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Caratterizzazione delle catene leggere libere degli anticorpi in campioni di urina ottenuti da pazienti affetti da mieloma multiplo.

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di Biologia

Corso di Laurea Magistrale in

BIOLOGIA APPLICATA ALLA BIOMEDICINA

TESI DI LAUREA

Caratterizzazione delle catene leggere libere degli anticorpi

in campioni di urina ottenuti da pazienti affetti da mieloma

multiplo

RELATORE CANDIDATO

Dott.ssa Maria Franzini Giulia Marrapodi

(2)

1

INDICE

Riassunto

3

Introduzione

5

1. Le catene leggere e pesanti delle immunoglobuline

1.1

Il dominio variabile delle catene leggere e pesanti

1.1.2 Sintesi dei domini variabili delle catene leggere e pesanti

1.1.3 Il processo di ricombinazione somatica V(D)J

1.2

Le catene leggere libere delle immunoglobuline

1.2.1 Cenni storici

1.2.2 Stati di aggregazione delle catene leggere libere

1.2.3 Catabolismo delle catene leggere libere

2. Le gammopatie monoclonali

19

2.1

Mieloma multiplo

2.1.1 Mutazioni e l’evoluzione clonale nel mieloma multiplo

2.1.2 Il danno osseo nel mieloma multiplo

2.1.3 Il danno renale nel mieloma multiplo

2.1.4 La nefrotossicità delle catene leggere libere monoclonali

2.2 Forme pre-maligne nelle gammopatie monoclonali

3.Test diagnostici utilizzati nelle gammopatie monoclonali

32

3.1

Metodi utilizzati per la diagnosi di soggetti affetti

da gammopatie monoclonali

3.2

Determinazione delle FLC nel siero mediante saggi

immunologici

(3)

2

3.2.2 Saggio N-Latex FLC (Siemens, Germania)

3.2.3 Confronto sul dosaggio delle FLC con i due saggi

immunologici

Scopo della Tesi

42

Materiali e Metodi

43

4.1 Raccolta dei dati

4.2 Elettroforesi su gel di poliacrilammide (SDS-PAGE)

4.2.1 Preparazione dei campioni

4.3 Western blot

4.4 Nefelometria

Risultati

48

5.1 Caratterizzazione delle FLC-λ in campioni di urina

5.2 Caratterizzazione delle FLC-ĸ in campioni di urina

5.3 Caratterizzazione delle FLC in campioni di urina e di siero

Conclusioni

55

Bibliografia

57

Sitografia

69

(4)

3

Riassunto

Il mieloma multiplo, appartenente alle gammopatie monoclonali, è caratterizzato dalla proliferazione incontrollata di un clone plasmacellulare che produce un’immunoglobulina intatta e identica per caratteristiche isotipiche e idiotipiche e/o catene leggere libere (free light chains, FLC) rilevabili nel siero e/o nelle urine.

La diagnosi di pazienti affetti da mieloma multiplo prevede l’elettroforesi delle sieroproteine, l’immunofissazione delle proteine nel siero e nelle urine, la quantificazione delle FLC nel siero. Per la quantificazione delle FLC sono disponibili commercialmente due saggi immunochimici: saggio Freelite (The Binding Site, Regno Unito), saggio N-Latex (Siemens, Germania). Sebbene i due saggi sembrano essere equivalenti dal punto di vista diagnostico, possono fornire risultati discordanti per lo stesso campione perciò è importante che un paziente sia seguito utilizzando la stessa metodica nello stesso laboratorio diagnostico.

Nel siero sono state trovate diverse forme di aggregazione diverse per le FLC-κ (prevalentemente nella forma di monomero o di dimero) e per le FLC-λ (prevalentemente nella forma di dimeri o di oligomeri).

Uno studio preliminare suggerisce che i diversi risultati ottenuti con i due saggi immunologici siano dovuti ad una diversa reattività nei confronti di oligomeri di FLC pertanto è importante conoscere la distribuzione degli stati di aggregazione di FLC nel circolo sanguigno.

Lo scopo dell’elaborato di tesi è di studiare le diverse forme di aggregazione di FLC in campioni di urina ottenuti da pazienti affetti da mieloma multiplo. La scelta del campione urinario deriva dal fatto che si tratta di un fluido biologico di composizione più semplice e di ridotto contenuto proteico e quindi più facile da analizzare rispetto a un campione di siero .

Sono stati raccolti 58 campioni di urina presso il Laboratorio di Patologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera Pisana da Febbraio a Novembre 2016 e ne sono stati caratterizzati 32 che presentavano all’immunofissazione esclusivamente catene leggere libere di tipo κ o λ. Le forme di aggregazione delle FLC sono state studiate in SDS-PAGE, in condizioni riducenti o meno, associata al western blot.

Dai risultati è emerso che le FLC di tipo κ e λ si trovano sotto forma di monomeri e di oligomeri. I monomeri FLC-λ hanno un PM apparente di 25 kDa indipendentemente dalle condizioni riducenti o non. I monomeri FLC-κ hanno un PM apparente di 20 kDa. La diversa mobilità elettroforetica del monomero κ si pensa esser dovuta alla presenza di un ponte disolfuro intra-catena che permette una conformazione tale da conferirgli una maggiore mobilità elettroforetica attraverso il gel di

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4

poliacrilammide. In condizioni riducenti il monomero κ mostra una mobilità elettroforetica del PM atteso di 25 kDa.

Gli oligomeri per entrambe le FLC mostrano un PM apparente di 37 kDa, 50 kDa, 75 kDa e sono stabilizzati da ponti disolfuro poiché si risolvono in un’unica banda in corrispondenza dei 25 kDa sotto l’azione riducente del β-mercaptoetanolo.

Negli esperimenti condotti è stato notato che i campioni corsi in condizioni non riducenti presentano una deformazione laterale in corrispondenza dei 25 kDa. Tale artefatto potrebbe essere dovuto al parziale effetto denaturante del detergente SDS che potrebbe interferire con la mobilità elettroforetica della proteina in esame. Non si può neanche escludere che durante l’elettroforesi sia avvenuta una parziale diffusione del β-mercaptoetanolo presente nei campioni caricati in corsie adiacenti. Questo aspetto dovrà essere verificato utilizzando durante la preparazione del campione l’N-etilmaleimmide (NEM), un composto organico che a pH compreso tra 6.5 e 7.5, è in grado di legarsi ai gruppi tiolo liberi.

E’ stato inoltre verificato se la diversa matrice biologica possa influire sulla forma di aggregazione delle FLC confrontando il campione di urina e di siero appartenenti allo stesso paziente ottenuti nella stessa data. I dati preliminari indicano che la matrice urinaria sembrerebbe non alterare le forme di aggregazione delle FLC presenti nel circolo sanguigno. Pertanto lo studio condotto sui campioni di urina sembra essere rappresentativo delle catene leggere libere sieriche.

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5

Introduzione

1.

Le catene leggere e pesanti delle immunoglobuline

Durante lo sviluppo dei linfociti B, le catene leggere tramite associazione con la catena pesante entrano a far parte nella normale composizione dell’immunoglobulina.

Le immunoglobuline, definite anche anticorpi, sono proteine circolanti prodotte in seguito all’esposizione ad agenti estranei, chiamati antigeni, con funzione di riconoscere strutture molecolari estranee, denominati epitopi, e di innescare la risposta immunitaria.

Nel plasma circolano diverse tipologie di immunoglobuline che, nonostante condividano la stessa struttura di base, hanno una notevole variabilità nella regione deputata al legame con l’antigene favorendo così il legame delle immunoglobuline ad un numero elevato di antigeni strutturalmente diversi. Infatti nell’uomo il repertorio anticorpale è stato stimato di essere costituito da 1011

anticorpi. La diversità tra le immunoglobuline è dovuta principalmente a quattro fattori: i diversi segmenti genici che formano il dominio variabile delle catene leggere e pesanti durante lo sviluppo dei linfociti B; la diversità combinatoriale dovuta alla ricombinazione dei geni implicati nella formazione del dominio variabile; l’aggiunta di nucleotidi alla fine della sequenza codificante il dominio variabile; e all’ipermutazione somatica che introduce punti di mutazione nella sequenza codificante il dominio variabile dopo stimolazione dei linfociti B maturi in seguito all’esposizione dell’antigene.

