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Percorso clinico completo di P.C.A. (Patient Controlled Analgesia)post operatoria

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Academic year: 2021

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RIASSUNTO

A partire dalla seconda metà del Novecento si è lentamente diffusa la concezione della cura del dolore, sia quello dovuto a patologie croniche, tipicamente il dolore neoplastico, sia quello acuto.

In questa tesi si pone l’attenzione sulla terapia del dolore acuto postoperatorio tramite la metodica della PCA endovenosa.

In questa tecnica è racchiuso un concetto innovativo: coinvolgere attivamente il paziente nel suo processo di cura dandogli la possibilità di autosomministrare dosi di analgesico nel momento esatto in cui sente il bisogno di alleviare il suo dolore, eliminando così i tempi di attesa che inevitabilmente intercorrerebbero tra la chiamata del paziente e l’arrivo di un infermiere per la somministrazione del farmaco. Numerosi studi inoltre hanno evidenziato che la quantità di farmaco consumato con la PCA è inferiore a quella che verrebbe consumata con una terapia al bisogno, ottenendo comunque il medesimo sollievo dal dolore.

Le variabili della PCA vengono programmate dai medici prima che la pompa sia messa a disposizione del paziente: la modalità infusionale, la via di infusione, il bolo, la dose carico, il lock out, il limite in 1 o 4 ore.

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I farmaci utilizzati sono generalmente analgesici oppioidi, con la morfina al primo posto.

Nella tesi vengono trattati anche i capitoli della sicurezza, degli eventi avversi che si sono verificati con questa metodica e dei miglioramenti che possono essere apportati nella gestione di un progetto di “Ospedale senza Dolore”.

La comunicazione con il paziente è un punto fondamentale nell’analgesia controllata dal paziente. I sanitari hanno il compito di insegnare ai pazienti il corretto uso della PCA, ma anche di rassicurarlo e chiarire i suoi dubbi sulla terapia del dolore.

E’ ormai appurato che un alto grado di ansia preoperatoria è correlato ad una percezione maggiore di dolore postoperatorio e ad una globale insoddisfazione del paziente riguardo la degenza in ospedale e la sua terapia.

Obiettivo di questa tesi è verificare se l’informazione preoperatoria accurata dei pazienti abbia qualche influenza sul consumo di morfina, sul rapporto tra numero di boli infusi e numero di richieste totali fatte dal paziente (sia “soddisfatte” che “non soddisfatte”) e sul suo gradimento. A tale proposito abbiamo confrontato un gruppo prospettico, informato accuratamente, con un gruppo storico, che invece aveva ricevuto un’ informazione standard durante la visita anestesiologica.

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1.

PCA:

ANALGESIA

CONTROLLATA

DAL

PAZIENTE

1.1 Introduzione

Uno dei metodi più comuni per garantire il controllo del dolore postoperatorio è quello della PCA, cioè il processo in cui il paziente si auto-somministra l’analgesico, decidendo sia quando, in base alle sue esigenze, sia quanto farmaco assumere.

A questi scopo viene utilizzata una pompa elettronica che rilascia dosi programmate di farmaco non appena il paziente schiaccia un pulsante collegato all’apparecchio stesso.

Generalmente i farmaci impiegati sono di oppioidi somministrati per via endovenosa, ma il concetto di PCA non si limita ad una singola classe di farmaci, né ad una singola via di somministrazione; difatti possono essere utilizzati vari tipi di analgesici per via orale, sottocutanea, epidurale, intramuscolare o anche tramite un cateterino posizionato presso i nervi periferici.

Il capitolo della terapia del dolore nei reparti ospedalieri è ancora molto attuale e addirittura ai suoi primi sviluppi; negli ultimi trent’anni sono stati riscontrati spesso casi di inadeguato trattamento del dolore acuto e, verosimilmente, continuano a verificarsi tutt’oggi.

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Da numerose ricerche in merito, risulta che perlomeno il 50% dei pazienti che hanno lamentato un insufficiente sollievo dal dolore postoperatorio, avevano comunque ricevuto oppioidi con iniezioni intramuscolari: questo significa che non solo ci possono essere casi di totale assenza di una terapia antalgica, ma anche che, quando questa è attuata con i tradizionali metodi, può essere inadeguata.[1]

Uno dei motivi per cui, soprattutto in Italia, la terapia del dolore non è molto diffusa è una vera e propria “oppiofobia”. La morfina è stata a lungo temuta da operatori sanitari e mass media per le valenze negative ad essa attribuite nell’immaginario collettivo; l’uso degli oppioidi infatti non è associato ad un fatto terapeutico, ma piuttosto ad un abuso. Miti e credenze sugli effetti negativi come la dipendenza, la tolleranza, la depressione respiratoria, non hanno alcun riscontro scientifico; certo, alcuni di questi sono effetti negativi che esistono, ma si verificano con estrema rarità. Dosi regolari di morfina sono utilizzate con sicurezza anche a domicilio per periodi prolungati; la dose può essere ridotta senza difficoltà, qualora il dolore si allevi o la sua causa possa essere curata con altre terapie. I comuni effetti collaterali quali sonnolenza, confusione, nausea o vertigini, si presentano all’inizio del trattamento ma generalmente tendono a risolversi dopo pochi giorni. Al contrario, la costipazione risulta

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essere un effetto più prolungato, per cui talvolta è opportuno l’uso profilattico di lassativi.[27]

Intorno al 1960 si cominciò a porre l’attenzione sul fatto che piccole dosi endovenose di oppioidi, somministrate dal personale sanitario su richiesta del paziente, sono più efficaci nel ridurre il dolore acuto rispetto alle convenzionali iniezioni intramuscolari; ovviamente, la necessità di frequenti iniezioni ad un gran numero di pazienti era proibitivo per il personale infermieristico in termini di tempo e per l’ospedale in termini economici, per cui gli interessi si indirizzarono verso lo sviluppo di nuove strumentazioni per il rilascio automatico, su richiesta del paziente, di una dose di analgesico.

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2. IL DOLORE POSTOPERATORIO

2.1 Concetti generali

Il dolore acuto è di solito associato ad una precisa malattia o trauma ed è previsto che sia limitato al tempo necessario per riparare il danno. Il dolore postoperatorio (DPO) è considerato uno dei più caratteristici dolori acuti anche se, qualora non sia adeguatamente trattato, può assumere caratteristiche di dolore cronico; è generalmente prevedibile, di intensità moderata-forte e di breve durata.

E’variabile da soggetto a soggetto e nello stesso individuo nel tempo; questa variabilità non è solo funzione della patologia a monte, della sede e del tipo di intervento chirurgico, ma anche funzione di fattori psicologici, culturali, religiosi, socioeconomici, razziali. E’ fortemente dipendente dalla storia del paziente, da esperienze passate in fatto di dolore e dalla conseguente aspettativa di provare un dolore simile, al termine dell’imminente operazione.

Il DPO comporta una serie di sgradevoli esperienze sensorie, mentali ed emozionali associate a risposte autonomiche, psicologiche e comportamentali: tutte questi fattori sono tali da rendere teoricamente quasi obbligatoria le terapia del dolore, sia per ovvi motivi etici, sia perché è ormai appurato che il dolore ha effetti negativi sulla

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guarigione del paziente. Inibendo gli impulsi nocicettivi indotti dal trauma, riducendo le risposte riflesse autonomiche e somatiche dovute al dolore, è possibile velocizzare il recupero di salute del paziente -permettendogli di respirare, tossire e muoversi senza soffrire- e ridurre l’incidenza di complicanze respiratorie, cardiovascolari e tromboemboliche.

