentare la fantasia.

98

Cfr. G. Vico, Orazioni Inaugurali, in Idem, Opere, a cura di P. Cristofolini, cit., pp. 706-718. 99 Cfr. Battistini, Introduzione a Vico, Principi di scienza nuova, Mondadori, Milano, 2011, p.16.

Cartesio e Bacone; oppure mettendo in pratica «l’atto agonistico del misreading,

della lettura che deforma, del confronto dialettico»100. È di questa seconda

possibilità che ci occuperemo in questo paragrafo. La scelta non è del tutto arbitraria: sebbene il primo atteggiamento sia esplicito nelle intenzioni dell’autore (come abbiamo detto precedentemente, ricordando il famoso passo della Scienza

nuova) lo si può considerare un’estremizzazione della volontà di rinnovamento di

Vico a cui lui stesso ricorre, forse, per accentuare l’originalità della sua scoperta; ma il punto di vista della lettura deformante rispecchia più fedelmente il suo atteggiamento generale. Su queste basi Battistini si spinge addirittura a giustificare le sviste e gli errori (che invece, sono molto duramente denunciate da altri interpreti come Fausto Nicolini), affermando che «l’uomo moderno se non vuole essere ridotto al silenzio imposto dal déja vu deve per forza compiere un atto di

violenza testuale»101.

Si può facilmente comprendere che la posta in gioco sia molto alta e presenti interessi che vanno anche oltre la specificità del presente studio: in che senso si può parlare di «originalità» quando si ha l’impressione che tutto sia già stato detto? È un interrogativo che si fa sentire oggi più di allora e di fronte al quale, spesso, ci si rassegna a una risposta troppo riduttiva che imporrebbe di accostarsi al già pensato senza avere il coraggio di ripensarlo realmente, senza provare a confrontarsi con esso e trovandosi a scegliere fra due condizioni altrettanto improduttive: una lettura che non va oltre la superficiale comprensione oppure la

100 Idem, Introduzione a Vico, Opere, a cura di Battistini, cit., p. XXIV. 101 Op. cit., pp. XXIV-XXV.

presuntuosa pretesa di poter dire il nuovo liberandosi di quella tradizione che si avverte come un peso.

La stessa situazione si ha ai tempi di Vico e a essa egli reagisce intuendo possibilità interessanti che si basano sull’idea che per lo sviluppo della conoscenza sia indispensabile un’interazione fra ispirazione al passato e autonomia delle proprie riflessioni. La prima senza la seconda non sarebbe altro che imitazione senza possibilità di rivelarsi proficua, mentre la seconda senza il supporto della prima si tramuterebbe in una pretesa di comprendere la realtà col solo ausilio delle forze mentali, senza domandarsi quali strade siano già state esplorate, giungendo così a esercitare esclusivamente un’arida razionalità troppo distante dal mondo umano. Il primo atteggiamento è quello tipico del Barocco, mentre il secondo rispecchia il modo di fare dei Cartesiani. In ogni caso si tratta di un metodo destinato a fallire. In Vico, al contrario, le due prospettive convivono senza intralciarsi reciprocamente. Non a caso, nell’ambito delle prolusioni accademiche, mette in guardia da «coloro che abusano degli studi delle lettere […] mutando il

cibo e diletto degli animi in veleni malefici ed ingrati»102. La prospettiva che più di

ogni altra lo preoccupa è la possibilità che ci si lasci plasmare dalla cattiva cultura, crogiolandosi nella convinzione che tutto ciò che poteva esser fatto sia stato realizzato dai grandi del passato. Per questa ragione, inizia a interrogarsi in maniera critica sul vastissimo patrimonio culturale studiato soprattutto nel corso del soggiorno a Vatolla, parlando del quale Vico rivendica l’autonomia

dell’indirizzo dei suoi studi, privo dei condizionamenti della «città, nella quale,