1.1 Il dominio variabile delle catene leggere e pesanti delle immunoglobuline

Sia le catene leggere sia quelle pesanti presentano regioni variabili (V) N-terminali, che insieme formano il sito di legame per l’antigene, e regioni costanti (C) C-terminali con funzione diversa. Le regioni variabili (V) sono così chiamate poiché contengono tratti nella sequenza aminoacidica che distinguono anticorpi prodotti da un determinato clone di linfociti B da quelli prodotti da altri cloni. Le regioni C della catena pesante interagiscono con molecole e cellule effettrici del sistema immunitario e sono responsabili della maggior parte delle funzioni biologiche svolte dagli anticorpi mentre le regioni C delle catene leggere non partecipano a tali funzioni.

Poiché ciascuna molecola anticorpale contiene 2 catene pesanti e 2 catene leggere, ogni anticorpo possiede almeno 2 siti di legame per l’antigene [Figura 1].

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6 FIGURA 1. Rappresentazione schematica di Ig. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

Le catene leggere e pesanti sono legate tra di loro covalentemente da ponti disolfuro formati tra i residui di cisteina della parte carbossiterminale della catena leggera e il dominio CH1 della catena

pesante; anche le interazioni non covalenti tra i domini variabili (VH e VL) delle due catene e tra i

domini costanti CH e CL delle due catene contribuiscono alla loro associazione. In modo analogo, le

due catene pesanti di ogni molecola anticorpale sono legate covalentemente da ponti disolfuro.

A livello delle regioni variabili si riscontrano le maggiori differenze nella sequenza e nella variabilità degli anticorpi: qui sono presenti le regioni ipervariabili. Si tratta di tre brevi segmenti presenti nella regione VH e nella regione VL, corrispondenti alle tre anse che fuoriescono dalla struttura e che

connettono i nastri adiacenti dei foglietti β-planari che costituiscono i domini V delle catene pesanti e leggere delle Ig. Le regioni ipervariabili hanno una lunghezza di circa 10 aminoacidi e, dal momento che sono tre per la catena leggera e tre per la catena pesante, ci saranno complessivamente sei regioni ipervariabili associate a formare una struttura tridimensionale. Si può pensare alle anse ipervariabili come a dita che fuoriescono da ogni dominio variabile e che si uniscono per formare il sito di legame per l’antigene. Poiché queste anse formano una superficie complementare alla struttura

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7

tridimensionale dell’antigene, le regioni ipervariabili sono anche dette regioni che determinano la complementarietà (Complementarity-Determing Regions, CDR) [Figura 2].

FIGURA 2. Rappresentazione tridimensionale delle anse CDR ipervariabili nel dominio variabile (V) di una catena leggera. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° edizione, Abbas et al.

Partendo dalle estremità aminoterminale dei domini VH o VL, queste regioni sono chiamate

rispettivamente CDR1, CDR2 e CDR3 dove le regioni CDR3 dei domini VH e VL presentano il

maggior grado di variabilità. La diversificazione delle sequenze CDR presente nei vari anticorpi genera strutture uniche, esposte sulla superficie delle anse, che determinano la differente specificità degli anticorpi. I residui aminoacidici delle regioni ipervariabili di VH e VL formano contatti multipli

con l’antigene legato e anche se il contatto più esteso avviene a livello della regione CD3 la capacità di legare un antigene dipende anche da altri residui delle regioni conservate che possono venire a contatto con l’antigene. Molte immunoglobuline possono orientare i siti di legame con l’antigene in modo tale che due molecole antigeniche poste su una superficie piana possano essere legate contemporaneamente: questa flessibilità deriva dalle regione cerniera, situata tra i domini CH1 e CH2 le

cui dimensioni variano tra i 10 e i 60 aminoacidi a secondo degli isotipi, che è dovuta alla capacità di ciascun dominio VH di ruotare rispetto al dominio CH1 adiacente.

1.1.2 Sintesi dei domini variabili e costanti delle catene leggere e pesanti

Prima di descrivere la sintesi delle catene leggere e pesanti delle immunoglobuline è importante descrivere e comprendere la configurazione germinativa dei geni che codificano per il dominio variabile e costante di entrambe le catene.

(9)

8

Nei linfociti B, i geni che codificano per le catene leggere e pesanti sono localizzati su cromosomi diversi e codificate da loci indipendenti; ciascun locus è costituito da diversi segmenti genici. I segmenti genici all’interno di ciascun locus sono riarrangiati stocasticamente tramite ricombinazione somatica e un meccanismo di splicing del RNA.

Nelle catene leggere κ il locus genico è localizzato sul cromosoma 2; per le catene leggere di tipo λ è localizzato sul cromosoma 22 e per la catena pesante sul cromosoma 14 [Figura 3].

FIGURA 3.Organizzazione dei loci Ig umani nella configurazione germinativa. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

All’estremità 5’ di ciascun locus vi è un cluster di segmenti genici della regione variabile (V), ciascuno dei quali è costituito da circa 300 bp, occupanti un’ampia regione del DNA di circa 2000 kb. Il numero dei segmenti V varia tra i diversi loci delle Ig e tra le specie: nell’uomo esistono circa 35 geni V per la catena leggera ĸ , 30 per la catena leggera λ e 100 geni per il locus H delle catene pesanti.

All’estremità 5’ di ogni segmento V c’è un esone “leader” (L) che codifica i 20-30 residui N-terminali della proteina generando la cosiddetta sequenza leader, la quale durante la sintesi proteica guida i polipeptidi nascenti dai ribosomi al lume del reticolo endoplasmatico. Qui la sequenza leader verrà rimossa e a monte di ogni esone leader c’è un promotore del gene V dove inizia la trascrizione.

All’estremità 3’ rispetto ai geni V, si trovano i geni della ricongiunzione (joining, J), lunghi circa 30-50 bp separati da sequenze non codificanti, strettamente associati agli esoni che codificano per la regione costante (C). Tra i geni V e J nel locus H della catena pesante si trovano sequenze codificanti aggiuntive note come segmenti della diversità (diversity, D). Così come per i geni V, il numero dei geni D e J può variare nei diversi loci di Ig e nelle diverse specie.

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9

Le sequenze non codificanti dei loci Ig svolgono un ruolo importante nella ricombinazione ed espressione dei diversi loci genici. Infatti le sequenze che guidano la ricombinazione dei diversi segmenti genici si trovano adiacenti ai segmenti codificanti. Sono anche presenti promotori dei geni V e altri elementi regolatori che agiscono in cis, come le regioni di controllo dei loci, regioni enhancer e soppressorie, che regolano l’espressione del gene a livello della sua trascrizione.

Poiché l’organizzazione dei loci per le Ig nella configurazione germinativa, appena descritta, non rende possibile la trascrizione in mRNA funzionali, è necessario che si verifichi un processo di ricombinazione somatico che coinvolge un certo numero di geni permettendo la sintesi finale della catena leggera e pesante dell’immunoglobulina.

La sintesi del dominio variabile della catena leggera, prevede la scelta casuale di un segmento genico della regione variabile (V) e di un segmento genico (J) con la formazione di un esone VJ che codificherà per la regione variabile della catena leggera. La regione del dominio costante della catena leggera invece è codificata da un esone separato C che sarà unito all’esone VJ con conseguente splicing degli introni presenti nel trascritto primario dell’RNA.

La sintesi del dominio variabile della catena pesante avviene in maniera diversa: si ha la formazione di un primo esone DJ, formato dalla scelta casuale di un segmento genico D e di un segmento genico J, al quale solo successivamente verrà aggiunto casualmente un esone V. Questo meccanismo prende in nome di ricombinazione V(D)J. Dato che la regione costante della catena pesante è costituita da più domini, diversi esoni C saranno uniti all’esone V(D)J dopo splicing del trascritto primario RNA, come accade per la catena leggera [Figura 4].

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10 FIGURA 4. Ricombinazione ed espressione dei geni delle catene pesanti e leggere delle Ig. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

E’ probabile che l’accessibilità dei loci sia regolata da diversi meccanismi, incluse le alterazioni della struttura della cromatina, la metilazione del DNA e l’attività di trascrizione basale degli stessi loci genici.

Durante il processo di ricombinazione V(D)J una serie di fattori specifici riconoscono specifiche sequenze di DNA, presenti esclusivamente nei linfociti, definite sequenze segnale della ricombinazione (Recombination Signal Sequences, RSS) localizzate all’estremità 3’ dei segmenti del gene V, all’estremità 5’ dei segmenti J e ai due estremi dei segmenti D [Figura 5].