Venendo meno il ruolo protettivo del dolore acuto “fisiologico”(che permettere all’individuo di allontanarsi dalla fonte del danno e favorire con l’immobilità il recupero della salute), le complesse risposte umorali determinate dal DPO (che è quindi un dolore “patologico”) quando divengono eccessive e prolungate determinano alterazioni organiche presso il SNC e SNP, alterazioni psicologiche e comportamentali –ansia,insonnia, depressione..- che coinvolgono il paziente a lungo dopo l’intervento.

Riassumendo, l’incidenza e l’intensità del DPO dipendono da più fattori che si possono indicativamente suddividere in tre variabili principali: il paziente stesso, il tipo di chirurgia, il tipo di trattamento anestesiologico - antalgico utilizzato. [2]

Per quanto riguarda il paziente stesso, diversi studi hanno permesso l’individuazione di alcuni fattori psicologici in grado di influenzare il recupero postoperatorio, tra cui lo stato emozionale precedente, il

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locus of control, la paura della disabilità postoperatoria e la personalità ansiosa.

Il periodo preoperatorio è spesso caratterizzato dal susseguirsi di esami clinici e strumentali di preparazione all’intervento, che possono di per sé aumentare il tratto ansioso.

Quest’ultimo è amplificato dal sopraggiungere di una preoccupazione di tipo affettivo riguardo i propri familiari, di tipo lavorativo, economico e progettuale; le paure principali sono legate all’esito dell’intervento, agli effetti dell’anestesia e alla possibilità di morire. Nonostante ci sia fiducia nell’équipe medica, la probabilità di insuccesso o di complicanze turba in modo quasi ossessivo il paziente. Le aspettative del soggetto giocano un ruolo fondamentale nel rapporto ansia-dolore. Esse possono essere ricondotte essenzialmente a ciò che il paziente si aspetta dall’intervento in relazione alla psicologia di partenza; sono influenzate anche dall’informazione, dal rapporto col medico, dal grado di ottimismo e dal supporto familiare.[3]

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2.2 Locus of control: il controllo dell’ansia

Molto rilevante è la capacità individuale di controllo dell’ansia: esiste infatti un controllo psicologico di tipo attivo che permette un miglior recupero psicofisico dopo l’intervento.

Questo è espresso nel concetto del “locus of control”.

Ciascun individuo, sulla base dell’esperienza personale, struttura in modo stabile un sistema di attese. Tale sistema si distingue in due categorie: a controllo interno e a controllo esterno.

I soggetti con un controllo interno si giovano di informazioni specifiche e preferiscono essere responsabilizzati in modo da esercitare un’influenza diretta sull’esito dell’operazione; i soggetti con un controllo esterno preferiscono informazioni generiche e tendono a percepire gli eventi come dovuti a fattori scarsamente controllabili dalla volontà della persona, quali il fato o la fortuna. [4]

Alcuni autori hanno valutato l’importanza del colloquio preoperatorio ai fini di una riduzione dell’ansia: l’analisi dei risultati ottenuti ha evidenziato una netta riduzione dell’ansia di stato, durante la degenza in ospedale, nei pazienti adeguatamente informati mediante un colloquio preoperatorio.

Quest’ultimo sembrerebbe ridurre il disagio del paziente prima dell’intervento, consentirebbe un decorso postoperatorio più sereno e

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porrebbe il presupposto per una migliore ripresa della vita relazionale. Esso, inoltre, influenzerebbe positivamente il ricordo dell’intervento, le aspettative e l’ansia a questo connessi.

Certamente i pazienti a controllo interno traggono maggior beneficio da questi colloqui rispetto a coloro che hanno un controllo di tipo esterno.

Per quanto riguarda l’ansia dei pazienti che dovranno sottoporsi ad un intervento chirurgico, si tratta in particolare di ansia anticipatoria, cioè in assenza di concreta esposizione a un pericolo immediato; essa rende più sensibile il soggetto agli stimoli sul proprio corpo e attiva specifici patterns biologici di risposte negative a eventi stressanti. Dai dati della letteratura emerge che l’ansia di tratto (cioè una caratteristica duratura della persona, che prevede una costante valutazione esagerata degli stimoli esterni, tale da generare un vero stato patologico) da sola non ha alcun effetto diretto sul dolore postoperatorio; al contrario l’ansia di stato (una condizione episodica e momentanea che si instaura in presenza di un evento stressante) presente immediatamente prima dell’intervento chirurgico, prelude all’insorgenza di un dolore postoperatorio immediato, 1-2 ore dopo l’intervento, a sua volta precursore diretto della sintomatologia dolorosa tardiva.

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Una conferma dell’influenza dell’ansia di stato nella gestione perioperatoria è data dalla necessità di maggiori dosi di anestetico per l’induzione e il mantenimento dell’anestesia nei soggetti più ansiosi.[3],[29]

2.3 Ipotesi sulla base genetica della variabilità nella percezione del dolore

La variabilità interindividuale nella percezione del dolore e nella sensibilità alla terapia antidolorifica (a cui segue la scarsa possibilità di prevedere l’efficacia e gli effetti collaterali degli oppioidi) sono conosciute da tempo e molti ricercatori tentano di scoprirne le basi genetiche.

A questo scopo il recettore per gli oppioidi µ è stato il target di vari studi, essendo il principale sito d’azione di peptidi oppioidi endogeni come le β-endorfine e le encefaline, e degli analgesici oppioidi.

Ad oggi sono stati individuati vari polimorfismi di singoli nucleotidi del gene che codifica per il recettore µ umano e la mutazione più frequente, che comporta una modifica nella struttura del recettore, consiste nella sostituzione dell’adenina dell’esone 1 in guanina: ciò risulta in uno scambio di aminoacidi in posizione 40, da asparagina ad aspartato.[30]

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Chou e colleghi [31] hanno studiato gli effetti del polimorfismo A118G del recettore µ umano sul consumo di morfina nella terapia del dolore acuto postoperatorio, trovando che i pazienti portatori dell’ allele mutato G118 avevano richiesto una maggior quantità di farmaco (comunque meno del 20%) per alleviare il dolore nelle prime 24 ore postoperatorie, rispetto ai pazienti con allele A118. Tuttavia la differenza non è risultata significativa per il secondo giorno postoperatorio; in più, nessun altra ricerca in merito è riuscita a confermare questo fatto ma anzi, sono emersi risultati contrastanti. Il contributo di questi studi è comunque molto importante perché aprono la strada ad ulteriori indagini in questo senso, con la speranza che in futuro saremo in grado di adattare la terapia analgesica con oppioidi su ciascun paziente, in base alla sua struttura genomica.[30]

2.4 Valutazione e misurazione del dolore postoperatorio

Il dolore è uno dei parametri vitali e come tale deve essere considerato, al pari di frequenza cardiaca, pressione arteriosa, temperatura e diuresi; deve perciò essere periodicamente misurato e trascritto in diaria.

L’intensità del dolore deve essere valutata dal personale di reparto almeno tre volte al giorno, ma il periodo postoperatorio può avere la

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necessità di valutazioni più ravvicinate nel tempo per ottimizzare la terapia dei ricoverati.

E’ consigliato utilizzare scale specifiche, semplici e unidimensionali: scala numerica, scala verbale e scala analogica visiva (VAS).

