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Evoluzione della normativa europea per la gestione del rischio BSE sul territorio comunitario

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Veterinarie

Corso di Laurea Magistrale in Medicina Veterinaria

Tesi di Laurea

“Evoluzione della normativa europea per la gestione del rischio BSE sul

territorio comunitario”

Relatore

Prof. Andrea Armani

Candidato

Silvio Mazzei

Correlatore

Dott. Ernesto Bazzali

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Riassunto

L’Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE) è una Encefalopatia Spongiforme Trasmissibile che causa gravi disturbi neurodegenerativi. La malattia è comparsa nel 1987 nel Regno Unito probabilmente in relazione all’utilizzo nei mangimi di farine di origine animale infette. Nel 2001, successivamente alle numerose misure adottate nel corso degli anni nel Regno Unito, a livello europeo è stato adottato il Reg. (CE) n. 999/2001. Lo scopo di questa tesi è stato quello di valutare l’evoluzione della gestione del rischio BSE sul territorio europeo, analizzando il Reg. (CE) n. 999/2001 e le relative modifiche riguardanti gli Allegati II e V relativi alla classificazione dei Paesi in base al rischio BSE ed i tessuti considerati Materiale Specifico a Rischio (MSR). Inoltre, sono stati analizzati i dati ufficiali OIE (2001- 2016) in merito ai nuovi casi sul territorio europeo; con un approfondimento per l’Italia mediante i dati forniti dal Ministero della Salute. I risultati mostrano che le modifiche al Reg. (CE) n. 999/2001 sono state 52. Di queste, 3 hanno apportato cambiamenti al sistema di classificazione dei Paesi in merito al rischio BSE e 3 alla gestione dei MSR. Esse hanno portato le qualifiche sanitarie dei Paesi da 5 categorie a 3 categorie e modificato i tessuti considerati MSR in relazione a pareri scientifici emanati dall’EFSA. I dati OIE mostrano come durante i primi anni di attuazione della normativa si siano verificate importanti diminuzioni di casi BSE all’interno dei maggiori Paesi europei. I dati forniti dal Ministero della Salute mostrano come l’Italia, seppur incontrando alcune difficoltà in alcune regioni, stia applicando in modo puntuale la normativa europea. In conclusione, è possibile affermare come la corretta gestione del rischio BSE abbia permesso di arginare la problematica santaria sul territorio europeo.

Parole chiave: BSE, prioni, epidemia, normativa europea, MSR.

Abstract

Bovine Spongiform Encephalopathy (BSE) is a Transmissible Spongiform Encephalopathy which causes severe neurodegenerative problems. This disease appeared in the UK in 1987, probably relating to infected meat and bone meals used for cattle’s feeding. In 2001, as a result of several UK measures, the Reg. (CE) n. 999/2001 has been adopted in Europe. The aim of the present work was to evaluate the evolution of BSE’s risk managment in Europe, analyzing the Reg. (CE) n. 999/2001 and its amendments. Particular attention was given to the Attachment II and V concerning the classification of countries according to their BSE risk and the Specific Risk Material tissues, respectively. In addition, OIE’s official data (2001-2016) about new BSE cases in Europe have been analysed and an in-depth study on Italy was performed using the Ministry of Health official data. Results show that there have been 52 amendments to the Reg. (CE) n. 999/2001. Of these, 3 modified the classification of countries according to their BSE risk and 3 the MSR risk managment. The countries classification passed from 5 to 3 categories and SRM tissues have been modified regarding EFSA’s advices. OIE’s official data show how, immediately after the new regulation’s application, a net decrease of BSE’s cases occurred within European Countries. The Ministry of Health official data show how Italy, although encountering difficulties in some regions, is correctly applying the European normative. To conclude, it’s possible to affirm that a correct BSE’s risk managment allowed to control this public health’s issue within the European territory.

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Indice

CAPITOLO 1: LE MALATTIE DA PRIONI ... 5

1.1 Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili (TSE) ... 5

1.2 La proteina prionica ... 6

1.3 Principali malattie che infettano animali diversi dai bovini ... 7

1.4 Eziologia... 9

1.5 Epidemiologia ... 10

1.6 Segni Clinici ... 11

CAPITOLO 2: ENCEFALOPATIA SPONGIFORME BOVINA ... 13

2.1 La comparsa della malattia ... 13

2.2 Origine della BSE ... 14

2.3 Modalità di trasmissione ed epidemiologia della BSE ... 16

2.4 Segni clinici e diagnosi ... 18

2.4.1 Diagnosi ante-mortem... 18

2.4.2 Diagnosi post-Mortem ... 19

2.5 Misure di controllo attuate ... 20

2.5.1 Ruminant Feed Ban ... 20

2.5.2 Re-inforced Feed Ban... 21

2.5.3 SRM Ban ... 22

2.5.4 La regola dei 30 mesi e il Test rapido per BSE ... 23

2.6 Dati sulla sorveglianza in Europa ... 25

2.7 Analisi del rischio geografico BSE ... 26

CAPITOLO 3: NORMATIVA DI SETTORE ED ANALISI DEL RISCHIO ... 29

3.1 Normativa Comunitaria ... 29

3.1.1 Libro Verde e Libro Bianco ... 29

3.1.2 Normativa antecedente il Regolamento (CE) 999/2001. ... 29

3.1.3 Regolamento (CE) 1760/2000 ... 30

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3.1.5 Il Regolamento 178/02, l’Analisi del Rischio ed il Pacchetto Igiene ... 33

3.2 Normativa Nazionale ... 40

CAPITOLO 4: SCOPO DELLA TESI ... 42

CAPITOLO 5: MATERIALI & METODI ... 43

5.1 Raccolta dei testi normativi ... 43

5.2 Analisi dei testi normativi ... 45

5.3 Analisi dei casi di BSE nei Paesi dell’Unione Europea ... 45

CAPITOLO 6: RISULTATI E DISCUSSIONI ... 46

6.1 La classificazione dei Paesi a rischio BSE ... 46

6.2 Normativa riguardante i Materiali Specifici a Rischio dei bovini ... 55

6.3 Evoluzione della casistica BSE dal 2001 al 2016 ... 59

6.3.1 Situazione a livello europeo ... 59

6.3.2 Situazione a livello nazionale ... 60

CAPITOLO 7: CONCLUSIONI ... 64

Bibliografia ... 65

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CAPITOLO 1: LE MALATTIE DA PRIONI

1.1 Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili (TSE)

Le malattie da Prioni, dette anche Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili, sono un gruppo di disturbi neurodegenerativi causati da errori di ripiegamento di una proteina prionica (PrPC) con l’accumulo della sua isoforma patologica malripiegata (PrPSc), che sono stati osservati sia nell’uomo che in alcune specie animali e che rappresentano una grande minaccia per la salute umana ed animale (Prusiner, 1998, Taema 2012).

Il termine “prione” è stato coniato da Stanley B. Prusiner ed è stato definito come una “piccola particella proteica infettiva e resistente all’inattivazione dalla maggior parte delle procedure che modificano gli acidi nucleici” (Prusiner, 1982).

Le malattie da Prioni che colpiscono l’uomo comprendono il Morbo di Creutzfeldt-Jakob (CJD), l’Insonnia Familiare Fatale (FFI), la Malattia di Gerstmann–Sträussler–Scheinker e il Kuru.

Nel mondo animale le malattie da Prioni si riscontrano nella specie bovina con l’Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE), nella specie ovi-caprina con la Scrapie e nei cervidi con la Sindrome del dimagrimento cronico (CWD).

Eziologicamente le malattie da Prioni si presentano in forma sporadica, familiare o acquisita. La forma sporadica è dovuta ad un errore spontaneo nel ripiegamento della proteina prionica, la forma familiare ad una predisposizione genetica per lo sviluppo della malattia, e la forma acquisita è dovuta all’introduzione di materiale infetto dall’esterno, tramite esposizione o ingestione di un alimento di origine animale infetto. Infatti, qualunque sia l’origine della malattia, un tessuto affetto da malattia prionica è in grado di trasmetterla ad un destinatario sensibile; questo è il meccanismo base di trasmissione delle Malattie da Prioni (Whitechurch et al. 2017).