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11 FIGURA 5. Sequenze eptameriche e nonameriche delle RSS separate da spaziatori di 12 o 23 bp. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

Le RSS sono costituite da una sequenza altamente conservata di 7 nucleotidi definita eptamero, seguita da uno spaziatore di 12 o 23 nucleotidi non conservati che corrispondono rispettivamente a uno o due giri completi di elica del DNA, e da una sequenza altamente conservata di 9 nucleotidi ricchi in AT definitiva nonamero. La ricombinazione tra due segmenti genici si verifica soltanto se uno dei due segmenti è affiancato da uno spaziatore di 12 nucleotidi e l’altro segmento da uno spaziatore di 23 nucleotidi, definendo la cosiddetta “regola 12/23” in modo che vengono ricombinati solo gli appropriati segmenti genici.

1.1.3 Processo di ricombinazione somatica V(D)J

FIGURA 6. Inizio del processo di ricombinazione somatica V(D)J.Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

Nel processo di ricombinazione V(D)J interviene un complesso tetramerico, chiamato ricombinasi V(D)J, costituito dalle proteine Rag1 e Rag2 (Recombination-activating gene 1 e 2) come mostrato nella Figura 6. Rag-1, agendo come un’endonucleasi di restrizione, insieme a Rag-2 riconosce e taglia le sequenze di giunzione tra l’eptamero delle RSS e le sequenze V, D o J adiacenti in modo che la

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terminazione 3’OH dell’estremità codificante (V-J per le catene leggere o D-J per la catena pesante) si leghi covalentamente all’altro filamento formando una struttura a forcina (harpin). L’altra estremità, contenente l’eptamero e il resto delle RSS, viene rimosso sotto forma di anello [Figura 7].

FIGURA 7. Processo di ricombinazione V(D)J. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

Nel caso in cui i segmenti V sono disposti nello stesso orientamento dei segmenti J, come nel locus per le catene ĸ, il DNA a doppia elica viene invertito unendo i segmenti V-J e le RSS non vengono eliminate bensì conservate nel cromosoma. Anche se la maggior parte dei riarrangiamenti avviene per delezione, l’inversione può verificarsi nel locus per le catene K fino al 50% dei riarrangiamenti totali. Una conseguenza della ricombinazione V(D)J è che i promotori all’estremità 5’ dei geni V sono adiacenti a sequenze enhancer situate a valle, negli introni J-C e al 3’ dei geni della regione C. Le sequenze enhancer permettono un’alta velocità nella trascrizione genica e poiché i geni appartenenti ad altri loci possono essere qui erroneamente traslocati e trascritti in modo abnorme, si ritiene che questo fenomeno rappresenti uno dei fattori eziologici dello sviluppo di tumori di linfociti B.

Mentre nei loci per la catena leggera si verifica l’unione casuale di un segmento del gene V a un segmento del gene J, nel locus H per la catena pesante si hanno due distinti eventi di riarrangiamento poiché sia V che J hanno spaziatori di 23 nucleotidi che ostacolano il loro legame: il primo evento unisce un segmento D a un segmento J, il secondo ricongiunge il neoformato segmento DJ a un segmento V. Le regioni costanti C si posizionano a valle degli esoni V(D)J riarrangiati, separati da questi ultimi dagli introni J-C nella linea germinale.

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13

A

B

FIGURA 8. Successione degli eventi nella ricombinazione V(D)J. Tratto da Immunologia cellulare e molecolare, 7° ed. Abbas et al.

Con la ricombinazione V(D)J la struttura ad harpin formata viene scissa in maniera asimmetrica dall’endonucleasi Artemis [Figura 8A] lasciando un tratto di DNA più lungo rispetto all’altro. Il tratto più corto verrà esteso con l’aggiunta di nucleotidi P complementari fino al tratto più lungo introducendo così nuove sequenze nella giunzione V-D-J. Inoltre vengono aggiunti un massimo di 20 nucleotidi casuali N per azione di un enzima specifico dei linfociti, deossinucleotidiltransferasi terminale (Terminal deoxynucleotidyl Transferase, TdT). L’aggiunta di nucleotidi P e N contribuiscono alla diversità giunzionale ed è per questo che gli anticorpi mostrano la massima variabilità nella regione CDR3 del sito di legame dell’antigene.

Al termine del processo interviene il sistema di riparazione delle rotture del doppio filamento che recluta diverse proteine tra cui le proteine Ku70 e Ku80 e l’enzima DNA-PK (DNA-dependent Protein

Kinase) e la DNA ligasi [Figura 8B].

A questo punto l’esone riarrangiato verrà trascritto in un trascritto primario RNA che con il successivo evento di splicing unirà l’esone leader, l’esone V(D)J e l’esone per la regione C, formando così un mRNA funzionale che potrà essere tradotto nei ribosomi ancorati alla membrana del reticolo endoplasmatico rugoso. La proteina trasloca poi nel reticolo endoplasmatico e solo le catene pesanti verranno N-glicosilate durante questo processo di traslocazione. Il corretto assemblaggio delle catene pesanti, la loro associazione con le catene leggere e la formazione dei ponti disolfuro sono regolati dalle proteine chaperonine, comprendenti calnexina e la molecola Bip (Binding Protein) localizzate nel reticolo endoplasmatico. Dopo l’assemblaggio, le molecole Ig si staccano dalle chaperonine, vengono convogliate alle cisterne dell’apparato del Golgi e gli anticorpi all’interno di vescicole vengono trasportati verso la membrana cellulare: gli anticorpi di membrana verranno ancorati alla membrana mentre quelli secreti verranno endocitati.

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Il processo di sintesi e di assemblaggio delle catene delle immunoglobuline, appena descritto, si verifica in maniera graduale durante il processo di maturazione dei linfociti B. Inizialmente nella cellula pre-B si ha la ricombinazione dei geni del locus della catena pesante con la formazione di un esone VDJ riarrangiato separato da esoni della regione C della catena pesante. L’ RNA nucleare formato viene tagliato a valle di una o di due sequenze di poliadenilazione e diverse adenine (code di poli-A) sono aggiunte all’estremità 3’. Questo trascritto andrà incontro a splicing con rimozione degli introni e ricongiunzione degli esoni e l’mRNA verrà tradotto in proteina µ che associandosi con le “catene leggere surrogate” formerà il recettore delle cellule pre-B ( pre-B Cell Receptor, pre-BCR) espresso sulla superficie cellulare. Il recettore pre-BCR tramite la tirosina chinasi di Bruton genera segnali di sopravvivenza, proliferazione e maturazione necessarie per i linfociti pre-B; e regola anche l’ulteriore riarrangiamento dei geni delle Ig tramite due meccanismi. Il primo prevede l’inibizione irreversibile del riarrangiamento del locus della catena pesante sul secondo cromosoma solo se il primo riarrangiamento è risultato produttivo . Se il primo riarrangiamento non è avvenuto in maniera produttiva, l’allele delle catene pesanti sul secondo cromosoma subirà il riarrangiamento VDJ sul locus H. Così ogni clone linfocitario B può produrre proteine della catena pesante da solo uno dei due alleli e questo fenomeno è chiamato esclusione allelica e aiuta a garantire che ogni linfocita B esprima un solo recettore mantenendo la specificità clonale. Se entrambi gli alleli subiscono un riarrangiamento non produttivo del gene H, il linfocita in via di sviluppo non produrrà le catene pesanti, di conseguenza non genererà un segnale di sopravvivenza dipendente dal pre-BCR e va incontro a morte cellulare programmata.

Il secondo meccanismo è la stimolazione del riarrangiamento della catena leggera (ĸ o λ) con inibizione dell’espressione del gene per le catene leggere sostituitive.

Inizialmente il linfocita pre-B riarrangia i geni per la catena k e, se il riarrangiamento è avvenuto in maniera corretta, verrà prodotta la catena leggera che associandosi alla catena µ , precedentemente sintetizzata, produrrà una IgM di membrana. Se il locus k non è stato riarrangiato in modo corretto, la cellula può riarrangiare il locus λ producendo ugualmente una IgM di membrana. L’espressione della Ig M sulla superficie cellulare associata alle Igα e Igβ costituisce il recettore per gli antigeni (B Cell

Receptor, BCR) permettendo così il passaggio dallo stadio di cellula pre-B allo stadio di linfocita B

immaturo. La ricombinazione del locus delle catene ĸ o λ prevede l’unione del segmento V con un segmento J formando l’esone VJ. Tale esone rimane separato dalla regione C da un introne che permane nel trascritto primario del RNA . Lo splicing del RNA porterà alla formazione di un mRNA per la catena ĸ o λ. Dato che il riarrangiamento dei loci λ avviene solo se il riarrangiamento del locus ĸ non è avvenuto in maniera produttiva fa sì che un singolo clone linfocitario può esprimere solo uno dei due tipi di catene leggere: questo fenomeno è chiamato esclusione isotipica della catena leggera.