come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere»103. In

riferimento a questo tema risultano molto utili le pagine di Battistini, il quale, interrogandosi sul rapporto presente fra Vico e la cultura filosofica e retorica del suo tempo, scrive: «Tra chi ribadì, anche nei giorni del suo decadere, la fiducia nel modello umanistico dell’età greco-romana e chi ne denunziò con insofferenza i caratteri obsoleti e ormai inadeguati si aprì un contenzioso che, dietro le figure storiche di Aristotele, Tolomeo, Galeno, Omero da una parte e Bacone, Galileo, Cartesio (più tardi integrati da Locke e Newton) dall’altro, oppose due modi di pensare e due universi di discorso nei quali le qualifiche di “antichi” e di “moderni” smarrirono il connotato temporale per assumere un profilo metodologico e disciplinare, quasi che dietro queste etichette si riproponesse una nuova disputa delle arti ormai indirizzata verso quello scontro che nel Novecento riguarderà le “due culture”: l’umanistica e la scientifica. Il partito degli antichi, sommando ideali eterogenei, attribuiva all’età classica ogni perfezione, con un conseguente appello al principio di autorità, ai valori della tradizione […] a una scrittura che, ubbidiente al decoro e all’armonia, non venisse mai meno ai canoni edonistici del bello. I fautori della modernità, viceversa, credevano nel progresso e, quindi, nella superiorità di tutto ciò che viene dopo, invocando la libertà di dissentire anche con una revisione assoluta dei metodi del passato, una volta che a contare non erano più il prestigio delle citazioni ma l’esperienza e la ragione, i cui responsi dovevano essere tradotti in forme chiare e distinte, senza orpelli perché al

servizio del vero. Anche da questa schematica esposizione oppositiva, non è difficile identificare in chi si professava fedele agli antichi la preferenza per la retorica e le scienze dello spirito, dal momento che il discorso argomentativo […] traeva i suoi contenuti dal grande emporio della topica, del già detto sedimentatosi nel tempo e conservato nella memoria storica, così come alla modernità si abbinavano la logica e le scienze della natura che, andando alla ricerca di verità sconosciute, non potevano ricorrere alla topica ma ricercavano un «metodo», ossia una guida capace di avventurarsi lungo una strada […] mai percorsa prima. E la

logica non forniva verità da ri-usare, ma insegnava la strada per arrivarci»104.

Quanto scritto da Battistini ci fornisce tutti gli elementi per capire in che senso Vico, pur essendo, senz’altro più vicino alla prima «cultura», presenti una complessità di pensiero tale da poter essere considerato al di sopra della stessa distinzione. La sua particolarità sta, infatti, nell’essere un moderno che non vuole liberarsi dalle sue radici, perché non ne avverte il peso ma sente l’esigenza di valorizzarle e sa che, per farlo, è indispensabile renderle vive. Non disprezza il progresso, ma, diversamente da molti suoi contemporanei, riesce a cogliere i pericoli legati a un eccesso di modernizzazione e crede anche che sia indispensabile porsi in continuità col passato, per poi magari stravolgerlo, ma solo dopo averlo ampiamente e scrupolosamente interrogato. Ed ecco perché di quel «già detto sedimentatosi nel tempo e conservato nella memoria storica», Vico scopre tutta la forza propulsiva. E se i moderni rifiutano la retorica, convinti di

poter tracciare una strada nuova attraverso la logica, Vico prova a inoltrarsi in una via, magari già percorsa, ma lo fa in una maniera così nuova da riuscire a scoprire in essa sentieri fino a quel momento inesplorati, tracciando, così, percorsi alternativi.

È ancora Battistini a illuminarci a riguardo, ricordandoci che «la risposta di Vico alla querelle tra antichi e moderni perde la ristrettezza di una contesa in cui si doveva per forza assegnare un primato e diventa un sistema pedagogico

complessivo»105. Forse, anche in questo senso, Vico torna a Napoli come uno

«straniero nella sua patria»106 dopo il soggiorno a Vatolla, ma proprio in virtù di

quanto è stato detto fino a questo punto possiamo renderci conto che quei nove anni di studio, anziché tagliarlo davvero fuori dalla sua città, lo rendono solo molto

più originale rispetto a essa107.