L’ultima di queste è la più utilizzata; è costituita da una linea non graduata di 10 cm, ad un’estremità della quale c’è “nessun dolore” e all’altra “il peggior dolore possibile”. Il paziente indica sulla linea il punto corrispondente all’intensità del dolore che prova e l’operatore provvederà a tradurre in termini numerici la scelta indicata, servendosi di un righello.

La scala di valutazione del dolore va comunque scelta in base alle preferenze del paziente, alla sua età, alle sue formazioni cognitive e alla modalità di comunicazione. Una volta scelto, lo strumento di misura va utilizzato per le misurazioni successive.[5], [6]

Obiettivo della terapia antalgica postoperatoria è mantenere costantemente un valore VAS o analogo sottosoglia. Si considera come target ottimale il mantenimento almeno entro il limite di VAS 3-4 a riposo, misura oltre il quale è necessario assicurare un’ulteriore terapia: ad esempio, somministrando una “rescue therapy”.[6]

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2.5 Il progetto “Ospedale senza dolore”

Sempre più si sta diffondendo una nuova idea di Ospedale, come un luogo in cui le tecnologie più avanzate si accompagnano ad una umanizzazione delle cure e ad una maggiore attenzione alla qualità della degenza e alle relazioni con il paziente.

In questa nuova concezione si inserisce il progetto “Ospedale senza dolore”.

Il promotore di questo fu l’anestesista italo- americano John Bonica che negli anni ’50 fondò una clinica dove veniva praticata in modo sistematico la terapia del dolore nelle forme sia acute che croniche, costituendo un passo avanti nel campo assistenziale, sia dal punto di vista etico che scientifico. In seguito questa nuova forma di assistenza al malato subì vari cambiamenti, fino ad arrivare all’odierno “Ospedale senza dolore”, nato in Canada nel 1992 allo scopo di modificare le attitudini e il comportamento dei sanitari e dei malati, sostenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia solo alla fine degli anni ’90 venne introdotto questo progetto, inserito nel più vasto programma HPH -Health Promoting Hospital (Ospedale per la Promozione della Salute) e nel 2001 sono state presentate le Linee Guida che comprendono gli interventi, le tempistiche e le modalità necessarie per controllare il dolore e le sofferenze evitabili.

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La finalità specifica di queste Linee Guida è quella di aumentare l’attenzione del personale affinché vengano messe in atto tutte le misure possibili per contrastare il dolore, indipendentemente dalla tipologia, dalle cause che lo originano e dal contesto di cura; questo anche perché diminuire il dolore fisico consente alla persona di trovare quelle energie utili ad affrontare la malattia.

Per raggiungere questi obiettivi, a livello pratico è stato costituito in ogni reparto chirurgico degli ospedali che aderiscono al progetto, un APS –Acute Pain Service (Servizio per il Dolore Acuto).

Consiste in un team formato da anestesisti, infermieri e talvolta fisioterapisti che collaborano e seguono i pazienti nella loro terapia del dolore. I loro compiti sono:

• assicurare assistenza ai pazienti 24 ore su 24

• una regolare valutazione del dolore a riposo e al movimento, utilizzando le apposite scale e annotando sulla cartella clinica il pain score, al pari degli altri segni vitali

• personalizzare le modalità di terapia del dolore in base alle caratteristiche cliniche e psicologiche del paziente, tenendo conto delle apposite Linee Guida

• un regolare controllo delle strumentazioni della PCA e.v e della PCEA, per scongiurare qualsiasi malfunzionamento

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• attiva cooperazione con i chirurghi e gli infermieri del reparto in cui è ricoverato ciascun paziente

• educazione dei pazienti riguardo il monitoraggio del dolore e opzioni, obiettivi, benefici ed effetti collaterali dei trattamenti.

Nonostante le iniziative, anche legislative (come la facilitazione per la prescrizione degli analgesici oppiacei), ancora oggi si registra un’enorme differenza nel consumo di morfina tra l’Italia e altri paesi europei o il Nord America; è comunque incoraggiante il cambiamento che si avverte nel nostro paese.

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3. PRINCIPI BASE DELLA PCA

Ci sono sostanziali differenze nelle richieste di farmaco da persona a persona, e questo è direttamente correlato alla dose oraria di oppioide e alla concentrazione plasmatica del farmaco stesso.

Ci sono due importanti punti da considerare nell’analgesia da oppioidi:

-individuare il minimo dosaggio di farmaco che consente di ottenere sollievo dal dolore (MEAC, minimum effective analgesic concentration); la MEAC va quantificata appositamente su ciascun paziente.

-mantenere costante la concentrazione plasmatica di farmaco, evitando picchi massimi e minimi.

Queste condizioni possono essere raggiunte con la PCA endovenosa grazie a cui il paziente, premendo il pulsante nel momento in cui inizia a sentire nuovamente dolore, mantiene la concentrazione plasmatica di oppioide costantemente alla sua MEAC, o poco al di sotto.

Con le iniezioni i.m., invece, il soggetto ha una situazione di benessere altalenante: brevi periodi di analgesia efficace, in cui il farmaco rientra nel range della concentrazione ottimale, seguiti da episodi di dolore severo quando siamo al di sotto della MEAC. Spesso

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gli episodi di dolore sono più duraturi anche perché per la successiva iniezione di farmaco il paziente deve chiamare un infermiere e attendere il suo arrivo. Durante i picchi di massimo del farmaco, quando questo arriva nel circolo ematico dopo l’iniezione e la sua concentrazione è maggiore della MEAC, si possono presentare effetti collaterali come sedazione eccessiva, depressione respiratoria o comunque uno scarso sollievo dal dolore.

Nel caso dell’infusione endovenosa continua di oppiaceo, ci troveremo per un breve periodo nell’ambito della finestra terapeutica, ma poi, mantenendo la solita velocità di infusione, la concentrazione ematica del farmaco sarà maggiore della MEAC per il suo accumulo in siti come il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo, da cui verrà rilasciato lentamente e costantemente.(vedi figura sotto)

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La PCA può essere impostata con varie modalità di funzionamento, ma sono due quelle usate più frequentemente.

In una, quando il paziente sente dolore può schiacciare un pulsante e la pompa infonderà una dose di farmaco, precedentemente stabilita dal medico; nell’ altra, si può programmare un’infusione continua di base con in più le dosi auto-somministrate al bisogno.

Qualunque sia la modalità, ci sono alcune variabili importanti da programmare appositamente per ogni paziente: la dose carico iniziale, il bolo su richiesta, l’intervallo lock-out, il limite di farmaco in 4 ore ed eventualmente la velocità dell’infusione continua di base. [7]

• La dose carico iniziale viene somministrata automaticamente al paziente quando egli è nella Recovery Room, nel momento in cui la pompa viene messa in funzione per la prima volta; se una sola dose non fosse sufficiente ad alleviare il dolore, il medico può decidere di somministrare ulteriori dosi di farmaco. La dose carico consente di titolare il farmaco sul paziente stesso, il quale può uscire dalla RR per essere trasferito in reparto solo quando ha dolore con punteggio VAS minore o uguale a 3.

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• Il bolo è invece la quantità di farmaco infuso ogni volta che il paziente pigia il pulsante della pompa, al bisogno, La quantità di un bolo influenza l’efficacia della PCA: la dose ottimale procura un buon sollievo dal dolore con i minimi effetti collaterali. Inoltre dovrebbe produrre un’analgesia apprezzabile con una singola pressione del pulsante: quindi la dose non deve essere troppo bassa. Tuttavia, se la dose è troppo alta, la concentrazione plasmatica di farmaco dopo l’infusione potrebbe raggiungere livelli tossici. Per ciascun oppioide esiste un range ottimale di dosaggio per il bolo, sebbene questo range sia abbastanza ampio da tenere conto della variabilità farmacodinamica tra gli individui.