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15

Nell’uomo il 60% circa degli anticorpi è formato da catene leggere ĸ mentre il 40% da catene leggere λ .

Come nel locus H della catena pesante, l’espressione di ĸ o λ è selezionata a livello allelico e avviene in uno solo dei due cromosomi parentali. Inoltre se in un linfocita in maturazione entrambi gli alleli per le catene ĸ e λ non sono funzionali, la cellula non riuscirà a sopravvivere poiché incapace di ricevere i segnali di sopravvivenza e di differenziamento generati dal BCR in base all’affinità con l’antigene self. Se riconoscono l’antigene self con elevata affinità, andranno incontro al processo di editing recettoriale o di morte cellulare. Viceversa, i linfociti B immaturi non fortemente autoreattivi lasciano il midollo osseo e completano la loro maturazione nella milza prima di migrare agli altri organi linfoidi secondari.

1.2 Le catene leggere libere delle immunoglobuline

1.2.1 Cenni storici

Il Dott. Henry Bence Jones, patologo chimico presso l’ospedale di San Giorgio, è stato il primo a studiare una particolare proteina contenuta all’interno delle urine di un paziente affetto da mieloma. Ciò che aveva attirato l’attenzione del Dott. Bence Jones era il comportamento anomalo di questa proteina che si dissolveva in fase di ebollizione, ma precipitava nuovamente nella fase di raffreddamento; questa proteina fu chiamata proteina di Bence Jones.

Nel 1845 il Dott. William Macintyre, medico presso il Metropolitan Convalescent Institution e presso il Western General Dispensary in St. Marylebone a Londra, aveva visitato Thomas Alexander McBean, un droghiere che presentava, dopo una caduta accidentale, dolori lancinanti al petto e alla schiena ed edema alle gambe. All’esame del paziente, il Dott. Macintyre rilevava fratture ossee e una reazione peculiare delle urine se venivano riscaldate. A causa della presenza di edema e sospettando la possibilità che il paziente avesse una nefrosi, aveva testato l’urina per l’albumina. Da quest’analisi aveva notato lo strano comportamento del precipitato proteico di dissolversi in seguito a riscaldamento continuo delle urine, ma in grado di precipitare quando le urine venivano lasciate a raffreddare. Inoltre aveva notato che la proteina precipitava ad una temperatura più bassa rispetto a quella necessaria per l’albumina. In seguito a questo risultato decise di inviare i campioni di urina al patologo chimico Dott. Henry Bence Jones.

Purtroppo dopo due mesi di agonia e di dolore alla spalla laterale sinistra il paziente morì e l’autopsia rilevò che lo sterno, la cervicale e le vertebre toraciche e lombari erano fragili e facilmente divisibili; questo ha permesso di stabilire che l’unica malattia presente era il “mollities ossium” ( anomalo ammorbidimento delle ossa).

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Inoltre il Dott. John Dalrymple, chirurgo del Royal Ophthalmic Hospital e anche membro del Microscopical Society, analizzando la sostanza gelatinosa e morbida che era presente all’interno delle ossa colpite, aveva osservato la presenza di un gran numero di cellule nucleate che variavano in forma e dimensione. Queste descrizioni erano compatibili con plasmacellule maligne, infatti, Bence Jones iniziò a credere che il paziente deceduto fosse affetto da una qualche malattia ossea maligna. Solo nel 1873 Von Rustizky descrisse la patologia di questa condizione di tumori del midollo osseo come “mieloma multiplo”.

Nel 1847 H. Bence Jones descrisse le caratteristiche chimico-fisiche del campione di urina ipotizzando la presenza di una proteina anomala, deutossido idrato di albume, da ricercare in altri casi di mollities ossium. Nel 1909 sono stati riportati circa 40 casi di proteinuria di Bence Jones [Weber et al., 1909] e si è pensato che la proteina originasse da plasmacellule nel midollo osseo, come sostenuto per la prima volta da Waldeyer [1875]. Nel 1922, Bayne-Jones e Wilson caratterizzarono due tipi di proteine di Bence Jones osservando le reazioni di precipitazione usando antisieri di conigli immunizzati con l’urina dei pazienti. Ma solo nel 1956 Korngold e Lapiri mostrarono che gli antisieri usati reagivano anche contro proteine del mieloma e, per riconoscenza, i due tipi di proteine furono chiamati kappa (κ) e lambda (λ).

1.2.2 Stati di aggregazione delle catene leggere libere

I dimeri di FLC sono composte da due identiche FLC monomeriche (ĸ o λ) unite da legami covalenti o non covalenti. La formazione di dimeri non covalenti potrebbe avvenire mediante tramite forze elettrostatiche, legami idrofobici, e ponti d’idrogeno. La formazione di dimeri covalenti è resa possibile dalla formazione di ponti disolfuro intra-catena tra le cisteine C-terminale delle FLC mediante ossidazione dei loro gruppi tiolo (-SH) che agiscono da donatori di elettroni. Le FLC λ hanno una maggiore tendenza a dimerizzare e a oligomerizzare rispetto alle FLC ĸ [Solling, 1976]. La formazione di ponti disolfuro nelle proteine si verifica all’interno della cellula ed è catalizzata da una famiglia di ossido riduttasi. L’attività di questi enzimi dipende dal potenziale redox all’interno dei diversi compartimenti cellulari, influenzando la capacità della cellula nell’ossidazione dei gruppi tiolo con formazione del ponte di solfuro (S-S) oppure nella riduzione del ponte disolfuro in due gruppi tiolo [Wilkinson and Gilbert, 1699]. In determinate condizioni patologiche, come uno stress ossidativo, potrebbe verificarsi un cambiamento nel potenziale redox, influenzando così il sottile equilibrio tra stato tiolico e disolfuro. Infatti alti livelli di marcatori di stress ossidativo sono stati trovati nelle gammopatie monoclonali [Sharma et al.,2009].

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La dimerizzazione non covalente delle FLC ĸ o λ è dovuta ai residui di amminoacidi presenti nella regione framework del dominio variabile della catena leggera. I residui responsabili per la formazione dei dimeri sono: tirosina 36, glutammina 38, e tirosina 87 sono interessate nella formazione del ponte ad idrogeno interdominio, mentre la leucina 46 e la fenilalanina 98 formano contatti idrofobici [Schiffer, 1996]. Tuttavia i residui delle regioni che determinano la complementarietà (CDRs) possono influenzare la geometria dei dimeri di FLC [Stevens et al., 1980]: infatti la costante di dimerizzazione (KD) calcolata per 17 proteine di Bence Jones varia

significativamente, mostrando una differenza in KD > 1000 tra le catene leggere ĸ1.

Sebbene la costante di dimerizzazione riflette il grado di formazione di dimeri non covalenti, la conformazione dei dimeri uniti da ponti disolfuro è influenzata dalla propria affinità della FLC indicata da KD. Generalmente le FLC λ, che tendono a formare dimeri in maniera covalente, hanno

un’alta KD.

Nonostante le FLC solitamente si trovano sotto forma di monomeri o dimeri, sono stati riscontrati forme polimeriche di FLC. Nel 1986 Grey e Kohler individuarono nel siero di un paziente affetto da mieloma multiplo la presenza di un tetramero di FLC λ con un peso molecolare di 84 kDa in cui i due dimeri erano uniti da legami non covalenti. Kosaka e i suoi collaboratori [1989], descrissero la presenza di tetrameri di FLC nel siero e urine: i tetrameri ĸ erano formati da due dimeri covalenti mentre i tetrameri λ erano formati da due dimeri uniti non covalentemente. Successivamente Abraham e i suoi collaboratori [2002], descrissero la presenza di complessi trimolecolari mantenuti da interazioni non covalenti, formati da dimeri covalenti di FLC λ nel siero di un paziente affetto da mieloma multiplo.