Pur variando nella loro presentazione clinica tutte le malattie da Prioni sono caratterizzate da tre distinti segni patologici; la formazione di vacuoli all’interno dei neuroni che rendono il tessuto spugnoso, la proliferazione degli astrociti e l’accumulo extracellulare di proteina prionica in tutto il tessuto cerebrale (Field EJ, Peat A. 1969; DeArmond SJ et al. 1987). Le Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili sono quindi un gruppo di malattie umane ed animali che condividono alcune caratteristiche:

• Trasmissibilità orale tra ospiti suscettibili; • Lungo periodo d’incubazione asintomatico;

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• Assenza di risposta immunitaria alla malattia;

• Tessuto cerebrale spongioso e formazione di vacuoli nella fase clinica:

• Accumulo di placche amiloidi contenenti aggregati dell’isoforma patologica (PrPSc) della proteina prionica fisiologica (PrPC);

• Nessun vaccino o trattamento terapeutico disponibile (Doherr, 2007)

1.2 La proteina prionica

La proteina prionica nella sua forma nativa (PrPC) è una glicoproteina codificata dal gene della proteina prionica (Prnp), composta da 256 aminoacidi nella pecora e 264 nel bovino. Ha un terminale peptidico che collega la proteina al reticolo endoplasmatico, il quale si sfalda dopo la traduzione proteica. Seguono due domini, un sito non strutturato N-terminale e un sito C-terminale a maggioranza di alfa-eliche che presentano due rispettivi siti di glicosilazione. La regione C-terminale contiene anche un dominio carbossi-terminale, responsabile dell’ancoraggio della PrPC alla faccia esterna della membrana cellulare tramite il glicosilfosfatidilinositolo (GPI). Si trova in grande concentrazione soprattutto a livello neuronale e gliale, mentre in concentrazioni più basse è espressa anche in altre cellule e tessuti come il sangue, cellule del tratto digerente, linfociti e pelle (Bendheim et al. 1992; Lloyd et al., 2011; Riesner, 2003).

Una delle sfide più impegnative della biologia moderna è stato quello di determinare il ruolo fisiologico della proteina cellulare prionica. La sua funzione è stata messa in relazione alla fissazione del rame, all’emostasi cellulare (Kretzschmar et al., 2000), all’assorbimento e al trasporto del ferro all’interno della cellula (Singh et al., 2009), ad un’azione neuroprotettiva contro lo stress ed alla regolazione dell’apoptosi (Roucou and LeBlanc 2005). Più recentemente uno studio condotto su dei roditori ha dimostrato come la PrPC sia necessaria per le cellule dell’endotelio del microcircolo cerebrale per migrare in regioni danneggiate del cervello (Watanabe et al., 2011). Tuttavia, ad oggi, nella comunità scientifica non esiste un consenso comune al ruolo di questa proteina (Taema, Maged 2012).

Studi effettuati tramite spettroscopia nei criceti hanno mostrato come la PrPC sia ricca di Alfa-eliche (42%) e povera di foglietto (3%), mentre la PrPSc presenti un aumento delle Beta-foglietto (43%) a fronte di una diminuzione delle Alfa-eliche (30%). Infatti, nelle malatte da Prioni la PrPC subisce un evento che ne provoca il mal ripiegamento. In generale, il mal ripiegamento della proteina prionica celluare è dovuto ad una serie di mutazioni, cofattori o ad un contatto diretto con la proteina degenerata. Sembra infatti che la PrPSc abbia la capacità di diffondersi dividendosi tra cellule e tessuti facendo si che tutte le molecole PrPC si trasformino

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nella forma nociva (Whitechurch et al. 2017). La PrPSc è stata identificata per la prima volta nel 1982, come responsabile della Scrapie negli ovini, da lì in poi le è stato attribuito un ruolo determinante nella maggior parte delle malattie da Prioni conosciute, anche se l’esatto meccanisco con cui la proteina muta nella seconda forma non è ad oggi del tutto chiaro (Whitechurch et al. 2017).

I metodi per la conferma di un’infezione si basano sulle tre differenze biochimiche principali tra la PrPC e la PrPSc:

• Differenza nel contenuto di Alfa-eliche e Beta-foglietto;

• Solubilità della PrPC in detergenti non ionici, a differenza della PrPSc;

• Resistenza della PrPSc alla proteolisi, contrariamente alla PrPC (Meyer et al. 1986).

1.3 Principali malattie che infettano animali diversi dai bovini

I primi riferimenti alle malattie da Prioni riguardano la Scrapie, malattia dei piccoli ruminanti. La denominazione origina dal verbo inglese “to scrape”, che significa “grattare”, proprio a causa della manifestazione clinica degli animali affetti. Questi presentano infatti un intenso prurito in alcune zone del corpo oltre che altri disturbi neurologici e comportamentali come l’ipereccitabilità e l’atassia (Whitechurch et al. 2017).

I primi riferimenti alla Scrapie sono del XVIII sec.; la comunità scientifica pensò che si trattasse di una patologia connessa a parassiti o ad un processo distrofico (M’Gowan JP, 1914). Solo alla fine degli anni ’30, in Scozia, si è avuta la conferma della possibilità di trasmettere la malattia per via iatrogena. In seguito alla somministrazione di vaccini per il Louping-ill virus, ricavati da estratti di tessuto linfoide ottenuto da ovini infetti si verificarno infatti oltre 1500 casi di Scrapie nei due anni successivi (Gordon WS. 1946, Pozzato et al.). La patologia si diffonde facilmente tra diversi greggi, ed è stato dimostrato come l’infiammazione cronica può alterare il tropismo del Prione verso tessuti che si credevano invece liberi come la ghiandola mammaria. Questa scoperta ha notevolmente aumentato la preoccupazione riguardo la trasmissione della Scrapie tramite il latte (Ligios et al. 2005).

La patologia è caratterizzata da lunga incubazione, alta trasmissibilità e lesioni a carico del sistema nervoso centrale ad esito letale; dal 1991 è inserita tra le malattie a carattere infettivo e diffusivo soggette a denuncia obbligatoria.

Le caratteristiche più importanti di questa malattia comprendono:

• La possibilità di riscontrare la presenza e l’accumulo della PrPSc nei tessuti linfatici periferici, come linfonodi e tonsille, prima della manifestazione clinica;

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• Un ampio gruppo di segni clinici comprendenti vari gradi di prurito, atassia e sintomi neurologici;

• La contaminazione dell’ambiente, da parte dei piccoli ruminanti, attraverso l’escrezione di materiale infetto tramite placente, invogli fetali e liquido amniotico;

• L’assenza di una prova legata ad una contaminazione correlata al mangime nella Scrapie Classica dei piccoli ruminanti;

• L’assenza di una prova che colleghi la Scrapie a nessuna delle malattie da Prioni che colpiscono la specie umana (Doherr 2007).

Nel 1998 fu segnalato un caso di Scrapie anomalo in Norvegia ed il ceppo fu classificato come Nor98. Questo ceppo differisce dalla forma classica per la distribuzione delle lesioni istopatologiche e per il deposito della PrPSc, con la formazione delle lesioni patologiche prevalentemente a livello della corteccia cerebrale e cerebellare invece che a livello del tronco encefalico come nella forma classica (Benestad et al. 2003). Da quel momento in poi la sorveglianza attiva europea ha fatto si che si scoprissero altri casi di Scrapie atipica in altri Paesi. In alcune zone geografiche la forma atipica della Scrapie è più frequente di quella tipica (Everest et al. 2006).

Altra Encefalopatia spongiforme è la Sindrome del dimagrimento cronico (CWD), la sola encefalopatia spongiforme trasmissibile del cervo mulo (Odocoileus Hemionus), del Cervo dalla coda bianca (O. Virginianus) e del Wapiti (Cervus Elaphus Nelsoni) nel Nord America. Il primo caso clinico fu riscontrato nel 1965 in un branco di cervi in cattività, anche se la prima descrizione in letteratura risale al 1980 (Williams et al. 1980). Da lì in poi si è diffusa prima in altri branchi in cattività fino poi a raggiungere anche la popolazione selvatica ed adesso mantiene un ciclo infettivo sia in gruppi in cattività che in gruppi selvatici.

La CWD presenta delle somiglianze con la Scrapie, anch’essa infatti accumula PrPSc nel tessuto linfonodale, che ne contribuisce alla diffusione prima che si sviluppino segni clinici e si diffonda anche a livello del Sistema Nervoso Centrale. Questo tipo di distribuzione tissutale, associata all’escrezione dell’agente infettivo nell’ambiente, comporta quindi la possibilità di osservare un tipo di trasmissione orizzontale decisamente più simile a quello della Scrapie piuttosto che della BSE. Anche i segni clinici e le lesioni anatomo-patologiche stesse sono somiglianti alla TSE ovi-caprina; solamente dopo un lungo periodo di incubazione con un decorso clinico variabile esse si manifestano a livello del sistema nervoso centrale. Durante il periodo di incubazione la PrPSc può essere individuata tramite sistemi di rilevamento anticorpale.