• Il lock out è il lasso di tempo che inizia subito dopo l’infusione di un bolo, in cui lo strumento non rilascia nessun altra dose neanche schiacciando il pulsante di richiesta; serve a scongiurare un sovradosaggio di morfina nel caso in cui il pulsante venga premuto troppo spesso. La sua durata dovrebbe permettere al paziente di beneficiare del massimo effetto analgesico di un bolo, prima che sia permessa l’infusione successiva. Se il lock out è troppo lungo, potrebbe risentirne negativamente l’efficacia della PCA; se invece viene impostato un intervallo troppo breve, in alcuni pazienti potrebbero insorgere effetti collaterali.

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• Il limite (in 1 o 4 ore) stabilisce la quantità massima di farmaco che può essere infusa in tale lasso di tempo; la quantità di farmaco che viene impostata è sicuramente minore della dose cumulativa (in 1 o 4 ore) che il paziente riceverebbe premendo il bottone alla fine di ogni lock out, se il limite non fosse presente. L’uso di questo parametro è controverso; alcuni sostengono che fornisca un’ulteriore sicurezza per il paziente, altri invece si rifanno a studi che comunque non sono riusciti a dimostrarne la reale utilità. Infatti non è possibile determinare con precisione il quantitativo di oppioide di cui il paziente avrà bisogno per alleviare il dolore, tantomeno la quantità di farmaco che in quel soggetto determinerà la comparsa di effetti collaterali; questi, infine, potrebbero comparire con quantitativi di farmaco minori rispetto a quelli previsti dal limite.[7], [8]

• L’infusione continua viene impostata in aggiunta all’opzione dei boli su richiesta, con l’obiettivo di aumentare l’analgesia e permettere al paziente di dormire meglio, senza essere svegliato dal dolore. L’inconveniente è che l’oppioide continua ad essere infuso senza tenere conto del livello di sedazione. Molti studi hanno comparato la PCA con e senza l’infusione di

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base e nessuno di questi ha dimostrato che nel primo caso ci sia stato un reale miglioramento del controllo del dolore e della qualità del sonno del paziente; non hanno evidenziato differenze nel numero di richieste di boli, mentre si è riscontrata un’aumentata incidenza di effetti collaterali, inclusa la depressione respiratoria. In più, potrebbero aggiungersi i rischi derivanti dagli errori nella programmazione dell’infusione stessa. Negli adulti è perciò generalmente sconsigliata l’impostazione dell’infusione continua; le eccezioni sono i pazienti tolleranti agli oppioidi e quelli che invece non ne hanno mai fatto uso (detti “naive”), ma che hanno un elevato numero di richieste ad esempio perché presentano un dolore particolarmente severo. Anche nei bambini l’infusione continua può migliorare il riposo notturno, ma li espone ad un significativo rischio di ipossiemia.[8]

Vari studi sottolineano che il rapporto tra la quantità del bolo e la durata del lock out è molto importante; in particolare, è emerso che un bolo minore con un lock out più breve, è più efficace nell’alleviare il dolore rispetto a una dose maggiore di farmaco ma con un intervallo lock out più lungo.[7]

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4. FARMACI OPPIOIDI EROGATI ATTRAVERSO LA

METODICA DELLA PCA E.V.

Molti oppioidi sono stati utilizzati con successo per la PCA, sebbene la morfina sia la più studiata e la più diffusa nella pratica.

Qualunque sia la sostanza, è fondamentale la conoscenza della suo comportamento farmacologico per una giusta programmazione della pompa.[11]

Sono state identificate tre classi maggiori di recettori per gli oppioidi (µ, δ, κ) e la classificazione di questi farmaci si basa sull’ interazione con ciascuno di questi recettori.

• Gli Agonisti Puri hanno il ruolo principale nel controllo del dolore acuto sia perché provvedono ad un legame totale ed esclusivo ai recettori µ, sia perché non hanno una “soglia analgesica”, cioè ad una dose maggiore di oppioide corrisponde un maggior sollievo dal dolore. Tuttavia esiste una “soglia clinica” oltre la quale l’insorgere di effetti collaterali, come sedazione e depressione respiratoria, impedisce l’aumento della dose. A parità di dose, gli agonisti-µ hanno tutti una potenza e un’induzione di effetti collaterali simili, sebbene possano esistere differenze individuali nell’insorgenza di nausea o prurito con un farmaco piuttosto che

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con un altro. Tutti riducono la motilità intestinale, contribuendo all’ileo paralitico postoperatorio.

• Gli Agonisti-Antagonisti sono provvisti di alta affinità di legame, ma bassa attività intrinseca, per il recettore µ; funzionano invece da antagonisti dei recettori δ e κ. Si dice abbiano un effetto soglia nei confronti della depressione respiratoria, offrendo un ampio margine di sicurezza, ma in realtà questo effetto compare solo a dosi molto più elevate rispetto a quelle dei µ-agonisti. Hanno anche una “soglia analgesica”, motivo per cui sono molto meno usati rispetto ai µ-agonisti.

• Infine, gli Agonisti Parziali producono una risposta,appunto, parziale in seguito al legame con i recettori µ e l’analgesia che inducono non è elevata. Non sono comunemente usati per la PCA.

Gli analgesici oppioidi attualmente disponibili per la PCA e.v. sono agonisti puri, tra cui abbiamo:

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• La morfina: è il prototipo degli agonisti oppioidi ed il gold-standard nella terapia del dolore con la PCA. Essa è metabolizzata principalmente tramite glucuronazione epatica, producendo sia morfina-3-glucuronide, ad attività neuroeccitatoria, sia morfina-6-glucuronide, con proprietà analgesiche superiori a quelle della morfina stessa. Questi due metaboliti attivi vengono eliminati principalmente per via renale, per cui nei pazienti con insufficienza renale o per accumulo dopo somministrazione di dosi eccessive di morfina, possono insorgere inaspettati effetti collaterali: eccitazione del SNC (convulsioni) indotta da M3G o aumentata e/o prolungata azione oppioide, con depressione respiratoria, prodotta da M6G. Per questo molti autori raccomandano di non usare morfina per la PCA e.v. nei pazienti con valori di creatinina sierica >2 mg/dl.

• L’ idromorfone è una valida alternativa per i pazienti intolleranti alla morfina o con insufficienza renale, perché è metabolizzato soprattutto nel fegato tramite glucuronazione e produce metaboliti inattivi. E’circa sei volte più potente della morfina. E’ adatto anche per i pazienti tolleranti agli oppioidi proprio per questa sua elevata potenza.[32]

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• Il fentanil ha una potenza 80-100 volte superiore alla morfina, agisce rapidamente ma ha una breve durata d’azione. Non sembra essere un farmaco migliore della morfina, la quale oltretutto è meno costosa, motivo per cui la morfina è più utilizzata per la PCA e.v.[12] Anche questo oppioide è una valida alternativa per i pazienti con insufficienza renale perché non viene eliminato per questa via.

• Il remifentanil viene metabolizzato molto rapidamente dalle colinesterasi ematiche e tessutali, rendendo la sua emivita farmacocinetica e farmacodinamica estremamente breve; per questo viene usato solamente per brevi periodi, durante episodi di dolore severo, come durante il travaglio di parto.