1.2.3 Catabolismo delle catene leggere libere

Come descritto nel paragrafo precedente, le plasmacellule sintetizzano separatamente le catene leggere che verranno poi assemblate alle catene pesanti. Generalmente vengono prodotte più del 40% di catene leggere rispetto alle catene pesanti [Waldmann et al., 1972] con un rapporto 2:1 di ĸ su λ e l’eccesso di catene leggere prodotte assicura il corretto assemblaggio con le catene pesanti per la formazione dell’immunoglobulina intera. Le catene leggere non associate alle catene pesanti sono pertanto denominate catene leggere libere (free light chains, FLC) e si trovano nel circolo sanguigno. Le FLC k sono normalmente monomeriche con un peso molecolare di circa 22-25 kDa mentre le FLC λ tendono ad associarsi tra di loro formando dei dimeri uniti da un ponte disolfuro, con un peso molecolare di circa 50 kDa; tuttavia forme polimeriche di entrambe le FLC possono trovarsi in circolo.

Ogni giorno vengono prodotte 500 mg di FLC che vengono liberalmente filtrate dal glomerulo renale, riassorbite e catabolizzate nel tubulo prossimale mantenendo così un rapporto stabile tra produzione ed

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eliminazione di FLC. Le forme monomeriche sono metabolizzate in 2-4 ore al 40% della velocità di filtrazione glomerulare, le forme dimeriche in 3-6 ore al 30% della velocità glomerulare; mentre le forme polimeriche sono eliminate molto più lentamente [Miettinen and Kekki, 1967]. L’emivita delle FLC dipende dalla funzionalità renale, infatti in soggetti affetti da mieloma multiplo con insufficienza renale la rimozione delle FLC può essere prolungata di 2-3 giorni.

In condizioni normali, la concentrazione di FLC escreta nelle urine è tra 1 e 10 mg al giorno ed è piuttosto bassa rispetto ai 500 mg che normalmente sono prodotti dal sistema linfoide. La presenza delle FLC nelle urine non è chiara, e si pensa che attraversano la superficie mucosale della parte distale del nefrone e dall’uretra, insieme alle Ig A secretorie, come meccanismi di difesa nei confronti di agenti infettivi.

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2. Le gammopatie monoclonali

Le gammopatie monoclonali includono uno spettro eterogeneo di disordini plasmacellulari ad insorgenza tardiva che variano da forme premaligne, quali la gammopatia monoclonale di significato incerto e il mieloma multiplo asintomatico, a forme maligne, quali il plasmacitoma solitario, il mieloma multiplo, l’amiloidosi a catene leggere e la macroglobulinemia di Waldenstrӧm. Questi disordini sono caratterizzati dalla produzione di una componente monoclonale che può essere un’immunoglobulina intatta e/o catene leggere libere o raramente solo catene pesanti [Kyle et al., 2003].

E’ dunque di notevole importanza per la diagnosi e il monitoraggio di questi disordini valutare l’eccesso della componente monoclonale nel siero e/o nelle urine tramite l’uso di tecniche elettroforetiche e di immunofissazione.

2.1 Il mieloma multiplo

Il mieloma multiplo (multiple myeloma, MM) è la forma più comune di neoplasia maligna ematologica con un’incidenza annuale nella popolazione caucasica di 60 casi su un milione; dato che tende a crescere con l’aumentare dell’età [Cancer, 2014].

Questo tipo di tumore ha origine dalla proliferazione di un singolo clone linfocitario B secernente un’eccessiva quantità di componente monoclonale rilevabile nel siero del paziente facilitandone la diagnosi. Oltre alla produzione della componente monoclonale, le plasmacellule tumorali rilasciano una grande quantità di citochine infiammatorie che interferiscono con l’attività degli osteoclasti, cellule deputate al riassorbimento della matrice ossea, innescando fragilità e fratture ossee con aumento di calcio in circolo e interferendo con la normale produzione di cellule del midollo osseo con conseguente anemia.

I pazienti affetti da mieloma multiplo possono essere divisi in tre tipologie in base alla presenza o assenza di componente M prodotta dalle cellule tumorali [Raykumar et al., 2014]. La maggior parte dei pazienti (85%) presentano il mieloma multiplo secernente in cui la componente monoclonale viene secreta come immunoglobulina nella forma completa (più comunemente IgG, seguita da IgA); il 13% dei pazienti presenta il mieloma micromolecolare (light chain myeloma multiple, LCMM), che secerne solo le catene leggere dell’immunoglobulina, e solo una piccola quota (2%) presenta il mieloma non secernente (nonsecretory myeloma multiple, NSMM) in cui non si ha produzione di anticorpi ma di solo catene leggere libere. Questi dati sono stati ottenuti da uno studio condotto su 2950 pazienti in un trial clinico del Regno Unito [Drayson et al., 2006].

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Fino a poco tempo fa, la diagnosi di mieloma multiplo si basava soltanto sulla presenza di plasmacellule monoclonali in eccesso nel midollo osseo accompagnata dalla compromissione funzionale di determinati organi o tessuti, ovvero ipercalcemia, insufficienza renale, anemia o lesioni ossee , noti come criteri CRAB ( hypercalcaemia, renal insufficiency, anaemia or bone lesions, CRAB). Tuttavia le linee guida hanno aggiunto i “biomarcatori di malignità”, conosciuti come criteri SLiM che includono l’alto anomalo rapporto tra catena legata/ libera (rapporto sFLC > o = 100) determinato con il saggio Freelite, nei criteri diagnostici per il mieloma multiplo [Raykumar et al., 2014].

2.1.2 Mutazioni ed evoluzione clonale nel mieloma multiplo

La gammopatia monoclonale di significato incerto e il mieloma multiplo asintomatico sono discrasie plasmacellulari asintomatiche con una propensione a progredire nel mieloma multiplo. Analisi genetiche hanno dimostrato che queste condizioni pre-maligne condividono alcune delle mutazioni associate al mieloma multiplo, e che mutazioni genetiche multiple sono richieste per la progressione al mieloma multiplo [Morgan et al., 2012]. Tali eventi mutazionali non vengono acquisiti in maniera lineare bensì seguendo un pathway “ramificato” [Bahlis, 2012].

Durante l’evoluzione del mieloma multiplo, i cloni tumorali potrebbero acquisire ulteriori anomalie genetiche, ad esempio permettendogli di espandersi ulteriormente o di competere con la nicchia stromale all’interno del midollo osseo, in modo che all’interno di un unico paziente possano esistere cloni multipli distinti geneticamente. Inoltre, la composizione clonale cambia durante il corso della patologia, portando alla formazione di maree di cloni mielomatosi che competono per il dominio del paesaggio che viene modificato continuamente dalla terapia [Bahlis, 2012].

Ayliffe e i suoi collaboratori [2012], studiarono l’espressione delle catene pesanti e leggere delle immunoglobuline nelle plasmacellule tumorali in biopsie midollari di 146 pazienti affetti da mieloma multiplo. La maggior parte dei pazienti presentava una singola popolazione tumorale che esprimeva sia l’immunoglobulina intera monoclonale che le FLC (42%), alcuni soltanto l’immunoglobulina intera (32%) o soltanto catene leggere libere (8%). Tuttavia nel restante 18% dei pazienti, erano presenti due distinti cloni plasmacellulari: uno produceva solo l’intatta immunoglobulina mentre l’altro solo catene leggere libere. Per cui all’interno di un singolo paziente, possono esistere cloni multipli che esprimono differenti proteine monoclonali [2007]. Successivamente Keats e i suoi collaboratori [2012], dimostrarono la presenza di cloni multipli in un paziente con mieloma multiplo secernente IgA.

In realtà le prime osservazioni dei cambiamenti nella produzione della proteina monoclonale durante l’evoluzione del mieloma multiplo furono pubblicate da J. R. Hobbs nel 1969 da una sua analisi sul

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primo trial clinico nel Regno Unito [Hobbs, 1969]. Egli descrisse la presenza delle proteine di Bence Jones in 15 pazienti in recidiva di malattia, nei quali la concentrazione sierica dell’immunoglobulina intera era diminuita ma la proteinuria di Bence Jones era aumentata drammaticamente. In accordo alla fenotipizzazione dei cloni di Ayfille basata sull’espressione di proteine nei cloni plasmacellulari [Ayfille et al., 2012], Hobbs utilizzò la determinazione delle proteine nel siero come indicatori del cambiamento clonale durante il corso della malattia del paziente. Egli perciò suggerì tre classificazioni dell’evoluzione clonale:

1) perdita di catene leggere, in cui vi è un aumento della concentrazione delle FLC seriche senza un aumento della immunoglobulina intatta.