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Anche se è stato dimostrato che tramite inoculazione intracerebrale è possibile trasmettere la CWD a pecore, capre e bovini, non è stata dimostrata la sua diffusione a queste specie per via orale (Williams et al. 2005).

Nel Nord America la diffusione della CWD è in espansione (Doherr 2007), mentre i continui controlli fatti sulle popolazioni di cervidi in Europa ci dicono che sul territorio europeo non sono mai stati riscontrati casi positivi prima del 4 aprile 2016, quando in territorio norvegese il Norwegian Veterinary Institute ha diagnosticato la malattia in una renna selvatica (Rangifer Tarandus Tarandus) deceduta. Si tratta del primo caso in assoluto osservato in questa specie. La CWD potrebbe essere stata importata tramite lo spostamento di animali infetti, e le leggi molto restrittive riguardo l’importazione di cervidi su territorio norvegese suggeriscono che potrebbe essersi trattato di una importazione illegale (Doherr 2007). Questo caso, sebbene isolato, risulta estremamente importante in quanto il comportamento sociale tipico delle renne, che le porta a riunirsi in grossi branchi, potrebbe facilitare notevolmente la diffusione della CWD in relativamente poco tempo, anche perché, al contrario della maggior parte delle Malattie da Prioni, nei cervidi affetti da CWD la diffusione infettiva avviene anche tramite saliva, urine, sangue e feci (Benestad et al. 2016; Tamgüney et al. 2009).

1.4 Eziologia

Per molti anni gli studiosi hanno avuto difficoltà ad intuire la struttura molecolare del prione della Scrapie. Il lungo periodo di incubazione, la trasmissibilità e l’esistenza di diversi ceppi fecero sì che alcuni scienziati sviluppassero l’ipotesi “Lentivirus” (Hadlow 1959). Altre ipotesi possibili sono state sviluppate in merito ad un possibile “Viroide” o ad una particella sferica infettiva di circa 25nm ospitante un genoma di 1-4 kb che potrebbe codificare il proprio nucleocapside (Manuelidis et al. 2009). Sono state fatte numerose prove per individuare l’agente eziologico, basandosi sulle caratteristiche tipiche degli agenti infettivi conosciuti, ma in nessun caso è stato possibile isolare un acido nucleico. Per di più l’agente infettivo riesce a mantenersi tale anche dopo i comuni trattamenti chimici e fisici che normalmente ucciderebbero altri agenti eziologici come batteri, virus e funghi (Taema et al. 2012).

In seguito, ulteriori ricerche hanno chiarito che, l’agente eziologico della Scrapie è una forma idrofobica della PrPSc, ed è stata denominata “prione” in virtu delle sue caratteristiche di “particella infettiva proteica”, in grado di propagarsi senza l’ausilio di un acido nucleico (Prusiner 1997).

La teoria della causa prionica per la malattia è chiamata nella comunità scientifica “ipotesi della sola proteina infettiva”. Recentemente essa è stata confermata tramite alcuni studi sperimentali

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di replicazione della patologia basati su iniezioni intracerebrali della proteina prionica ricombinata in alcuni topi (Mus Musculus) che conseguentemente ha portato allo sviluppo della neuropatologia (Wang et al. 2010).

In accordo con questa teoria l’evento biochimico fondamentale nello sviluppo della TSE risiede nella auto-replicazione della PrPSc, proteina prionica infettiva, quando essa viene in contatto con la PrPC, proteina prionica nativa, stimolandone a sua volta il cambiamento strutturale alla forma patologica (Prusiner 1998). La proteina prionica infettiva e la sua forma nativa hanno infatti la stessa sequenza aminoacidica ma una differente struttura tridimensionale. Il processo che porta alla conversione della PrPC nella PrPSc non è ancora del tutto chiarito, ma si ritiene che esso cominci quando le due forme entrano in contatto. In primo luogo si forma un eterodimero PrPC-PrPSc e solo dopo questa formazione inizia il processo di ristrutturazione della forma normale in quella infettiva. Quando la mutazione è completa le due molecole si separano ed entrambe possono legarsi ad altre due PrPC ricominciando il procedimento (Castilla et al. 2006). Questo processo auto-catalitico genera cambiamenti fondamentali nella proteina prionica determinando il passaggio da una struttura composta prevalentemente da alfa-eliche in una struttura a maggioranza di beta-foglietto le quali formano delle strutture oligomeriche che la rendono resistente alle proteasi, compresa la proteasi-K (Horiuchi et al. 2000).

1.5 Epidemiologia

Il primo caso di Encefalopatia spongiforme trasmissibile, riguardante un ovino, è stato documentato nel 1732 in Europa (Deslys et al. 2002). Da quel momento in poi sono stati accertati casi in moltissimi altri paesi anche se con alcune eccezioni tra cui l’Australia e la Nuova Zelanda.

È facile intuire come la Scrapie sia divenuta, per l’elevato numero di casi, la malattia da Prione di riferimento per le prime ricerche sulle malattie ad eziologia prionica (TSE).

In un primo momento si è ritenuto che la suscettibilità, o la resistenza, all’infezione fosse un carattere ereditabile (Parry 1962), in seguito si è indagato se la predisposizione alla malattia potesse essere influenzata dalla razza. Si è però dimostrato che la differente suscettibilità alla TSE non è tanto legata a questo aspetto ma è da mettere soprattutto in relazione ad una predisposizione individuale (Davies, Kimberlin 1985).

Dopo numerose indagini e ricerche svolte sulla suscettibilità alla Scrapie, alcuni autori arrivarono alla conclusione che le cause genetiche avessero un ruolo di primaria importanza; infatti il gene conosciuto come “Sinc”, denominato successivamente Prnp, e la proteina prionica

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da lui codificata (chiamata PrPC) furono individuati come responsabili dello sviluppo della patologia (Goldmann et al. 1991, Prusiner 1982).

Attualmente è appurato che le modalità di trasmissione per le TSE si possano classificare principalmente in due vie:

• La trasmissione per via orizzontale, che implica una esposizione al prione maturata sia per via orale, con l’ingestione di alimenti contaminati che con il contatto con materiali infetti ritrovati in ambiente che penetrano nel corpo.

• La trasmissione per via verticale, che si verifica in alcune specie tra le madri colpite e la loro prole (Taema, Maged 2012). Anche per quanto riguarda la CWD la più

importante via di trasmissione è quella orizzontale tramite la contaminazione ambientale con escrezione di secreti e materiale biologico (Gilch et al. 2011).

Non esiste alcuna prova che la CWD possa essere trasmessa all’uomo, infatti studi epidemiologici l’hanno classificata come malattia a basso potenziale zoonotico (Saunders et al. 2012). Sperimentalmente il morbo può essere passato ad altri ruminanti come pecore, capre e bovini tramite l’inoculazione intracerebrale del prione; tuttavia fuori dai laboratori non è mai stato accertato nessun caso (Hamir et al. 2006).

1.6 Segni Clinici

La Scrapie nelle pecore mostra segni clinici variabili; questi comprendono un’alterazione del comportamento sociale ed un’insofferenza a stimoli come il contatto umano, l’atassia, un cambio di colore nel vello. Gli animali colpiti presentano inoltre un prurito molto fastidioso che esita in lesioni a causa del grattamento incoercibile o a morsi autoinflitti nell’area interessata, che solitamente si trova alla base della coda, anche se può interessare tutta la superficie corporea. Nello stadio finale della malattia si riscontra un’incapacità di nutrirsi con la conseguenza di un relativamente rapido abbassamento del peso corporeo. La pecora infetta da BSE mostra gli stessi sintomi anche se la malattia si dimostra più breve ed acuta (Hunter et al. 2003).

Nella CWD dei cervidi il segno clinico più comune è una costante e graduale diminuzione dell’appetito che provoca una perdita di peso. Non mancano, come nelle altre malattie da Prioni, i segni neurologici con alterazioni comportamentali; che nel caso di animali selvatici possono manifestarsi con la perdita della paura verso gli umani e senso di disorientamento. Si può spesso notare anche un tipico abbassamento della testa e le orecchie pendenti. In una fase più avanzata della malattia si nota una ipersalivazione, una marcata difficoltà alla deglutizione, una atonia

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ruminale e segni di poliuria. Nella fase terminale della malattia l’animale ha difficoltà anche ad alzarsi sviluppando facilmente forme di polmoniti da aspirazione (Imran, Mahmood 2011).