E se il confine fra originalità e insensatezza è sottile, a volte quasi impercettibile, è lo stesso Vico a richiamare l’attenzione su questa distinzione. Infatti, se egli vede in ognuno dei suoi autori degli indizi da cui partire per creare qualcosa di nuovo attraverso ingegnose connessioni, possiamo affermare, recuperando una sua stessa metafora, che i suoi discorsi si presentano come dei veri e propri nastri, in quanto, proprio come un nodo, legano insieme elementi

diversi108. E mai queste connessioni risultano bizzarre, perché Vico applica il

105 Op. cit., pp. 23-24. 106 Vico, Vita…, cit.,

107 Cfr. Battistini, I topoi autobiografici…, cit., p. 52. 108

Nella Vita Vico dice di se stesso: « e con la spessa lezione di oratori, di storici e di poeti dilettava l’ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragion comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri

principio da lui stesso stabilito, per il quale la virtù dell’ingegno risiede nell’acutezza e si ottiene dando vita a connessioni audaci, ma non eccessivamente acute, perché in tal caso, se non sono anche profonde e vere, meritano di esser

qualificate negativamente e si rendono colpevoli di argutezza109. Questo modo di

fare emerge in tutta la sua complessità nelle pagine dell’autobiografia, dove Vico appare come un soggetto che «non è un’essenza a priori ma un contesto culturale e

linguistico comunicativo»110. La sua intenzione non è quella di tornare indietro nel

tempo cancellando i progressi della cultura, ma di valorizzare quei progressi stessi rendendoli più fruttuosi, attraverso l’applicazione, quando necessario, di qualche

utile «correttivo»111 spesso individuato nella tradizione della retorica antica.

È questo l’atteggiamento che rende possibile la genesi delle grandi «discoverte» vichiane e proprio su di esso è bene richiamare l’attenzione, in quanto «colui […] che non ha informato gli studi delle lettere alla sapienza, generatrice della felicità umana, scioglie forse le pene della lingua o della mente, ma non quelle dell’animo. Per la qual cosa vi sono molti uomini dottissimi i quali tuttavia sono pervasi dall’ambizione, vivono in continua ansia per un fugace vanto di erudizione, si rodono d’invidia per i più dotti. Ciò accade perché essi si proposero come fine

quegli studi che invece sono dei mezzi per procurarsi la sapienza»112. I cattivi dotti

dell’eloquenza che fanno dilettevoli l’acutezze» (Vico, Vita…, cit., p. 16). Cfr. Leonardo Amoroso, Nastri vichiani, ETS, Pisa, 1997, p.9.

109 Ibidem.

110 Fabrizio Lomonaco , Op. cit., p. 29. 111

Battistini, Vico nella cultura filosofica e retorica…, cit., p. 24.

qui descritti rappresentano, in fondo, la faccia della stessa medaglia rispetto agli stolti, a cui Vico dedica la seconda orazione.

Sempre nelle orazioni emerge il proposito del filosofo di esaltare il valore sociale della cultura che si concretizza proprio grazie all’eloquenza. Ci troviamo ad avere di nuovo a che fare con un retroterra risalente a Cicerone e Quintiliano. Ai tempi di Vico molte delle loro idee si erano già tramutate in topoi e ciò fa emergere ancora di più il merito del filosofo che risale alla nascita di nozioni ampiamente consolidate, senza perdere il coraggio di confrontarsi con esse. Il caso della topica risulta emblematico. Vico riprende la concezione ciceroniana della sua superiorità rispetto alla critica, ma tutto ciò in lui acquista fin da subito una nuova dimensione filosofica. Non si deve credere che questa dimensione fosse assente in Cicerone, il quale concepiva la sua attività come il tentativo di ricostituire la rottura fra intelletto e linguaggio, di cui era considerato colpevole Socrate, ma in lui questa prospettiva rimane molto più legata all’ambito specifico del diritto e della politica. Anche per Vico l’oratoria forense ha statuto paradigmatico e proprio per questo recupera dal De inventione rhetorica di Cicerone l’idea del linguaggio come ponte fra fatto e legge, perché è vero che la legge stessa è linguaggio, ma lo è in una

forma cristallizzata113. Attraverso lo studio dei testi giuridici Vico arriva a non

avere dubbi sul fatto che non ci sia separatezza fra linguaggio e pensiero, in quanto i fatti (che, presi in sé, sono indeterminati) richiedono di essere definiti e le stesse

definizione necessitano di essere riviste all’interno di un contesto sociale, perché

non esiste linguaggio valido al di fuori di una comunità114.