• La meperidina è un oppioide molto conosciuto, ma generalmente non usato nella PCA : difatti il suo metabolita, la normeperidina, è neurotossico, non ha proprietà analgesiche ed è eliminato principalmente per via renale. L’accumulo di normeperidina ha effetti neuro eccitatori (ansia,tremori,convulsioni) e per questo la dose raccomandata sarebbe al massimo di 10 mg/kg al giorno, per un massimo di tre giorni: una dose relativamente bassa. Ma di fronte all’estrema variabilità individuale della farmacodinamica

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degli oppioidi, un paziente potrebbe aver bisogno di una dose maggiore per avere sollievo dal dolore. La meperidina, quindi, provoca intensi effetti collaterali in alcune persone mentre in altre non offre alcun vantaggio rispetto agli altri oppioidi. E’ controindicata in chi ha disfunzioni renali o assume farmaci IMAO, perché la loro interazione può provocare una Sindrome da Iperpiressia Maligna. Per tutti questi motivi, è utilizzata solo nei pazienti con dimostrata intolleranza agli altri oppioidi, sotto stretto controllo. Ha potenza pari a un decimo di quella della morfina.

• Infine, il tramadolo che in alcuni paesi europei è largamente utilizzato nella PCA e.v. Il suo meccanismo d’azione è principalmente dovuto ad un aumento della neurotrasmissione serotoninergica a livello del sistema nervoso centrale, in minor misura ha un’azione inibitoria sulla ricaptazione della noradrenalina e anche un’attività agonista presso i recettori µ. Il suo metabolita ha un’affinità maggiore per i recettori degli oppioidi e si pensa che contribuisca all’effetto analgesico del farmaco, che comunque è inferiore a quello della morfina. La sua tossicità è associata ad attacchi convulsivi, nausea e vertigini, ma questi ultimi due sintomi generalmente si attenuano dopo parecchi giorni di terapia; sorprendentemente, non sono stati riportati finora

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effetti clinicamente rilevanti sul sistema respiratorio o su quello cardiovascolare.[11], [13]

Tabella per la programmazione della PCA e.v. in pazienti “naive” Oppioide Bolo Lockout

(min) Infusione continua di base * Morfina 1-2 mg 6-10 0-2 mg/h Idromorfone [32] 0,2-0,4 mg 6-10 0-0,4 mg/h Fentanil 20-50 µg 5-10 0-60 µg/h Meperidina # 10-20 mg 6-10 0-20 mg/h Tramadolo 10-20 mg 6-10 0-20 mg/h

* L’infusione continua non è consigliata nella programmazione iniziale della PCA.

# La meperidina dovrebbe essere usata solamente nel caso di pazienti intolleranti agli altri oppioidi.

Nota: per quanto riguarda le concentrazioni dei farmaci, è consigliato di utilizzare quelle standard per ridurre i rischi di errore nella preparazione delle miscele di farmaci.[15]

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5. LA PCA E.V. NELLA PRATICA CLINICA

5.1 Dose carico e suoi adattamenti in caso di analgesia inadeguata

Nella pratica clinica gli oppioidi devono essere utilizzati con gradualità (titolazione) per evitarne la tossicità, gli effetti collaterali e per raggiungere un soddisfacente controllo del dolore, che in termini pratici si traduce con un pain score minore o uguale a 3.[6], [14]

Appena viene azionata la pompa PCA nella sala operatoria, questa infonde automaticamente una dose carico di oppioide al paziente; in seguito egli verrà trasferito nella Recovery Room per il monitoraggio dei suoi parametri vitali e in base al grado di dolore che il paziente denuncia, i medici potranno decidere se somministrargli ulteriori dosi carico di farmaco.

Dal momento in cui il paziente rientrerà in corsia potrà iniziare l’autosomministrazione di boli di farmaco.

Per quanto riguarda la morfina, nell’adulto generalmente la terapia viene iniziata con dosi carico da 2 mg; con boli su richiesta da 1 mg; con un lock out di 6-8 minuti; non viene impostata l’infusione continua di base, a meno che il paziente sia tollerante agli oppioidi, che abbia un intenso dolore notturno o che abbia necessità di un trattamento prolungato.

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I dosaggi fin qui descritti devono essere ridotti del 30% nei pazienti di età > di 70 anni, mentre nei bambini il fabbisogno è calcolato in funzione del peso corporeo.[15]

Dopo aver impostato la terapia seguendo queste indicazioni, il paziente potrebbe continuare ad avere dolore o potrebbero comparire effetti collaterali. Allora è importante fare attenzione ad alcuni inconvenienti: controllare se il paziente sta utilizzando la pompa nel modo corretto, se pigia il pulsante ogni volta che il dolore si ripresenta, se il pulsante è funzionante o se il tubicino in cui scorre il farmaco non sia ostruito o piegato.

Solo dopo aver accertato che tutto funzioni nel modo giusto, che il paziente stia realmente ricevendo almeno due o tre dosi di farmaco all’ora e che non sia eccessivamente sedato, è bene ricorrere a un aumento del dosaggio del bolo di oppioide e/o una riduzione del lock out; se entro quattro ore il controllo del dolore rimane inadeguato, come ultima modifica della terapia rimane l’aggiunta di un’infusione continua di oppioide. Durante il ricovero del paziente, bisognerà titolare via via anche il dosaggio dell’infusione continua e la sua velocità, in corrispondenza con il miglioramento delle condizioni cliniche e della minor necessità di analgesia; una regola generale di

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riferimento è che l’infusione continua non dovrebbe superare il 50% delle necessità totali di oppioide.[9]

I dati che si riferiscono al numero di richieste totali fatte dal paziente e al numero di quelle a cui non è seguita l’infusione di farmaco, sono molto utili nell’orientare il cambiamento del dosaggio dei boli. E’ importante considerare che ci possono essere svariati motivi per cui un soggetto preme il pulsante molto spesso, anche più di quanto lo richiederebbe il dolore in sé: ansia, confusione o uso inappropriato della pompa.

Anche il numero dei boli orari infusi con successo è un dato importante: se il paziente lamenta un controllo insufficiente del dolore, pur infondendosi tre o più boli all’ora, dovrebbe essere presa in considerazione l’eventualità di aumentare la quantità di farmaco in ciascun bolo.[8]

Tutte queste indicazioni non sono da applicare a pazienti tolleranti agli oppioidi, per abuso o per trattamento cronico, ad esempio per dolore neoplastico: questi dovrebbero sempre ricevere un’infusione continua di base, un bolo a dosaggio maggiore di oppioide e un lock out leggermente più lungo che permetta di beneficiare dell’effetto analgesico del bolo prima che possa essere infusa un’ulteriore dose.

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Altro caso a parte sono l’insufficienza renale o epatica o qualunque situazione che alteri il metabolismo dei farmaci, in cui le dosi sopracitate devono essere ridotte.[9]

5.2 Effetti indesiderati di morfina e analoghi

Gli effetti collaterali più comuni della PCA e.v. sono nausea, vomito, prurito, sedazione e confusione; talvolta si ha depressione respiratoria.