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CAPITOLO 2: ENCEFALOPATIA SPONGIFORME

BOVINA

2.1 La comparsa della malattia

La BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy), denominata anche Mucca Pazza, è stata descritta la prima volta intorno nel 1987 come una malattia del bovino “simile alla Scrapie”, in relazione alle lesioni a livello cerebrale simili a quelle già descritte in passato per la citata malattia ovi-caprina (Wells et al. 1987). La proteina prionica è ampiamente accettata come la componente principale dell’agente patogeno della BSE. Tuttavia non è possibile escludere totalmente il ruolo di altri fattori, anche sconosciuti, che potrebbero alterare la suscettibilità o la resistenza dell’ospite all’infezione (Bonnardiére et al. 2002).

Le prime indagini epidemiologiche definirono la malattia come un’estesa epidemia in cui non era possibile stabilire alcun tipo di collegamento (trattamenti con farmaci intossicazione da prodotti agricoli chimici) tra gli animali colpiti. Queste indagini conclusero che l’epidemia era da mettere in relazione ad un agente simile a quello responsabile della Scrapie che si diffondeva per via orale tramite l’utilizzo nell’alimentazione animale di mangimi ottenuti dalla lavorazione dei sottoprodotti di origine animale contaminati con l’agente infettivo; la trasmissione inter specie non era ritenuta possibile vista l’assenza di ovini affetti da sintomatologia in allevamenti che avevano invece manifestato casi di BSE su bovini (Ricci et al. 2017). Sperimentalmente è stato dimostrato che una piccola quantità di materiale infettivo (1mg) può indurre la malattia. Al contrario, quando tutti gli animali di un allevamento sono stati esposti contemporaneamente allo stesso alimento, solamente una piccola percentuale di bestiame ha sviluppato la malattia (Hornlimann et al. 2006). Pertanto, si è ritenuto che fossero necessari altri fattori a garantire il successo dell’infezione e/o modulare la suscettibilità dell’ospite. Purtroppo però, i lunghi periodi di incubazione, tipici delle malattie sostenute da prioni, talvolta misurabili in anni, rendono difficile qualsiasi tipo di studio retrospettivo riguardante i cofattori implicati nello sviluppo della patologia (Wells et al. 2007).

Come per la Scrapie nel 1998, quando fu identificato il ceppo Nor98, il miglioramento del sistema di sorveglianza sul bestiame ha fatto si che nel 2004 anche per la BSE fossero identificati due ceppi differenti rispetto alla forma classica (BSE-C). Tramite immunofissazione furono evidenziati dei casi che mostravano una quantità inusualmente maggiore di PrPSc, rispetto alla forma classica. Questa casi furono associati ad una nuova forma denominata

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H. Altri campioni invece, tramite la stessa tecnica, mostrarono una quantità di PrPSc leggermente inferiore rispetto a quanto osservato nella BSE-C: questa forma fu pertanto chiamata BSE-L (Stack et al. 2009). Questi ceppi differiscono da quello classico in quanto la PrPSc presente in entrambi le varianti manifesta un aumento di sensibilità all’azione delle proteasi a pH8 (Biacabe et al. 2007). La variante L induce anche la formazione di placche amiloidi non osservate nella forma classica. Per questo motivo è stata denominata anche BASE (Bovine Amyloidotic Spongiform Encephalopathy). Per di più, in entrambe le varianti, è stata osservata una diversa distribuzione delle lesioni istopatologiche a livello nervoso rispetto alla BSE-C. Tali lesioni sono maggiormente presenti nelle regioni corticali del cervello piuttosto che a livello del tronco encefalico, in modo simile a quanto osservato per il ceppo Nor98 della Scrapie (Casalone et al. 2004).

2.2 Origine della BSE

Una delle prime ipotesi, mai del tutto accettata dalla comunità scientifica, suggeriva la possibilità che la BSE potesse essere stata introdotta negli allevamenti da ruminanti selvatici (Schreuder et al. 1993).

In seguito si prese in considerazione, per spiegare la comparsa e la trasmissione della malattia nei bovini, la teoria di un contagio inter-specie dovuto all’agente responsabile della Scrapie di origine ovo-caprina. Lo studio di Horn nel 2001 affermava come non fosse possibile escludere l’agente della Scrapie come responsabile della BSE, pochi mesi dopo il rapporto su un’inchiesta di Lord Phillips, richiesto dal governo UK, dichiarava invece che: “Gli agenti della Scrapie non sono i responsabili della BSE” (http://www.bseinquiry.gov.uk/report/index.html).

La teoria del contagio inter-specie ad oggi è la più accettata; essa è stata più volte studiata e rivisitata nel corso degli anni, ciò anche perché a cavallo degli anni ‘80 il Regno Unito aveva la prima popolazione ovina e la terza popolazione bovina in Europa che si ritrovavano spesso ad essere a stretto contatto (Horn et al. 2001). Infatti, si ritiene che un ceppo della Scrapie presente nel Regno Unito fosse, o sia diventato nel tempo, contagioso per la specie bovina (Doherr 2007).

L’encefalopatia spongiforme trasmissibile che colpisce i piccoli ruminanti si presenta con molti ceppi differenti ma nessuno di questi è uguale a quello responsabile della BSE. Le pecore infettate sperimentalmente con la BSE presentano una forma simile, ma con delle differenze, rispetto alla Scrapie; allo stesso modo rispondono i bovini infettati sperimentalmente con la Scrapie (Konold et al. 2008, 2015). Tuttavia questi esperimenti non possono rappresentare una

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visione completa di ciò che è il comportamento naturale della Scrapie, anche perché il numero di studi è troppo esiguo per poter arrivare a conclusioni definitive (Baron et al. 2004).

Inoltre, non ci sono informazioni su come i diversi ceppi della Scrapie possano mutare nel tempo, quindi potrebbero esserci delle differenze tra le forme iniziali che hanno caratterizzato l’esordio della malattia e le forme attuali. Esistono prove di come sperimentalmente, in alcuni casi isolati, siano state osservate mutazioni del ceppo (Simmons et al. 2015). Inoltre, rimane presente la possibilità che un nuovo ceppo possa comparire come evento sporadico, senza poter essere previsto.

Un’altra teoria sull’origine della BSE riguarda la contaminazione di mangimi per l’alimentazione del bestiame attraverso farine di origine animale contenenti TSE. Questa teoria si basa sull’ipotesi che, proprio durante il processo di trasformazione da crudo della farina, il ceppo di Scrapie avrebbe avuto la possibilità di mutare. È stata indagata anche la possibilità che la presenza di tessuti contaminati da TSE nei prodotti destinati alla produzione di farine per l’alimentazione del bestiame potesse avere avuto origine dalle massicce importazioni di materie prime per mangimi dalle regioni a Sud dell’India, ipotesi rafforzata anche in seguito al rilevamento di tracce di resti umani in tali prodotti (Colchester et al. 2005).

Presentandosi con segni patologici simili alla Scrapie e ad altre malattie da Prioni vennero intrapresi rapidamente degli studi volti a dimostrare la trasmissibilità della BSE (Fraser et al. 1988). Studi epidemiologici infatti confermarono come la BSE potesse essere emersa a causa di un’esposizione di tipo alimentare avvenuta intorno al 1982 e che avesse avuto un periodo di incubazione di 3-8 anni. L’improvviso dilagarsi della Encefalopatia spongiforme bovina nel Regno Unito tra il 1980 e il 1990 rafforzarono la precedente ipotesi di contaminazione intra-specie dovute alla pratica di alimentare gli animali con derivati di carne ed ossa bovine e ovi-caprine (Harman et al. 2009).

È stato infatti ipotizzato anche, sebbene non siano mai state fornite sufficienti prove a riguardo, che l’iniziale contaminazione del mangime fosse di origine bovina, a causa di una malattia non diagnosticata o di un caso ad insorgenza spontanea, probabilmente derivante da una mutazione genetica forse innescata da fattori estrinseci quali sostanze tossiche (Fraser et al. 2000). Le recenti identificazioni di casi di BSE atipica (EFSA, 2014) e le seguenti prove sperimentali che hanno dimostrato come questa specifica TSE bovina, in alcune circostanze, possa mutare in un ceppo completamente indistinguibile dalla forma classica di BSE, potrebbero indirizzare nuovi studi verso questa ipotesi (Torres et al. 2011).