2) perdita di immunoglobulina intatta, in cui vi è un aumento dell’immunoglobulina intatta monoclonale senza un aumento associato delle FLC sieriche.

3) cambiamento clonale in cui vi è un cambiamento nella relativa proporzione dell’intatta immunoglobulina monoclonale e FLC sieriche.

Anche se l’analisi genotipica può identificare cambiamenti nell’architettura clonale della malattia e identificare se la progressione della malattia è dovuta all’acquisizione di mutazioni genetiche o alla presenza di cloni multipli, questa tecnica non è ancora disponibile al di fuori dello studio clinico. In ogni caso l’analisi delle FLC nel siero e delle immunoglobuline intatte sono tecniche semplici e disponibili che permettono ai pazienti di essere monitorati per l’evidenzia dell’evoluzione clonale. Tramite studi condotti sul midollo osseo con la tecnica di ibridazione in situ (fluorescente in situ

hybridization, FISH), è emerso che circa il 40% dei pazienti affetti da mieloma multiplo presenta

trisomie nelle plasmacellule neoplastiche mentre la maggior parte presenta traslocazioni del locus della catena pesante (Ig H) sul cromosoma 14q32 [Bergsagel and Kuel, 2001]. Una piccola quota dei pazienti presenta sia traslocazioni che trisomie. Le trisomie e le traslocazioni IgH sono considerate anomalie citogenetiche primarie e sono presenti nel momento in cui si fa la diagnosi per la gammopatia monoclonale di incerto significato [Rajkumar, 2016]. Altri cambiamenti citogenetici, definiti perciò secondari, si possono verificare durante il decorso del mieloma multiplo come l’’acquisto(1q), delezione(1p), delezione(17p), delezione(13), mutazioni nel gene RAS e traslocazioni secondari che interessano MYC.

Le anomalie citogenetiche sia primarie che secondarie possono influenzare il corso della malattia, la risposta alla terapia e la prognosi [Rajan and Rajkumar, 2015].

Le due principali anomalie, con un peggior outcome per i pazienti, includono la del(17p), e tr(4;14). Nonostante la presenza di queste anomalie cromosomiche identifica i pazienti come soggetti ad alto rischio, l’andamento della malattia non è uniforme e alcuni pazienti possono presentare una lunga sopravvivenza per la presenza di alterazioni cromosomiche definite positive. Chetrien e i suoi

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collaboratori [2015], eseguirono uno studio su 965 pazienti affetti da mieloma e tramite la metodica degli SNP (single nucleotide polymorphic) array, era emerso che 168 pazienti presentavano la tr(4;14) e 126 pazienti la del(17p). Da questo studio si notò che la presenza del cromosoma 3, in tripla copia, induceva una migliore sopravvivenza libera dalla progressione della patologia e che esistono tre trisomie che modulano la sopravvivenza globale nei pazienti affetti da mieloma multiplo: la trisomia del cromosoma 3 e 5 migliorano significativamente la sopravvivenza globale, mentre la trisomia 21 la peggiora. Il dato interessante che emerge da questo studio è che le trisomie 3 e/o 5 sembrano in grado di superare la peggiore prognosi indotta dalla presenza della tr(4;14). Per cui pazienti inizialmente classificati come ad alto rischio potrebbero essere classificati come pazienti a rischio standard.

2.1.3 Danno osseo nel mieloma multiplo

Fattori genetici e ambientali sono stati implicati nella progressione della gammopatia di significato incerto nel mieloma multiplo [Kyle and Kumar, 2009], ma le cause per cui si verifica soltanto in una piccola quota dei pazienti non sono state ancora definite. La progressione nel mieloma multiplo è stata correlata con cambiamenti nel microambiente del midollo osseo, che comprendono l’aumento dell’angiogenesi, la soppressione della risposta immunitaria e l’aumento del riassorbimento osseo [Kyle and Rajkumar, 2004]. Più dell’80% dei soggetti affetti da mieloma multiplo sviluppa malattia ossea osteolitica, spesso associata ad ipercalcemia, dolore osseo, fratture vertebrali, e fratture patologiche. Le fratture patologiche colpiscono dal 40% al 50% i pazienti affetti da mieloma multiplo, aumentando il rischio di morte più del 20% rispetto ai pazienti senza fratture [Sonmez et al., 2008].

E’ stato ben documentato che l’interazione delle plasmacellule maligne con le cellule stromali dell’osso è importante per la crescita e per la migrazione delle plasmacellule tumorali così come per la riduzione degli osteoclasti, cellule deputate al riassorbimento osseo, e per le attività degli osteoblasti, cellule deputate alla formazione dell’osso. In particolare in aree adiacenti alle cellule mielomatose l’attività degli osteoclasti aumenta, con un intenso riassorbimento osseo, mentre quella degli osteoblasti diminuisce con conseguente riduzione nella formazione di ossa [Bjorkstrand et al., 2011].

Inoltre è stato anche dimostrato che dall’interazione delle cellule mielomatose con le cellule stromali del midollo osseo vengono prodotti diversi fattori che alterano le funzioni delle cellule immunitarie dell’ospite, interferendo così con la sorveglianza immunitaria e contribuendo al peggioramento della patologia.

E’ stato dimostrato che tra i fattori prodotti dalle cellule mielomatose per l’attivazione degli osteoclasti sono presenti il recettore decoy 3 (decoy receptor 3, DcR3), l’interleuchina 3

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(interleukin-23

3, IL-3), macrophage inflammatory protein-1α (macrophage inflammatory protein-1α, MIP-1α), (macrophage inflammatory protein-1β, MIP-1β) e il fattore di necrosi tumorale ( tumor necrosis factor-α, TNF-α).

Oranger e i suoi collaboratori [2003], hanno dimostrato che DcR3, membro della superfamiglia recettoriale di TNF e implicato nel differenziamento degli osteoclasti [Yang et al., 2004], era sovraespresso in cellule mielomatose ottenute da pazienti affetti da mieloma multiplo con osteolisi. La capacità delle cellule tumorali di sovraesprimere l’IL-3 è stata dimostrata da Lee e collaboratori [2004], con funzione sia di aumentare il numero di pre-osteoclasti che successivamente matureranno in veri e propri osteoclasti, sia di inibire il differenziamento degli osteoblasti [Ehrlinch et al., 2005]. Il fatto che l’IL-3 è il principale mediatore del danno osseo trova conferma che i suoi livelli nel plasma e nel midollo osseo sono alti in pazienti affetti da mieloma multiplo [Merico et al., 1993].

MIP-1α è una chemochina che ha ruolo nell’ematopoiesi, ha la funzione di reclutare gli osteoclasti e di indurre il differenziamento delle cellule dell’osso e ha capacità di legarsi hai recettori CCR 1 e CCR 5 presenti sui monociti e sulle cellule stromali del midollo osseo. Rivollier e i suoi collaboratori [2004], hanno dimostrato che MIP-1α induce il differenziamento degli osteoclasti sia dai monociti che da cellule dendritice immature mediante transdifferenziamento e ciò spiegherebbe la distruzione dell’osso e l’immunosoppressione. Un’altra funzione di MIP-1α è di indurre sopravvivenza, crescita e chemiotassi delle cellule mielomatose [Lentszch et al., 2003].

MIP-1β è una chemochina, prodotta costitutivamente dalle plasmacellule tumorali, con funzione analoga a MIP-1α nel causare lesioni osteolitiche [Roodman, 1997].

Le cellule mielomatose producono inoltre il TNF-α, capace di indurre la formazione degli osteoclasti [Nanes, 2003], promuove la proliferazione delle cellule tumorali tramite l’aumento dell’interleuchina-6 [Hideshima et al., 2001] prodotta dalle cellule stromali dell’osso, induce l’apoptosi negli osteoblasti [Nanes, 2003].

In letteratura sono emersi dati contrastanti sulla produzione di RANK-L, molecola pro-osteoclastogenica, da parte delle cellule mielomatose. Il recettore RANK normalmente espresso dai precursori degli osteoclasti può legare sia RANKL, inducendo la formazione degli osteoclasti, sia l’osteoprotegerina (OPG) che invece inibisce la formazione degli osteoclasti. In alcuni studi condotti su cellule mielomatose [Heider et al., 2003] si conferma l’espressione di RANKL mentre in altri studi non è rilevabile [Brunetti et al., 2006], anche se da uno studio condotto da Jakob e i suoi collaboratori, è emerso che alti livelli di RANKL sono stati trovati nel siero di pazienti affetti da mieloma multiplo.