• Nausea e vomito (PONV): sono indotti dall’attivazione della zona chemiorecettoriale scatenante del tronco cerebrale. Sono stati individuati dei fattori che sono più frequentemente associati all’insorgenza di nausea e vomito: sesso femminile, storia di cinetosi, non fumatore, alcune procedure chirurgiche, tipo di farmaco usato per l’anestesia, dolore, ansietà e disidratazione. Per contrastare questi fastidiosi effetti possono essere somministrati antiemetici al bisogno o direttamente nell’infusione assieme all’oppioide, in via preventiva: sono utilizzati antagonisti della serotonina, antagonisti della dopamina o corticosteroidi.

• Prurito intorno al naso, orticaria: non ci sono studi clinici che abbiano valutato l’efficacia dei farmaci antipruriginosi usati nella pratica clinica. Inoltre questi farmaci non aboliscono

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completamente il prurito e possono essere lievemente sedativi. L’orticaria insorge più frequentemente in seguito a somministrazione parenterale dell’oppioide.

• Sedazione e confusione: l’entità di questi effetti collaterali varia in base al tipo di farmaco usato e in base alla risposta individuale del paziente. Talora può manifestarsi una lieve amnesia. L’associazione degli oppioidi con altri farmaci deprimenti centrali, come i sedativo ipnotici, può causare profonda depressione. Coloro che presentano deficit di funzionalità renale presentano spesso sedazione a causa dell’accumulo di metaboliti attivi della morfina; il fentanil invece ha una minor azione sedativa in quanto dal suo metabolismo non vengono prodotti questi metaboliti. Uno stato di confusione nel periodo post operatorio è evenienza piuttosto comune, soprattutto nei pazienti anziani, e spesso non ha una chiara eziologia; in generale il paziente può essere facilmente risvegliato. Sebbene l’uso della PCA e.v. possa contribuire alla sua insorgenza, devono comunque essere indagate altre potenziali eziologie; ad esempio, anche un trattamento inadeguato di un dolore severo può portare a confusione e delirio negli anziani.

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Depressione respiratoria: tutti gli analgesici stupefacenti possono possono indurre l’inibizione del centro respiratorio a livello del tronco cerebrale. La PCO2 alveolare può aumentare, ma il significativo aspetto di tale depressione è rappresentato da una ridotta sensibilità all’anidride carbonica. La depressione respiratoria è dose-dipendente ed è significativamente influenzata dall’intensità di altre afferente sensoriali presenti nello stesso periodo di tempo. E’ possibile, ad esempio, con opportune stimolazioni, antagonizzarla parzialmente. Quando gli intensi stimoli dolorosi che hanno prevenuto l’effetto deprimente di una dose elevata di un oppioide si riducono, la depressione respiratoria può improvvisamente diventare marcata. Una lieve o moderata riduzione della funzione respiratoria, valutata attraverso l’aumento della PCO2 , può essere ben tollerata nel paziente senza precedenti disturbi respiratori. Tale depressione può non essere tollerata in soggetti affetti da ipertensione endocranica, asma, malattie polmonari croniche di tipo ostruttivo o da cuore polmonare.

Disforia ed euforia: di solito, pazienti o tossicomani che hanno assunto morfina per via endovenosa provano una piacevole sensazione di euforia, associata a riduzione di ansia e angoscia. Tuttavia, a volte può comparire uno stato disforico piuttosto che

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effetti piacevoli. La disforia è uno stato di inquietudine che si accompagna ad agitazione e ad una sensazione di malessere.

• Depressione della tosse: si ha tramite l’abolizione del riflesso tussigeno. E’ un effetto che è stato sfruttato con successo con la codeina, in soggetti affetti da tosse patologica e in pazienti in cui è necessario mantenere la ventilazione attraverso intubazione endotracheale. A parte questi due casi, l’effetto antitosse può causare problematiche per accumulo di secrezioni, ostruzione delle vie respiratorie ed atelettasia.

• Effetti sull’apparato gastrointestinale: benché gli effetti degli oppioidi sulla muscolatura liscia intestinale siano generalmente di tipo stimolante, può manifestarsi stipsi. Esiste una notevole variazione nella risposta dei vari segmenti del tratto G.I. ed in più gli effetti possono essere dovuti ad un’azione sia locale che centrale. La motilità dello stomaco può essere ridotta, ma il suo tono può essere aumentato, così come si verifica anche per l’intestino tenue. Nel crasso, le onde peristaltiche propulsive sono diminuite e il tono è aumentato: ciò ritarda il passaggio della massa fecale ed aumenta l’assorbimento di acqua con conseguente stipsi. Un ulteriore effetto è la costrizione dello sfintere di Oddi.

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• Effetti sull’apparato urinario: gli oppioidi deprimono la funzionalità renale, probabilmente per una riduzione del flusso plasmatici renale, diminuiscono la velocità di filtrazione glomerulare, aumentano il riassorbimento tubulare di sodio. Il tono ureterale e vescicale è aumentato da dosi terapeutiche di analgesici oppioidi e può provocare una ritenzione urinaria, specialmente nel postoperatorio.

• Vasodilatazione periferica: delle arterie e delle vene, probabilmente per liberazione di istamina e depressione del centro vasomotorio.

• Abitudine, dipendenza fisica e psichica: si manifestano clinicamente solo nelle assunzioni e/o terapie prolungate, almeno di 2-3 settimane.[13], [16]

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5.3 La terapia multimodale

E’ un approccio terapeutico che consiste nella combinazione di due o più farmaci con diverso meccanismo d’azione o l’impiego di terapia sistemica e regionale allo scopo di conseguire un efficace controllo del dolore postoperatorio, con possibilità di riduzione dei dosaggi e dell’incidenza di effetti collaterali dei farmaci utilizzati, in particolare degli oppioidi.

L’analgesia multimodale con somministrazione di FANS, inibitori della COX2 o paracetamolo in associazione a morfina, determina “opioid sparing effect” con riduzione, nelle prime 24 ore postoperatorie, del 40% del consumo di morfina se associati FANS, del 25% se associati inibitori della COX2, inferiore al 20% se associato paracetamolo.

Mentre l’associazione di FANS alla morfina in PCA riduce significativamente il pain score e , in misura minore, l’incidenza di PONV e la sedazione, l’associazione di paracetamolo alla morfina non riduce il rischio di effetti collaterali o eventi avversi da oppioidi.[17] L’impostazione di una terapia multimodale è di fondamentale importanza ed è oggi applicata in tutte le corsie dove si pratichi terapia del dolore.

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6. SICUREZZA DELLA PCA

La sicurezza della PCA e.v. è condizionata da vari aspetti.

Questa tecnica è dotata di un meccanismo intrinseco di controllo: nel caso in cui un paziente riceva un surplus di farmaco, la sedazione che ne deriverà come effetto collaterale impedirà il sopraggiungere di una vera e propria depressione respiratoria: difatti il paziente non sarà più fisicamente in grado di schiacciare il pulsante e quindi non riceverà più farmaco.

L’uso dell’ infusione continua di oppioide è da evitare il più possibile proprio perché elimina questo meccanismo di sicurezza, sottoponendo il paziente ad una somministrazione addizionale di farmaco, nonostante la progressiva riduzione della sua funzionalità respiratoria. Negli ultimi trent’anni la PCA e.v. ha guadagnato diffusi consensi ed oggi è considerata una tecnica più efficace e sicura rispetto alle iniezioni di oppioidi intramuscolari.

Resta comunque il fatto che la depressione respiratoria possa verificarsi e le preoccupazioni riguardo dosaggi eccessivi di farmaco, malfunzionamenti delle apparecchiature o altro sono assolutamente giustificate.