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2.3 Modalità di trasmissione ed epidemiologia della BSE

I primi studi sulle modalità di trasmissione della BSE presero in considerazione la via alimentare perché, nel decennio precedente all’epidemia, erano state modificate sia le modalità per l’acquisizione delle proteine di origine animale utilizzate per la produzione di alimenti per il bestiame, sia le modalità di lavorazione delle stesse come la diminuzione dell’utilizzo del solvente idrocarburico per la produzione del sego (Wilesmith et al. 1991). Queste modifiche nel metodo di produzione portarono ad un cambiamento nelle pratiche di alimentazione dei bovini, facilitando l’introduzione di farine animali nelle razioni per i vitelli nel Regno Unito (Horn, 2001). Successivamente, numerosi studi hanno mostrato come esistesse un rischio più elevato di malattia negli allevamenti da latte, in cui questi mangimi erano ampiamente utilizzati (Wilesmith et al. 2000). Si ritiene ad esempio che l’epidemia di BSE nei bovini da latte sia proprio da mettere in relazione alla somministrazione di mangimi a base di farine di carne contenenti il prione e numerosi studi indicano come la BSE, tramite una mutazione del gene Prnp, abbia colpito la specie umana causando una variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob (Bruce et al. 1997) mentre non esiste alcuna prova che la Scrapie sia mai stata collegata ad una malattia umana.

Le restrizioni applicate all’utilizzo delle farine contenenti proteine di origine animale per l’alimentazione dei ruminanti ebbero un notevole successo nel controllo dell’epidemia; anche se dopo il picco del 1992 (37 280 casi) il tasso di declino della malattia nel Regno Unito non è stato veloce come previsto, questo perché le farine di origine animale erano consentite per altre specie come polli e suini, e si pensa che ciò abbia facilitato una contaminazione accidentale tra mangimi (Stevenson et al. 2005).

La diffusione al di fuori del territorio del Regno Unito avvenne tramite i commerci sia di animali vivi infetti sia tramite alimenti di origine animale infetti destinati all’alimentazione del bestiame dando inizio al contagio degli allevamenti in alcuni stati europei (Hörnlimann et al. 1994). Al giorno d’oggi sono stati accertati casi di BSE, in aggiunta al Regno Unito, in tutti i vecchi stati membri dell’UE oltre che in Svizzera, Giappone, Israele Canada, Stati Uniti, Norvegia, Svezia, Danimarca e Brasile (http://www.oie.int/animal-health-in-the-world/bse-specific-data/number-of-reported-cases-worldwide-excluding-the-united-kingdom/).

In Francia è stato possibile individuare come possibile via di contaminazione dei bovini l’ingestione accidentale di alcuni mangimi contenenti farine di origine animale destinati lecitamente all’allevamento del pollame (Jarrige et al. 2007). Alle stesse conclusioni sono arrivati anche studi tedeschi e svizzeri (Schwermer et al. 2007), pertanto all’interno della

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comunità scientifica è ampiamente accettato che i primi “Feed bans”, che avrebbero dovuto ridurre drasticamente i casi di BSE, non abbiano dato i risultati previsti.

Solamente dopo il riconoscimento del problema della “cross-contamination” negli Stati Membri si è arrivati al “Total Feed Ban” del 2001 con l’imposizione di notevoli restrizioni all’uso delle farine di origine animale per l’alimentazione degli animali. Questo divieto è riuscito a bloccare totalmente la trasmissione della malattia per via orale riducendone drasticamente i casi (Ricci et al. 2017).

La trasmissione per via verticale materna è un’altra via possibile di contagio, sebbene non sia mai stato dimostrato inequivocabilmente un suo ruolo di rilievo nell’epidemia, alcuni studi affermano che tale modalità di contagio possa aver causato fino al 10% del totale delle infezioni (Wilesmith et al. 1997). Si ritiene però che solamente le madri in uno stato avanzato della malattia fossero in grado di trasmetterla verticalmente (Donnelly et al. 1997). I dati scientifici inerenti al periodo compreso tra il 1988 e il 1993, quando l’epidemia era al suo picco, segnalano che non c’è stato un aumento significativo di casi di individui infetti legato alla diffusione per via verticale, in aggiunta ai casi dovuti alla sola contaminazione orizzontale data dai mangimi. Pertanto non vi sono dati certi per supportare la possibilità di trasmissione materna senza la presenza di mangime contaminato (Bradley, Wilesmith 1993). L’incertezza di tali dati è stata sicuramente influenzata dall’obbligo del rintraccio della progenie dei capi risultati infetti e della loro macellazione immediata, ciò ha comportato una drastica riduzione delle possibilità di condurre studi più approfonditi sulla trasmissione madre-figlio (Parish et al. 2001).

Per la trasmissione indiretta della BSE, come conseguenza di contaminazione ambientale, non vi sono prove certe, sebbene siano stati avanzati numerosi studi riguardo tale modalità di contagio per le altre forme di TSE (Scrapie e CWD) (Benestad et al. 2016).

L’ipotesi formulata è simile a quella fatta per la Scrapie e prevede che l’infezione indiretta si manifesti tramite il consumo alimentare di materiali infetti diversi dai mangimi brevettati, ad esempio attraverso pascoli contaminati (Hawkins et al. 2015).

La contaminazione meccanica delle piante da parte dei prioni è teoricamente possibile in seguito all’utilizzo di ammendanti e fertilizzanti organici come letame e sangue. Studi recenti hanno cercato di capire quanto la PrPSc potesse resistere sulle piante, fino ad arrivare ad affermare che ne rimangono tracce per almeno 28 giorni. È stato dimostrato anche come i vegetali abbiano la capacità di assorbire prioni dal terreno contaminato tramite le radici e di trasportarli verso altre parti dell’organismo come fusto e foglie, comportandosi a tutti gli effetti come potenziali portatori di infettività (Pritzkow et al. 2015).

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Altre vie come la trasmissione intra specifica e iatrogena sono state dimostrate solo sperimentalmente, a differenza della Scrapie e del morbo da dimagrimento cronico, pertanto non gli viene attribuito un ruolo rilevante nell’epidemia dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina (Ricci et al. 2017).

Tali modalità di contagio, durante l’epidemia, non possono essere completamente escluse; tuttavia la trasmissione tramite mangimi potrebbe aver mascherato alcuni casi derivanti da altre vie di trasmissione anche se non ve ne è la certezza. Si può quindi concludere che la quasi totalità di casi di BSE osservati nel Regno Unito, possono essere attribuiti all’esposizione di mangimi contaminati; i restanti casi riguardano altre vie di trasmissione che comunque non è certo che possano manifestarsi in assenza di una fonte alimentare contaminata (Fraser, 2000). Una complicazione nella gestione dell’epidemia fu certamente data dall’insorgere di altre malattie da Prioni, dovute alla trasmissione inter-specie della BSE in seguito all’ingestione di alimenti di origine bovina contaminati. In particolare, la malattia è comparsa nell’uomo, con una variante della CJD, negli animali domestici come i gatti (Felis Catus), con la Encefalopatia Spongiforme Felina (FSE), e negli ungulati esotici (Aldhous et al. 1990; Lezmi et al. 2003). In modo molto simile anche la somministrazione di alimenti di origine ovo-caprina contaminati da Scrapie negli allevamenti di Visoni (Neovison Vison) è ritenuta essere la causa della diffusione della Encefalopatia Trasmissibile del Visone (Liberski et al. 2009).

Inoltre, destò grande preoccupazione all’interno della comunità scientifica la suscettibilità dei piccoli ruminanti nei confronti della BSE, infatti attraverso il consumo di alimenti di origine animale derivati da ovo-caprini poteva prendere forma un rischio di stampo zoonotico per l’uomo: sperimentalmente infatti la BSE poteva essere trasmessa alle pecore, e all’interno di un gregge chiuso la malattia si trasmetteva da un individuo all’altro (Bellworthy et al. 2005). Tuttavia nessun caso di BSE è stato diagnosticato nella specie ovina al di fuori degli studi sperimentali, mentre lo stesso non si può dire per quanto riguarda la specie caprina in quanto capi positivi sono stati riscontrati in alcuni allevamenti (Spiropoulos et al. 2011).

2.4 Segni clinici e diagnosi

2.4.1 Diagnosi ante-mortem. Da un punto di vista clinico la malattia si presenta

prevalentemente nei bovini da latte con segni neurologici da lievi a severi: tremori, un’alterazione caratteriale dell’individuo, un’alterazione nell’andatura con atassia specialmente degli arti posteriori, dei deficit nella postura, aggressività e iper reattività agli stimoli; tali sintomi si associano sempre ad un calo della produzione lattea e alla perdita di peso dell’individuo affetto (Wilesmith et al. 1988). Si riscontra inoltre una aumentata reattività agli

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stimoli, evidenziabile solitamente con ripetuti rapidi passaggi dalla posizione sdraiata a quella eretta (Konold et al. 2004).