Le cellule mielomatose secernono anche citochine come IL-6, IL-10, TGF-β e VEGF con funzione di inibire la corretta maturazione delle cellule dendritiche, cellule deputate alla presentazione

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dell’antigene per l’inizio della risposta immunitaria. Ciò spiegherebbe la presenza di cellule dendritiche in soggetti affetti da mieloma multiplo con una ridotta attività fagocitaria [Ratta et al., 2002]. Inoltre è stato visto che le cellule dendritiche hanno una minor espressione dei marker e quindi una ridotta capacità di presentazione dell’antigene alle cellule T [Wang et al., 2006].

Oltre alla produzione di citochine che favoriscono lo sviluppo e il differenziamento degli osteoclasti, le plasmacellule secernono anche molecole con funzione inibitoria per l’attività degli osteoblasti. Le cellule mielomatose secernono proteine 2 e 3-frizzle solubili ( soluble frizzled-related proteins-2

and-3, sFRP-2 and -3) [Oshima et al., 2004; Giuliani et al., 2007], proteina Dickkopf-1 (DKK-1) [Tiann et

al., 2003] e la sclerostina [Colucci et al., 2011], che hanno il compito di inibire il pathway canonico di Wint. Il pathway canonico di Wint è implicato nel differenziamento degli osteoblasti e la presenza di questi inibitori nel microambiente osseo regolano negativamente l’osteoblastogenesi.

Le cellule mielomatose hanno anche la capacità di aderire alle cellule stromali del midollo osseo attivando una serie di pathway che portano alla sovraregolazione di proteine anti-apoptotiche e di citochine che regolano il ciclo cellulare. L’interazione tra queste due tipologie cellulari induce il rilascio da parte delle cellule stromali dell’interleuchina-6 (IL-6) tramite la via di trasduzione NF-kB [Chauchan et al., 1996], inducendo così proliferazione delle cellule tumorali e inibendo l’apoptosi delle cellule mielomatose. Si ha il rilascio della proteina BAFF [Tai et al., 2006], implicata nel normale sviluppo dei linfociti B, da parte delle cellule stromali tramite la via NF-kB, che induce sopravvivenza nelle cellule mielomatose e induce il differenziamento in senso osteoclastogenico tramite la via RANKL [Hemingway et al., 2011]. Le cellule stromali rilasciano anche l’ Activin-A che modula il rimodellamento dell’osso agendo sul promotore degli osteoclasti e inibendo il differenziamento degli osteoblasti. In soggetti affetti da mieloma multiplo con patologia ossea avanzata, si sono trovati alti livelli di Activin-A nel midollo e nel sangue periferico [Vallet et l., 2010].

Gli stessi osteoclasti sono capaci di produrre Activin-A e MIP-1α [Terpos et al., 2003] aumentando così il numero dei precursori degli osteoclasti con conseguente attivazione e differenziamento.

Gli osteoblasti, invece, in co-coltura con cellule mielomatose secernono l’IL-6 [Karadag et al., 2000] promuovendo così la crescita e la sopravvivenza delle cellule tumorali. Da uno studio condotto da Giuliani e i suoi collaboratori [2007], è emerso che il numero di osteociti, cellule deputate alla mineralizzazione della matrice ossea, era significativamente minore in pazienti con mieloma multiplo con lesioni ossee rispetto a quelli senza lesioni ossee e che questo dato correlava negativamente con il numero degli osteoclasti. Inoltre le cellule mielomatose inducono negli osteociti un aumento nella produzione della interleuchina-11 (IL-11) che agisce sui precursori degli osteoclasti, incrementando quindi il loro differenziamento.

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Nel sangue periferico di pazienti affetti da mieloma multiplo, la conta assoluta dei linfociti e delle cellule T è spesso bassa a causa della riduzione del numero delle cellule T CD4 positive, associate ad una significativa diminuzione del rapporto di cellule T CD4/CD8 [Kay et al., 1999]. Da uno studio condotto da Joshua e i suoi collaboratori [2008], su pazienti affetti da mieloma multiplo è stata identificata una sottoclasse di cellule T CD4 positive, chiamate cellule T regolatorie (Tregs) con funzione di mantenere la self-tolleranza e l’omeostasi del sistema immunitario con funzioni soppressive. Queste cellule sono prodotte preocemente durante lo sviluppo del tumore e contribuiscono alla tolleranza tumorale [Zhou and Levitsky, 2007].

Diversi lavori contrastanti si sono occupati sullo studio delle cellule Tregs in pazienti affetti da mieloma multiplo. In uno studio condotto da Prabhala e i suoi collaboratori [2006], si è dimostrato che le cellule Tregs sono significativamente basse in soggetti affetti da gammopatia monoclonale di significato incerto (MGUS) e mieloma multiplo mentre in altri studi sempre condotti su soggetti con MGUS e mieloma multiplo erano in aumento rispetto al soggetto sano [Beyer and Kochanek, 2006]. Inoltre nel midollo osseo di soggetti affetti da mieloma multiplo si è dimostrato l’esistenza di un lineage distinto di cellule T helper che producono l’interleuichina-17 (IL-17), denominate cellule Th17-1 [Dhodapkar et al., 2008]. L’IL-17, oltre a mantenere la sopravvivenza cellulare, è coinvolta nel danno osteolitico [Noonan et al., 2010].

L’attivazione delle cellule T porta ad un rilascio di una serie di citochine (IL-3, DcR3,RANKL, TNF-α) coinvolte all’attivazione degli osteoclasti. Inoltre l’espressione elevata di TRAIL e OPG nelle cellule T ha permesso di dimostrare che la loro interazione potrebbe contribuire all’elevata formazione di osteoclasti con un’emivita duratura in pazienti affetti da mieloma multiplo [Colucci et al., 2004].

2.1.3 Danno renale nel mieloma multiplo

Il danno renale è una comune conseguenza del mieloma multiplo ed è identificata in più del 50% dei pazienti al momento dell’ insorgenza della patologia. L’eccessiva produzione di catene leggere libere nei pazienti affetti da mieloma multiplo e l’associata proteinuria sono spesso causa di diversi disordini renali. Le tipologie di danno renale nelle discrasie plasmacellulari variano considerevolmente e sono influenzate dalle proprietà strutturali della singola FLC monoclonale, come il dominio variabile, ma anche da fattori ambientali come il pH e l’attività proteolitica del tessuto [Herrera and Sanders, 2007]. I disordini renali associati alle discrasie plasmacellulari possono essere divise in base al tipo predominante di danno: danno glomerulare o danno tubulo-interstiziale.

Nei disordini tubulo-interstiziali rientra il rene mielomatoso (cast nephropaty) e la sindrome di Fanconi. La cast nephropaty è la causa più frequente di danno renale acuto (acute kidney injury, AKI)

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che si verifica nel 90% dei soggetti affetti da mieloma multiplo ed è caratterizzata da atrofia tubulare e fibrosi tubulo-interstiziale [Dimopoulos and Terpos, 2010]. L’eccessiva produzione di FLC supera la capacità delle cellule tubulari di catabolizzarle così che le FLC compaiono nel fluido tubulare del segmento distale del nefrone dove formano dei cilindri tubulari con la proteina Tamm-Horsfall (THP, conosciuta anche come uromodulina), una glicoproteina di 150 kD con un àncora di glicofosfatidilsinolo espressa nel tratto ascendente dell’Ansa di Henle. Le catene leggere libere interagiscono tramite le regioni ipervariabili che determinano la complementarietà (CDR) con siti specifici di legame della proteina Tamm-Horsfall formando aggregati e cilindri tubulari che, di conseguenza, ostruiscono il tubulo distale e il tratto ascendente dell’ansa di Henle [Huang and Sanders, 1995; Huang and Sanders, 1997]. Huang e Sanders [1997] hanno identificato il sito di legame per le FLC sulla proteina THP che corrisponde alla regione CDR3 del dominio variabile sia di FLC-ĸ e FLC- λ. Il sito di legame identificato è costituito da 9 aminoacidi e denominato LCBD.