Fattori correlati al paziente, come età, caratteristiche psicologiche, malattie concomitanti, tolleranza agli oppioidi possono influenzare

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non solo l’efficacia, ma anche la sicurezza della PCA: in determinate situazioni il personale sanitario deve porre una maggior attenzione nei controlli. [33]

• Età: pazienti molto giovani o molto anziani potrebbero non essere in grado di usare correttamente la PCA, ma è bene sottolineare che sono stati riportati casi di bambini di quattro anni o di ultranovantenni che sono ricorsi con successo a questa tecnica. Requisito fondamentale è una normale funzione cognitiva, per cui i pazienti che sin da prima dell’intervento chirurgico o in seguito a questo presentano confusione (accade maggiormente agli anziani), non sono candidati per la PCA E’ noto che nell’adulto, con l’aumentare dell’età si riduce la quantità di oppioide necessaria per ottenere sollievo dal dolore: per questo negli anziani sono prescritti boli minori ed è anche controindicato l’uso dell’infusione continua, se si tratta di pazienti “naive”, ovvero che non presentano tolleranza agli oppioidi.

• Caratteri psicologici: il dolore è un’esperienza soggettiva che dipende da numerosi fattori, tra cui la personalità e lo stato d’animo del paziente. Il medico deve porre attenzione ad un eventuale stato di ansietà (condizione transitoria che può variare di

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intensità, associata ad un particolare evento avvertito come minaccioso per la propria persona), alla presenza di un vero e proprio tratto ansioso (una inclinazione personale, stabile nel tempo) o di nevrotismo. Lo stato o il tratto ansioso sembrano essere la principale caratteristica psicologica che inficia l’uso della PCA perchè maggiore è il livello di ansietà, maggiore è la percezione del dolore e anche la percentuale di richieste di farmaco che non vanno a buon fine (cioè fatte durante l’intervallo lock out, per cui senza infusione di farmaco). Quindi in tutti questi casi bisogna valutare bene quale sia la forma migliore di terapia del dolore.

• Disturbi concomitanti: ve ne sono molti da prendere in considerazione. Ad esempio, l’insufficienza renale, riducendo l’escrezione dei metaboliti della morfina, può condurre ad una depressone respiratoria; anche uno stato ipovolemico porta con sé questo rischio. Sono stati riportati in letteratura casi di difficoltà respiratoria anche in pazienti affetti da obesità patologica e/o da sindrome delle apnee notturne: questi pazienti, però, avevano una PCA impostata con infusione continua di base. E’importante riservare un monitoraggio più intensivo a coloro che sono affetti da questi disturbi e che debbano ricorrere alla PCA e.v.

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• Tolleranza agli oppioidi: i pazienti con un’anamnesi positiva per assunzione di oppiacei (prescritti legalmente oppure no) prima dell’ammissione in ospedale, potrebbero essere dipendenti da questi farmaci. Essi sviluppano una sindrome da astinenza se gli oppioidi vengono sospesi o antagonizzati e potrebbero mostrare segni di tolleranza sia agli effetti collaterali che a quelli analgesici. Alcuni ricercatori hanno comparato l’uso della PCA dopo un intervento chirurgico in pazienti tolleranti agli oppioidi e in quelli che invece non ne hanno mai fatto uso (“naive”): è emerso che il primo gruppo ha fatto una maggior richiesta di farmaco, ha avuto dolore più intenso, una minor incidenza di vomito e prurito e, sorprendentemente, una maggiore sedazione. Se la dose di oppioidi viene rapidamente aumentata a livelli significativamente più alti della dose abituale pre-operatoria, si può verificare una sedazione eccessiva in questi pazienti. Dato che la sedazione è considerata il miglior indicatore precoce della depressione respiratoria e dato che nei pazienti tolleranti agli oppioidi si superano di molto le dosi standard della PCA (volendo ottenere un buon controllo del dolore), sono necessari un attento monitoraggio ed eventuali correzioni del programma della pompa. L’infusione continua può essere utilizzata per somministrare l’equivalente della dose

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abituale di oppioide e in più bisogna aumentare il dosaggio del bolo. [33], [34]

7. EVENTI AVVERSI

In letteratura sono riportati alcuni casi che mettono in luce i potenziali rischi collegati alla terapia con la PCA e.v.

In primo luogo, la PCA potrebbe essere usata dal paziente per alleviare qualsiasi tipo di dolore, anche quello derivante da altre patologie non correlate all’intervento chirurgico; si sono verificati casi in cui una ritenzione urinaria, una sindrome compartimentale, un’embolia polmonare o un infarto acuto del miocardio sono stati pericolosamente mascherati.

Nel caso specifico della sindrome compartimentale c’è da dire che si sono accumulate una serie di mancanze da parte del personale sanitario, difatti i livelli di dolore e sedazione erano stati monitorati solamente per le prime 6 ore dall’ intervento chirurgico e mai per le successive 36 ore, finchè il paziente fu sottoposto ad una seconda operazione che svelò la sindrome compartimentale.

Questo caso sottolinea il fatto che la PCA può essere un modo perfetto per la terapia del dolore, a patto che il paziente venga

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costantemente monitorato per tutta la durata della terapia in modo da rilevare qualsiasi cambiamento inaspettato nell’uso di analgesico, o un cambiamento nella severità e tipo del dolore: queste evenienze infatti richiedono un attento approfondimento della situazione clinica del paziente perché potrebbero essere campanelli di allarme. [26]

L’evento avverso più temuto, sebbene non sia molto frequente, è la depressione respiratoria; la sua incidenza varia con la via e la modalità di somministrazione dell’ oppioide.

E’ stato calcolato che solo lo 0,25%- 0,4% dei pazienti con somministrazione peridurale di morfina abbia avuto necessità di naloxone per il sopraggiungere di problemi respiratori; per quanto riguarda la somministrazione intermittente per via intramuscolare i dati sono carenti, ma è stato stimato che l’incidenza si aggiri sullo 0,9%, contro lo 0,25% dei casi verificatisi con la PCA endovenosa senza infusione continua.[33] Il caso della PCA e.v. con infusione continua è a sé stante, sia perché ad oggi non è una modalità usata di frequente, sia perché ha un’incidenza di depressione respiratoria piuttosto alta, intorno a 1,65% che è comparabile a quella che si ha nell’infusione continua di morfina senza le richieste del paziente. E’ evidente quindi che la PCA e.v. senza infusione continua sia la più sicura in questo senso; sebbene i pazienti con questa metodica siano leggermente tendenti alla desaturazione, sono però meno tendenti a

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sviluppare una depressione respiratoria severa, anche grazie al meccanismo di sicurezza intrinseco di cui ho parlato prima.

I fattori di rischio per la depressione respiratoria nella PCA e.v. possono essere suddivisi in varie categorie:

• Correlati al paziente: età avanzata, malattie mentali, sindrome da apnee notturne, obesità, insufficienza respiratoria, concomitante uso di sedativi –specialmente benzodiazepine-, ipovolemia. Errori del paziente nell’uso della pompa, per scarsa comprensione del suo funzionamento o perché egli lascia che qualcun altro schiacci il pulsante al posto suo.

• Correlati agli operatori sanitari: errori nella programmazione della pompa –sono i più frequenti-, somministrazione accidentale di un bolo durante il cambio della siringa, prescrizione di una dose di oppioide inadeguata al paziente, lock out inadeguato, errata scelta dell’oppioide o in concentrazione inadeguata.