Studi recenti sulla patogenesi delle malattie da Prioni hanno evidenziato la diffusione della PrPSc in un’ampia gamma di diversi tessuti, escreti e secreti durante la fase clinica e pre-clinica della malattia. La conoscenza dell’agente patogeno della Scrapie, in particolare la disseminazione linfatica ed ematogena ed il rilevamento della forma nociva della proteina prionica nei vari organi linfoidi, ha facilitato lo sviluppo di test diagnostici ante-mortem. Il primo di questi test si basava sull’esame IHC della terza palpebra (O’Rourke et al. 2002); in seguito, questa tecnica è stata applicata sia alle tonsille che alla mucosa rettale, permettendo la diagnosi pre-clinica della malattia.

Sebbene questa metodica avesse la capacità di confermare casi sospetti, la sensibilità di questo test è stata valutata differentemente in diversi studi (Monleon et al. 2011, Gonzalez et al. 2008). Inoltre, è stato evidenziato come il grado di coinvolgimento del tessuto linfoide sia influenzato dal codice genetico dell’individuo, e quindi la quantità di PrPSc rilevabile nel tessuto esaminato sembri essere variabile (Monleon et al. 2011).

Poiché è stato dimostrato come l’esposizione orale al sangue, all’urina, alla saliva o alle feci derivanti da animali infetti anche sub-clinicamente da malattie da Prioni, comporti un possibile contagio soprattutto per la CWD; sono ancora in corso degli studi sperimentali per lo sviluppo di test ante-mortem per la diagnosi pre-clinica di Encefalopatie spongiformi trasmissibili a partire da campioni biologici così facilmente reperibili (Maddison et al. 2010). Tali test contribuirebbero ad un enorme miglioramento del controllo della trasmissione orizzontale della malattia.

2.4.2 Diagnosi Post-Mortem. A partire dall’individuazione del primo caso di BSE in un bovino,

nel 1986, e con la successiva scoperta della possibile trasmissione della malattia all’uomo; vi fu una urgente necessità di creare dei test rapidi per la diagnosi post-mortem della malattia, in modo tale da controllare gli animali allevati e quindi ridurre il rischio di contagio per la popolazione. Inizialmente i principali metodi diagnostici erano rappresentati da tecniche immunologiche e immunoistochimiche (in particolare il western blot), che riuscivano ad evidenziare le lesioni caratteristiche delle TSE, come spongiosi e placche amiloidi, su camponi di tessuto cerebrale (Fraser 1976).

Con il progredire della comprensione della patogenesi delle TSE, e appurata la disseminazione di amiloidi su tessuto linfatico, il già esistente metodo diagnostico è stato ampliato con l’esame di campioni di tonsille, placche di Peyer ed altri tessuti linfoidi in pecore affette da Scrapie (Van Keulen et al. 2008).

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Un’altra tecnica diagnostica è stata sviluppata sulla base delle caratteristiche biochimiche della proteina prionica. La PrPC è infatti sensibile all’azione della Protein-chinasi (PK) mentre la sua forma nociva ne è parzialmente resistente. Trattare i campioni con la PK comporta quindi una completa digestione della PrPC a fronte di una conservazione di composti C-terminali della PrPSc. Questa resistenza è dovuta a degli anticorpi che legandosi ad un epitopo di questa regione ne garantiscono la conservazione. Questa metodica è stata una dei principali strumenti sia per la diagnosi che per la differenziazione e la caratterizzazione di diversi ceppi di TSE; essa si basa principalmente sulle differenze di peso molecolare nelle varie glicoforme della PrPSc (Stack et al. 2006).

Inoltre si è visto che il trattamento della PrPSc e della PrPC con un’altra proteasi, la termolisina (TH), evidenzia notevoli differenze tra le due: la forma nociva è completamente resistente a questa molecola, mentre la forma nativa viene scomposta in piccoli frammenti proteici. L’analisi di questi lisati proteici rappresenta quindi un altro metodo per la diagnosi su campioni biologici (Owen et al. 2007).

Queste tecniche, che si basano sul trattare campioni mediante proteasi, chiamate anche Western Blot, sono state utilizzate per rilevare le regioni C-terminali della proteina prionica che rimangono intatte dopo un trattamento con la PK.

Esistono anche altre tecniche per il rilevamento di aggregati della PrPSc in campioni biologici, come i test Dot Blot ed ELISA (Creminon et al. 2004), oltre che il DELFIA ed il CDI.

Il test DELFIA (Dissociation Enhanced Lanthanide Fluoro-Immunoassay) è basato sul test ELISA, con il vantaggio però di usare chelanti fluorescenti. Questo comporta uno sviluppo del segnale in pochi minuti ed una sua permanenza per alcune ore (Barnard et al. 2000).

Il CDI (Conformation-Dependent Immunoassay) si basa sul differente legame degli anticorpi alla Proteina Prionica, sia essa attiva o denaturata, piuttosto che sulla resistenza o suscettibilità alla PK. In sintesi, uno specifico anticorpo si lega ad un epitopo della PrPC nativa, mentre lo stesso epitopo sarà inattivo nella PrPSc non denaturata. Dopo la denaturazione questo epitopo viene esposto e quindi rilevato dall’anticorpo in questione. Questo sistema permette poi di valutare i rapporti tra segnale dato dal legame con la PrPC o da quello con la PrPSC, facendo diagnosi (Thackray et al. 2007).

2.5 Misure di controllo attuate

2.5.1 Ruminant Feed Ban. Una volta identificata la causa principale responsabile

dell’epidemia dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina, nel 1988 nel Regno Unito viene attuata la prima misura che vieta la somministrazione di proteine derivate da ruminanti ai bovini.

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Tuttavia non era precluso il loro utilizzo per l’alimentazione di altri animali come maiali (Sus Scrofa Domesticus) e polli (Gallus Gallus), in quanto non si pensava che questi animali potessero contrarre la malattia. Ciò ha in seguito causato problemi di contaminazione accidentale di mangimi destinati a differenti specie animali all’interno degli allevamenti, favorendo talvolta l’insorgersi della patologia.

Questo primo provvedimento ha avuto un forte impatto sull’epidemia in corso, anche se non apprezzabile immediatamente. Questo in relazione al lungo periodo d’incubazione della malattia che si manifesta in genere dopo 5 anni.

Infatti dopo una crescita esponenziale dei casi diagnosticati fino al 1992, a partire dal 1993 è osservabile una prima diminuzione dei contagi; successivamente le nuove infezioni sono diminuite di circa il 40% ogni anno, a testimonianza dell’effetto avuto dalla misura attuata (Smith et al. 2003).

Questo provvedimento ha avuto quindi un forte impatto sull’epidemia ma non così efficace come era stato preventivato e sperato; continuavano infatti a verificarsi casi di malattia anche per animali nati dopo il 1988. Ad oggi si contano più di 45 000 casi di animali, nati dopo il provvedimento, che hanno contratto la BSE (www.oie.int).

Studi epidemiologici hanno mostrato che la maggioranza dei casi BAB (Born After Ban) ha avuto luogo nella parte orientale dell’Inghilterra, che corrisponde all’area con maggiore prevalenza di allevamenti suini. Ulteriori studi hanno poi dimostrato come questi soggetti avessero contratto la malattia tramite una contaminazione accidentale incrociata tra alimenti destinati a loro e quelli, contenenti farine animali contaminate, destinati proprio ai suini (Stevenson et al. 2005).

2.5.2 Re-inforced Feed Ban. Dopo che fu dimostrato che l’Encefalopatia Spongiforme Bovina

causava la vCJD nell’uomo, forma mortale, il 1 agosto del 1996 nel Regno Unito fu emanato un provvedimento che poneva un divieto assoluto di somministrazione di mangimi contenenti proteine di origine animale a qualsiasi animale d’allevamento, con l’immediato richiamo di tutte le scorte già messe sul mercato. In tal modo si voleva salvaguardare l’uomo dal contatto con materiali infetti potenzialmente pericolosi, eliminare la principale via di trasmissione della malattia tra gli animali, e giungere così ad una drastica riduzione dei casi di malattia. Pertanto erano attesi solo pochi casi di BSE tra gli animali nati dopo questa data, dovuti alle vie di contagio secondarie, come la trasmissione materna, sulle quali il provvedimento non poteva agire.