L’aumentata concentrazione di FLC nel plasma fa sì che le FLC vengano filtrate dai rimanenti nefroni funzionanti, i quali a loro volta si ostruiscono, innescando un circolo vizioso con ulteriori aumenti nelle concentrazioni di FLC nel siero e danno renale progressivo. In effetti questo processo potrebbe spiegare il motivo per cui alcuni dei pazienti affetti da mieloma multiplo senza un pre-esistente danno renale sviluppano improvvisamente la cast nephropaty. Il processo può essere aggravato da fattori che promuovono il danno renale acuto quali la disidratazione, l’ipercalcemia, infezioni, uso di diuretici e di farmaci nefrotossici (antibiotici e farmaci antiinfiammatori non steroidei) che promuovono la formazione di aggregati della proteina Tamm-Hosfall con le catene leggere [Sanders et al., 1990]. Anche se entrambi gli isotipi di FLC sono nefrotossiche, le FLC di tipo λ sono maggiormente implicate nella formazione di fibrille amiloide che contribuiscono al danno glomerulare, mentre le FLC di tipo ĸ sono maggiormente implicate nella sindrome di Fanconi e nella malattia della deposizione di catene leggere ( light chain deposition disease, LCDD).

La sindrome di Fanconi sembra essere dovuta ad una disfunzione secondaria del tubulo prossimale per il riassorbimento delle FLC che sono resistenti alla proteolisi e cristallizzano all’interno dei lisosomi. Questa disfunzione porta ad una perdita di soluti, inclusi fosfati, glucosio, aminoacidi e bicarbonato ed è caratterizzata da acidosi renale tubulare. Le FLC trovate in pazienti affetti dalla sindrome di Fanconi appartengono al sottogruppo V1ĸ che derivano da soltanto due geni della linea germinale: IGKV1-39 e IGKV1- 33 [Hutchison et al., 2011]. Queste proteine mostrano delle peculiari sequenze uniche nelle regioni che determinano la complementarietà (CDR): la sostituzione dei residui polari tramite residui non polari o residui idrofobici nel CDR può indurre resistenza del dominio Vk alla proteolisi e portare alla cristallizzazione della catena leggera [Aucouturier et al., 1993].

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Nei disordini a livello glomerulare fanno parte l’amiloidosi AL e la deposizione delle catene leggere (LCDD).

L’amiloidosi AL ( light chains- amyloidosis, AL) è caratterizzata da una bassa o non rilevabile proliferazione plasmacellulare [Gertz et al, 1989] e l’evoluzione nel mieloma multiplo non è frequente. E’ causata dall’accumulo di FLC monoclonali o dei loro frammenti nell’ambiente extracellulare sotto forma di fibrille amiloidi insolubili che causano danno strutturale e funzionale d’organo [Merlini and Stone, 2006]. Nell’amiloidosi di tipo AL le fibrille sono formate da un frammento N-terminale della catene leggere dell’Ig monoclonale comprendente la regione variabile e la porzione della regione costante. Soltanto una piccola quota di FLC monoclonali forma fibrille amiloidi in vivo ed è probabilmente dovuta a caratteristiche strutturali della regione variabile della FLC. A differenza delle altre discrasie plasmacellulari, l’isotipo λ delle FLC è più frequente nell’amiloidosi AL con un rapporto di 3:1 rispetto all’isotipo ĸ, suggerendo l’esistenza di geni della linea germinale del dominio variabile (V) dell’isotipo λ associate all’amiloidosi. E’ stato inoltre scoperto che la formazione di fibrille amiloidi da parte dell’isotipo λ è dovuta alla sovraespressione dei segmenti genici di Vλ6a e Vλ3r [Perfetti et al., 2002], mentre nell’isotipo ĸ i segmenti genici VĸI e VĸIV sono più frequentemente riarrangiati nell’amiloidosi AL [Abraham et al., 2003].

Le basi molecolari che spiegano la localizzazione dei depositi fibrillari in specifici organi quali rene, fegato, cuore, ma anche in altri organi sono ancora in fase di studio. Come riportato da Comenzo e i suoi collaboratori [1999], le catene leggere che derivano dai geni della linea germinale λ6a sono associate preferenzialmente al danno renale forse tramite interazione recettoriale con le cellule mesangiali [Teng et al., 2004], mentre le catene leggere ĸ sono maggiormente associate al danno d’organo nel tratto gastrointestinale e nel fegato [Kumar et al., 2010].

Sebbene sia l’amiloidosi AL che la deposizione di catene leggere (LCDD), siano accomunate dalla deposizione di FLC monoclonali, esistono comunque delle differenze. Nella LCDD, la catena leggera interessata è l’isotipo ĸ, in particolare Vk1 e Vk4, piuttosto che l’isotipo λ; le FLC non si associano per formare fibrille e sono negative alla colorazione con il rosso Congo [Dimopoulos et al., 2008]; la deposizione delle FLC avviene più frequentemente a livello renale piuttosto che nel cuore, fegato o in altri organi; è inoltre maggiormente associata nei pazienti con mieloma multiplo [Pozzi et al., 2003] e le FLC sono rilevabili nelle urine [Merlini and Stone, 2006].

2.1.4 Nefrotossicità delle catene leggere libere monoclonali

Le catene leggere libere si trovano in concentrazioni similari nell’ambiente vascolare ed extravascolare [Takagi et al.,1980]. Di conseguenza, il compartimento vascolare può contenere soltanto il 15-20% della quota totale delle FLC nel corpo. La concentrazione sierica delle FLC κ e ʎ

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dipende dall’equilibrio tra la loro produzione e la loro clearance. Sebbene le FLC κ siano prodotte in un rapporto 2:1 rispetto alle FLC ʎ, la clearance renale dei monomeri κ è più veloce rispetto ai dimeri ʎ. Per cui l’emivita nel siero di k è di 2 ore contro le 4-6 per i dimeri lambda.

In condizioni fisiologiche, le FLC vengono filtrate dal glomerulo renale, riassorbite a livello del tubulo renale tramite il processo di endocitosi mediata dal sistema recettoriale megalina-cubilina e degradate all’interno delle cellule tubulari per azione di enzimi lisosomiali.

Il sistema recettoriale megalina-cubilina svolge un ruolo importante nell’endocitosi delle catene leggere e di altre proteine a basso peso molecolare: la megalina è localizzata sul dominio apicale delle cellule epiteliali del tubulo contorto prossimale renale con un dominio transmembranale capace di internalizzare direttamente i suoi ligandi; mentre la cubilina sebbene ancorata alla membrana plasmatica perde il dominio citosolico per iniziare l’endocitosi. I ligandi che si legano alla cubilina vengono endocitati insieme alla megalina, la quale agisce da proteina chaperone per la cubilina mentre internalizza il suo ligando [Christensen and Birn, 2001].

L’endocitosi di FLC è stata impedita con varie metodiche: utilizzando anticorpi diretti sia contro la megalina sia contro la cubilina [Batumann et al, 1998; Klassen et al., 2005]; bloccando l’acidificazione endosomiale tramite bafilomicina o interferendo con il pathway delle vescicole di clatrina tramite aggiunta nel medium di saccarosio ipertonico. In questo modo si è anche impedita anche la risposta infiammatoria indotta dalle FLC [Batumann et al., 1998; Klassen et al., 2005] suggerendo che l’eccessiva endocitosi delle FLC è un pre-requisito necessario per la citotossicità delle FLC, anche se in questi esperimenti non è stato dimostrato direttamente che diminuendo o bloccando l’endocitosi si annullano le risposte infiammatorie .

Da un esperimento condotto da Min Li e suoi collaboratori [2008], è stato dimostrato che l’eccessiva endocitosi di catene leggere induce sia il rilascio di citochine pro-infiammatorie e infiammatorie in cellule umane del tubulo contorto prossimale renale ( proximal tubular epithelial cells, PTECs) sia la caratteristica transizione epitelio-mesenchima (epithelial-mesenchimale transition, EMT) tipica delle patologie tumorali. Queste risposte sono mediate dall’attivazione del fattore nucleare-kb ( nuclear

factor-kb, NF-kb) mediante la via di trasduzione del segnale delle MAPK, in particolare dalla proteina

p38. Gli inibitori di NF-kb e delle MAPK prevengono la risposta infiammatoria indotta dalle catene leggere, confermando così il ruolo centrale della via di trasduzione del segnale e dei fattori di trascrizione.

L’esperimento condotto da Min Li e dai suoi collaboratori mirava a studiare l’effetto dell’endocitosi delle catene leggere libere (FLC) sulla citotossicità delle catene leggere libere) mediante silenziamento dei geni della cubilina e megalina,. L’endocitosi delle FLC è stata inibita tramite transfezione simultanea con siRNA per la megalina e cubulina in colture cellulari immortalizzate HK-2 di cellule

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