Tutto ciò rappresenta la cornice all’interno della quale verrà dipinto un quadro in cui tinte molte volte usate si combinano e danno vita a tonalità completamente nuove. Proprio allo scopo di accentuare la novità vichiana, Grassi ricorda che nel discorso si distinguono due aspetti: ciò che è detto e il modo in cui è detto (tema presente tanto in Cicerone, quanto in Quintiliano che vi dedica gran parte dell’

Institutio Oratoria). Ora, ogni forma di discorso, - argomenta Grassi, facendo

riferimento alle tre tipologie individuate dalla tradizione - è costituita da cinque

parti, la prima delle quali è l’inventio115. Ciò significa che, affinché abbia luogo il

processo razionale per cui un passaggio può essere dedotto da quello che viene prima, c’è bisogno di un momento (precedente tutto ciò) consistente nel trovare gli

argomenti116, perché altrimenti avremo un discorso forse corretto, ma non efficace.

L’errore, quindi, è quello di considerare la topica come un «armamentario» di argomenti ritrovabili in specifici luoghi. Ecco perché Vico insiste nel dire che essa

è dottrina dell’invenzione117

.

A questo punto entra in gioco l’ingegno che ha proprio il ruolo di «invenire» le

premesse e si configura come «facoltà volta all’originario, all’arcaico»118. Da qui è

già evidente come Vico stia caricando di significato filosofico concetti che nascono

114 Cfr. op. cit., p. 113.

115 Cfr. Grassi, Vico e l’Umanesimo, cit., p. 35. 116 Ibidem.

117

Op. cit., pp. 35-37. 118 Op. cit., p. 38.

in contesti più tecnici e che adesso mostrano la loro forza anche in ambiti diversi da quelli di origine.

Ciò avviene già a partire dal pensiero giovanile, sebbene in forma più inconsapevole rispetto a quello che succederà nella Scienza Nuova. Fin dai tempi delle orazioni, infatti, è presente un abbozzo di quello che, nel pensiero più maturo, diventerà un vero e proprio progetto. Si tratta, per adesso, di un insieme di indizi sparsi che, pur non essendo dotati ancora di forma sistematica, è possibile cogliere in maniera inequivocabile. La volontà di rinnovamento è visibile già nelle orazioni e ciò è molto significativo, considerando che diversi studiosi hanno visto in esse la mera adesione del filosofo ai precetti ciceroniani e umanistici. Certamente questo elemento è presente, ma non si possono tralasciare le pagine in cui si fanno sentire i primi spunti che si trasformeranno in vere e proprie novità. Oltretutto, bisogna tenere a mente che proprio al 1699 risalirebbe la prima compilazione delle

Institutiones Oratoriae119, in cui Vico non si limita a riproporre la tematica che

parte da Aristotele, passa per Cicerone e Quintiliano, e attraverso la tradizione medievale, era pervenuta nell’età umanistica, acquisendo fino al Seicento una sempre maggiore precisione terminologica e concettuale, ma le conferisce una pienezza di significato, donandole, nello stesso tempo, un’inedita connotazione filosofica. L’intento dello scritto è senz’altro ciceroniano: impartire un insegnamento il più possibile completo della retorica, in vista di una carriera verosimilmente giuridica. Ma a questo scopo diventano funzionali una serie di

riflessioni aristoteliche rintracciabili fra le pagine della Poetica e della Retorica alle quali si lega la tradizione latina. In aggiunta a ciò, come già anticipato prima, Vico riscopre quegli autori barocchi che avevano recuperato ancor prima di lui la tradizione antica e avevano cercato di imitarla, nell’elaborazione delle loro dottrine. Egli non si limita, però, a scoprirli, bensì li corregge, utilizzando le nozioni di cui loro stessi si sono serviti, ma coniugandole in una forma nuova e più efficace. Emblematico è il caso dell’«amplificazione», nozione ampiamente tematizzata da Aristotele che Vico da un lato recupera e mette in pratica egli stesso, come mostrano le pagine dell’autobiografia, da un altro tenta di correggere dalla forma che le avevano conferito gli esponenti del Barocco: essa può essere utilizzata solo mantenendo come fine non quello di abbellire il discorso, ma di

accrescerne l’efficacia, altrimenti si deve preferire l’argomentazione120.

In tal senso e al fine di evitare che la retorica si configuri solo come forma ornata, Vico fa valere la convinzione aristotelica relativa al fatto che suo tratto