Ad oggi si contano circa 60 casi BARB (Born After Reinforced Ban) e le indagini epidemiologiche sono tuttora in corso per cercare di fornire una spiegazione alla loro origine,

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in quanto non tutta la comunità scientifica è concorde sull’origine materna o ambientale dei nuovi infetti (EFSA Biohaz Panel, 2017). Alcuni studi hanno infatti ipotizzato come essi potrebbero essere stati causati dall’utilizzo di vecchi mangimi contaminati o, più probabilmente, dall’utilizzo di mangimi importati da Paesi membri dell’UE con BSE presente sul territorio nei quali il divieto sull’impiego delle farine animali per la produzione dei mangimi è entrato in vigore successivamente al 1996, precisamente a gennaio 2001. Ciò potrebbe essere possibile in quanto è stato dimostrato sperimentalmente come sia sufficiente una modesta quantità di materiale infetto (10 mg) assunto oralmente per provocare la malattia (Belay et al. 2005).

Ad oggi la principale via di contagio è finalmente chiusa, ma le vie di trasmissione di stampo non alimentare devono continuare ad essere indagate in quanto, sebbene di minor importanza per la casistica nel passato, potrebbero essere rilevanti per i casi odierni.

Si può concludere affermando che, nonostante l’epidemia nel Regno Unito non possa dirsi conclusa, il numero di casi è diminuito costantemente dal 1992 ai giorni nostri e la grandissima maggioranza dei casi presenti oggi sono riferibili a capi bovini nati prima del 1996 (EFSA Biohaz Panel, 2017).

2.5.3 SRM Ban. I soggetti malati, o anche solamente sospettati, di BSE sono stati eliminati

dalla catena alimentare umana nel 1988 nel Regno Unito e nell’Unione Europea nel 1990. Studiando la distribuzione della PrPSc all’interno dei vari tessuti nei bovini infetti si è notato che essa è molto irregolare. Numerosi studi hanno mostrato che negli animali affetti da BSE naturale l’agente infettivo è rilevabile: a livello cerebrale, nel midollo spinale, nella retina e nella terza palpebra (Wells et al. 1987). Mentre, in via sperimentale, la BSE indotta oralmente ha causato la comparsa della forma nociva della proteina prionica a livello di: ileo distale (dallo stadio iniziale e per gran parte del periodo d’incubazione della malattia), tonsille (nella fase iniziale), tessuto nervoso centrale (a partire da 6 mesi prima della manifestazione sintomatica), tessuto mammario, latte, tessuto muscolare, fegato, rene e organi riproduttivi maschili e femminili. Non è mai stata rilevata la forma nociva della proteina prionica né a livello placentare né nel sangue fetale (Smith et al. 2003).

Questa distribuzione così variabile di PrPSc nei soggetti infetti è stata alla base di una importante misura del Regno Unito nei confronti di tutti i bovini, anche senza alcun segno clinico attribuibile alla BSE. Nel 1989 fu infatti istituito il “SBO ban” (Specific Bovine Offal ban), un atto normativo mediante il quale si disponeva che il midollo spinale, il cervello, la milza, l’intestino, le tonsille e il timo di ogni bovino regolarmente macellato non fossero destinati all’alimentazione umana.

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Questa misura fu attuata prima degli studi sperimentali citati precedentemente, e la scelta dei tessuti da bandire si basò sui numerosi studi che erano stati condotti sulla distribuzione tissutale della Scrapie, studiata, anche sperimentalmente, per molto più tempo.

Nel 1990 l’SBO ban in UK è stato esteso al fine di proteggere anche altre specie, impedendo l’uso dei citati tessuti bovini per la produzione di farine di carne destinate alla produzione di mangimi destinati agli animali.

Una misura molto simile è stata adottata dall’Unione Europea nell’anno 2001 con l’emissione del SRM ban (Specific Risk Materials ban). Gli SRM furono definiti la prima volta dal Regolamento 999/2001 come tessuti bovini, ovini e caprini provenienti da animali originari di uno Stato membro o di un paese terzo, o di una loro regione, avente un rischio di encefalopatia spongiforme bovina controllato o indeterminato: “si intende il cranio, compresi il cervello e gli occhi, le tonsille, la colonna vertebrale escluse le vertebre della coda e le apofisi trasverse delle vertebre lombari e toraciche e delle ali del sacro, ma includendo i gangli spinali e il midollo spinale dei bovini di età superiore a dodici mesi, nonché gli intestini dal duodeno al retto e il mesentere dei bovini di qualunque età”.

Si stima che i tessuti eliminati per effetto di tale norma abbiano ridotto di oltre il 99% il materiale infettivo presente in un animale malato, e tutta la comunità scientifica ritiene che questo provvedimento sia stato il più rilevante atto nella prevenzione della trasmissibilità per via alimentare della BSE all’uomo (Smith et al. 2003).

2.5.4 La regola dei 30 mesi e il Test rapido per BSE. In seguito alle informazioni raccolte

sulla causa del vCJD, nel marzo del 1996 il governo del Regno Unito, sotto consiglio del SEAC (Spongiform Encephalopathy Advisory Committee), al fine di ridurre maggiormente il rischio di infezione umana, ha introdotto una restrizione all’immissione sul mercato della carne bovina ottenuta da animali macellati ad un’età superiore ai 30 mesi. Essa prevedeva il disosso e la rimozione di tutti gli SRM quali i tessuti nervosi e linfoidi; tale provvedimento è stato applicato in modo molto restrittivo ai bovini nati nel Regno Unito che, una volta raggiunta l’età di 30 mesi venivano esclusi dalla macellazione regolare, abbattuti e distrutti tramite incenerimento, in quanto categorizzati interamente come SRM (Ferguson et al. 2003). Dopo che la situazione BSE nel Regno Unito fu migliorata, in seguito alla riduzione dei casi, questo provvedimento venne modificato rendendolo applicabile solamente ai bovini nati prima del 1 agosto 1996. Tali disposizioni vennero abrogate definitivamente nel novembre del 2005, quando il Regno Unito, come gli altri Paesi dell’Unione Europea, rese obbligatorio l’utilizzo dei test rapidi di diagnosi BSE su tutti i bovini regolarmente macellati di età superiore ai 30 mesi. Da ogni animale macellato veniva prelevato un campione di tessuto nervoso centrale (obex) che veniva

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poi inviato ai laboratori diagnostici all’interno dei quali, mediante l’uso di kit di diagnosi rapida, era possibile stabilire in breve tempo se l’animale campionato risultasse infetto o meno. In passato il sistema di sorveglianza per la BSE era di tipo “passivo” pertanto i casi sospetti venivano segnalati e solo in seguito al decesso veniva confermata la diagnosi. Pertanto, in UK qualsiasi figura professionale che era a contatto con i bovini doveva essere addestrata in modo tale da essere in grado di riconoscere i sintomi della malattia.

Nel 1999 le autorità veterinarie svizzere hanno messo a punto un test diagnostico per bovini a rischio BSE, utilizzabile sia per animali deceduti in allevamento che per gli animali macellati. Tale metodica prevede la ricerca della forma nociva della proteina prionica, nella materia cerebrale. Nel corso dello stesso anno la Commissione Europea ha approvato l’utilizzo di quattro diversi test ad azione rapida per la sorveglianza attiva della malattia, dopo averne testata la sensibilità, la solidità ed un’ipotetica attività di routine (Pavel, 2004).

I test, utilizzati in tutti gli Stati Membri, venivano utilizzati per testare tutti i capi morti spontaneamente in allevamento, per tutti i bovini sottoposti a macellazione speciale d’urgenza superiori a 24 mesi ed a tutti i bovini regolarmente macellati di età superiore ai 30 mesi. Ciò ha inevitabilmente causato un cambiamento nelle procedure di macellazione in quanto nessun animale macellato appartenente alle categorie a rischio poteva essere destinato al libero consumo se non sottoposto ad un test con esito negativo (Moynagh et al. 1999).

Nel 2001 con l’entrata in vigore del Regolamento (CE) n.999/2001 l’utilizzo dei test rapidi è divenuto obbligatorio in tutti i Paesi dell’Unione Europea; in tal modo, in seguito al loro utilizzo, un gran numero di Paesi ha rilevato il primo caso di BSE sul proprio territorio. Oltre alla diretta protezione della salute pubblica questi test avevano anche il compito di monitorare la situazione BSE in territorio europeo, poiché esisteva la preoccupazione da parte della comunità scientifica che la sorveglianza passiva avesse potuto sottostimare la diffusione della malattia negli Stati Membri, anche a causa di possibili carenze nel sistema di segnalazione. L’introduzione dell’obbligo di testare tutti i bovini appartenenti alle categorie a rischio ha inciso positivamente anche sul mercato delle carni in quanto i consumatori, consapevoli dei rigorosi controlli, hanno incrementato i propri consumi di carne bovina. Tuttavia si deve comunque tener conto che a livello cerebrale la PrPSc non viene rilevata se non 6 mesi prima della comparsa della sintomatologia clinica, è quindi teoricamente possibile che alcuni bovini, specialmente vitelli, fossero infetti ma al momento del test risultassero negativi (Smith et al. 2003).

Al giorno d’oggi la CE ha valutato 19 test rapidi per la diagnosi di BSE e ne ha approvati 9 a fini di studio. Nel 2009 il Laboratorio Comunitario di Referenza per le TSE (EURL) ha valutato

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la validità di tutti i test rapidi approvati per determinare la loro idoneità nel ruolo di sorveglianza attiva (Webster et al. 2009).

Tuttavia poiché i ceppi atipici di Encefalopatia Spongiforme Bovina, il BSE-L ed il BSE-H, mostrano avere una modalità di trasmissione differente, studi rivolti alla valutazione ed affidabilità dei test rapidi nei loro confronti rimane una priorità della comunità scientifica (Balkema-Buschmann et al. 2011).

2.6 Dati sulla sorveglianza in Europa

Dalla prima osservazione documentata di BSE, nel 1986, ad oggi, solamente nel Regno Unito, sono stati diagnosticati 184 627 casi della malattia; il picco massimo si è avuto nel 1992 con 37280 casi accertati, con un tasso di incidenza superiore allo 0,6% sulla popolazione dei bovini superiore ai 24 mesi. Tuttavia dal 2012 ad oggi vi sono stati solamente 6 casi positivi; il 2016 è stato il primo anno, da quando è stata individuata la patologia, in cui non vi sono stati casi di Encefalopatia Spongiforme Bovina nel Regno. Le stime più accurate affermano che oltre un milione di bovini infetti siano entrati a far parte dell’alimentazione umana nel periodo che intercorre tra il 1980 e il 1996 (EFSA Biohaz, 2017).

Molti meno sono stati i casi diagnosticati altrove, con un tasso di incidenza che oscillava intorno allo 0,001% sulla popolazione di bovini adulti (www.oie.int).

È tuttavia necessario avere una visione globale dei dati riguardanti la diffusione della malattia affinché i programmi di sorveglianza attiva, istituiti in seguito tramite l’utilizzo dei test rapidi, abbiano la massima utilità.

La situazione odierna riguardante la BSE classica è molto favorevole, si può infatti considerare praticamente eradicata in Regno Unito, Europa e Giappone. La BSE atipica invece continua a manifestarsi costantemente, anche se con tassi molto bassi (Budka et al. 2015).

I dati più recenti sulla sorveglianza in corso testimoniano che in più della metà degli Stati Membri dell’Unione non si sono evidenziati casi appartenenti ai 60 BARB (Born After Reinforced Ban) rilevati su tutto il territorio; ciò può essere dovuto sia ad un’insufficiente sensibilità da parte del sistema di sorveglianza che ad un numero ridotto di animali testati. Questo dato è coerente con quanto rilevato dal modello C-TSEMM (Cattle TSE Monitoring Model) elaborato dall’EFSA che divide gli Stati Membri in BARB-MS quelli che secondo tale modello abbiano riscontrato una prevalenza di casi maggiore di quella stimata; e non-BARB MS quelli che stanno al di sotto di tale stima.

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Osservando i numeri assoluti di test eseguiti si nota che tra i BARB-MS dal 2001 al 2015 sono stati effettuati 97.483.791 test rapidi che hanno rilevato 60 casi positivi; in media si tratta di 1,6 milioni di test fatti per ciascun caso positivo. Negli Stati Membri non BARB sono stati analizzati 16.345.152 che hanno rilevato 17 casi BARB, con una media di 961.480 test utilizzati per ciascun caso positivo.

Si evince tuttavia una grossa discrepanza tra i diversi BARB-MS, infatti il Lussemburgo ha eseguito “solamente” 169.000 test rilevando un caso positivo, mentre la Germania ne ha effettuati 11,7 milioni rilevandone 2. Tra i non-BARB MS si nota soprattutto il Belgio con 4 milioni di test effettuati insieme all’Austria e la Danimarca con 2,5 ed in nessuno dei tre Paesi è stata riscontrata una positività (EFSA BIOHAZ Panel, 2017).

2.7 Analisi del rischio geografico BSE

In risposta alla crisi del 1996, il Parlamento Europeo chiese alla Commissione Europea di revisionare il sistema consultivo riguardante la sicurezza della salute animale e pubblica. Venne quindi istituito lo Scientific Steering Committee, SSC, il quale fu anche incaricato di individuare soluzioni per la gestione di problemi a potenziale diffusione intracomunitaria come le TSE. Per questo all’interno del SSC venne istituito il “TSE Ad Hoc Working Group” organo consultivo formato dai migliori esperti internazionali sul tema, che svilupparono un metodo per quantificare la possibilità che un Paese avesse casi non identificati di BSE all’interno dei propri confini. Il risultato di questo lavoro è stata la produzione di un sistema di valutazione del rischio denominato “Geographical Bovine Spongiform Encephalopathy Risk”: GBR. (Scientific Steering Committee, 1998). La valutazione del GBR quantifica la probabilità che l’agente infettivo della BSE possa essere entrato nel territorio di uno stato europeo, e che in esso possa essersi diffuso nella popolazione bovina generando infezione, che potrebbe quindi essere presente sia in fase clinica che sub-clinica. Il GBR ha subito 4 modifiche significative dalla sua prima pubblicazione in seguito ai numerosi dati derivati dal sistema di sorveglianza attiva che permisero di perfezionare i parametri utilizzati.

Nel gennaio del 1998 si stabilirono una serie di parametri su cui basare la valutazione del GBR di ogni singolo Paese; nel luglio dello stesso anno la Commissione Europea chiese agli Stati Membri, per poter sviluppare una valutazione accurata, di fornire informazioni riguardanti: i dati sulle popolazioni bovine presenti sul territorio, i dati sulle movimentazioni commerciali degli animali sensibili all’ interno ed all’esterno dell’Unione Europea, una descrizione delle pratiche di alimentazione del bestiame attuate, l’eventuale rilevazione di presenza di SRM

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all’interno dei mangimi ed il proprio programma di sorveglianza per la BSE in modo da poter sviluppare una valutazione accurata (SSC, 1998).

Nell’aprile del 1999 l’SSC ha stabilito quali dovessero essere i parametri da utilizzare per assegnare il GBR alle varie nazioni tramite una pubblicazione in cui si dà la prima definizione ufficiale di GBR: “La probabilità che l’agente della BSE sia, nel presente o nel prossimo futuro, presente nella popolazione bovina nativa; e che nel presente o nel prossimo futuro uno o più animali infetti all’anno possano entrare nella catena alimentare” (SSC, 1999b).

Nel luglio del 2000 sono stati definiti i livelli di GBR per i diversi Paesi Europei con gradiente da I a IV:

• I: presenza di BSE nel bestiame nazionale altamente improbabile • II: presenza BSE improbabile ma non esclusa

• III: presenza di BSE probabile ma non confermata o confermata ad un livello basso • IV: presenza confermata ad alti livelli

È stata definita l’importanza della contaminazione intra-specie come nuovo fattore di rischio, inoltre sono stati esclusi come possibili fonti di diffusione della malattia lo sperma e gli embrioni. Viene definito anche il concetto di “Stabilità”: “Capacità di ridurre la BSE circolante all’interno del sistema di allevamento bovino. Il grado di stabilità dipende dalla capacità di identificare gli animali infetti ed escluderli dal processo di trasformazione in alimento o mangime” (SSC, 2000a; SSC, 2000b; SSC, 2000c).

Nel gennaio 2002, con un’ulteriore modifica del GBR, viene perfezionata la definizione di “Sfida Esterna”, già introdotta con l’edizione dell’anno 2000; essa prende in esame le modalità di importazioni delle Meat and Bone Meal, MBM, e degli animali vivi dai Paesi con rischio BSE compreso tra III e IV. Vengono elaborate inoltre le prime linee guida per la sicurezza nei commerci (SSC, 2002a).

Nel 2005 lo Scientific Steering Committee è stato sostituito dall’EFSA, European Food Safety Autorithy, ente che ha continuato i lavori sulla BSE (EFSA, 2005).

Alla base degli studi sulla modalità di entrata della BSE nei paesi dell’Unione è stata presa in considerazione soprattutto la possibile importazione di animali infetti o mangimi contaminati (External Challenge Assessment), che una volta introdotti hanno contribuito alla circolazione dell’agente patogeno mediante la trasformazione degli animali infetti sia importati che contaminati per via alimentare, in farine di carne ed ossa utilizzate per alimentazione dei bovini autoctoni (Internal Stability Assessment). L’interazione dei parametri External Challenge

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