• Correlati alla pompa: deflusso del farmaco nella vena –perché la pompa è posta in posizione più alta rispetto al letto e non ha la valvola antireflusso o il vetro della siringa è rotto in qualche punto-

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o qualsiasi tipo di malfunzionamento che provochi un rilascio spontaneo di farmaco. [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40]

8. DAGLI EVENTI AVVERSI AL MIGLIORAMENTO

CONTINUO DELLA QUALITA’

Per ridurre gli errori umani che possono portare ad eventi avversi con l’uso della PCA, è possibile agire a livello dell’organizzazione del reparto e anche ricorrendo a innovative strumentazioni che supportino i medici nel monitoraggio dei pazienti.

A questo proposito, nell’ospedale di Stanford un team composto da farmacisti, infermieri, caposala e medici ha individuato quattro aree a cui apportare i dovuti cambiamenti:

• La prescrizione: in molti ospedali manca un protocollo di dosaggi standard per la programmazione della PCA e.v. e, inoltre, nei moduli che vengono compilati per lo scarico degli oppioidi manca un dato importante, l’età del paziente.

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• La compilazione: spesso le cartelle e i moduli sono illeggibili o vengono usate abbreviazioni ambigue, così che le prescrizioni possono essere interpretate male dagli infermieri.

• La somministrazione: le pompe PCA non sono sempre programmate correttamente.

• Il monitoraggio.

Le proposte sono di sviluppare protocolli con indicazioni precise sui dosaggi di oppioidi , che siano validi all’interno di tutto il reparto ma soprattutto all’interno di tutto l’ospedale; preparare moduli prestampati su cui siano presenti tutti i dati necessari. Organizzare doppi controlli, effettuati da due persone diverse e indipendentemente l’uno dall’altro, che supervisionino ogni cambiamento di sacca, di dosaggio o di modalità di terapia del dolore.

Il team ha proposto anche di aumentare i compiti degli infermieri col monitoraggio della frequenza respiratoria e della saturazione di ossigeno del paziente ogni due ore e permettendo loro di somministrare antagonisti degli oppioidi nell’eventualità che insorga una depressione respiratoria severa o sedazione; infine, se necessario, acquistare nuove pompe più semplici da utilizzare e programmare.

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Per quanto riguarda il monitoraggio del paziente, è stato proposta ed è tutt’oggi in studio una piccola sonda non invasiva da applicare al lobo di un orecchio, dotato di un elettrodo e di un sensore ottico.

Questo apparecchio, chiamato TOSCA, rileva la saturazione dell’ ossigeno e la pressione parziale di anidride carbonica nel sangue arterioso partendo da misurazioni transcutanee.

L’uso di oppiacei ha come effetto collaterale l’ipoventilazione, che porta ad ipossiemia, ipercapnia e acidosi respiratoria; l’incremento della pressione parziale di anidride carbonica nel sangue a sua volta può condurre ad aritmie, ipossiemia, depressione miocardica. Altri valori che potrebbero essere alterati a causa dell’uso di oppioidi sono la frequenza respiratoria, l’attività simpatica, la pressione intracranica; l’incremento di quest’ultimo valore si manifesta con mal di testa, confusione e addirittura può portare ad alterazioni dello stato di coscienza e coma.

Generalmente nelle corsie il monitoraggio è basato sulla misurazione della frequenza respiratoria e talvolta della saturazione dell’ossigeno con il pulsossimetro. Ma queste misurazioni in realtà non sono così attendibili nell’indicare un’ iniziale insufficienza respiratoria: la frequenza respiratoria può essere influenzata da svariati fattori e il valore diagnostico della saturazione di ossigeno è piuttosto limitato

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nel caso in cui al paziente venga somministrato ossigeno supplementare.

In più, al di fuori delle sale operatorie e delle corsie di terapia intensiva la concentrazione di anidride carbonica nel sangue arterioso non viene misurata di routine, invece questo sarebbe l’unico parametro direttamente correlato con la funzionalità respiratoria, come dimostrato dagli studi effettuati: è emerso che la PCA e.v. causa nei pazienti una considerevole e prolungata ipercapnia ma che questa è accompagnata da valori di frequenza respiratoria e saturazione di ossigeno nella norma.

In conclusione, i ricercatori che hanno condotto questo studio hanno fortemente raccomandato l’impiego di strumenti semplici e non invasivi come quello appena descritto, per il monitoraggio dei pazienti in terapia antalgica con oppioidi.

Numerose sono state le critiche nei confronti dell’abitudine diffusa di somministrare ossigeno come terapia della depressione respiratoria dovuta ad oppioidi: infatti questo non risolve la desaturazione, ma ritarda solamente la progressione da bradipnea ad una vera e propria apnea. L’aggiunta di un capnografo come strumento di valutazione in tutte le corsie e per tutti i pazienti (non solo quelli considerati ad alto rischio di effetti avversi da oppioidi), potrebbe anticipare la

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desaturazione del paziente, segnalando l’aumento dell’anidride carbonica. [37], [40]

9. IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE IN UN

PROGRAMMA

DI

IMPLEMENTAZIONE

DELL’ANALGESIA TRAMITE PCA

La percezione soggettiva del dolore è correlata agli stimoli ambientali e varia al variare di questi stessi stimoli. Le corsie dei reparti chirurgici sono luoghi fondamentali per la ripresa e la riabilitazione dei pazienti operati: infatti il dolore postoperatorio può ritardare la guarigione della ferita chirurgica, prolungando la degenza.

I pazienti sono temporaneamente in una condizione di vulnerabilità fisica e psicologica e perciò hanno bisogno del supporto non solo dei familiari e amici, ma anche del personale sanitario che li assisterà; gli infermieri e le infermiere hanno un ruolo privilegiato in questo, derivato dal fatto che hanno un maggior contatto con i pazienti.

Le parole da loro pronunciate, positive o negative, possono influenzare lo stato psicofisico dei pazienti, specialmente in coloro

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che sono più ansiosi e temono il dolore che seguirà il loro intervento chirurgico.

Tutto questo ha dei risvolti anche sul piano biologico: svariati stimoli stressogeni inducono l’attivazione dell’asse ipotalamo- ipofisi-corticale surrenale, a cui segue il rilascio nel torrente ematico di corticosteroidi. Gli interventi chirurgici e il dolore postoperatorio sono due tra i principali fattori che inducono il rilascio di cortisolo.

Lo stress psicologico, verbale e non, che può derivare dall’ambiente della corsia chirurgica ha sicuramente degli effetti sulla percezione del dolore.

Per questo è di grande importanza ridurre al minimo questi stress migliorando l’ambiente ospedaliero in cui il paziente trascorre la sua degenza.

Anche la PCA è un tipo di terapia antalgica la cui efficacia è influenzata dallo stato psicologico dei pazienti, proprio perché sono loro che controllano l’infusione del farmaco.

Queste sottili interdipendenze tra ambiente, linguaggio, comunicazione, percezione del dolore e condizioni cliniche dei pazienti, sono state esaminate da Wang e colleghi.[18]

In breve, lo studio consisteva nel suddividere i pazienti esaminati in quattro gruppi: con uno gli infermieri non hanno scambiato opinioni riguardo l’intervento chirurgico e la terapia del dolore con PCA e.v.,

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ad un altro sono state pronunciate parole positive al riguardo, negli altri due rispettivamente parole parzialmente e totalmente negative. Il tutto è stato scandito in vari tempi: il contatto tra infermieri e pazienti è avvenuto alla terza- sesta- dodicesima- diciottesima ora postoperatoria ed in alcuni gruppi tale contatto è stato rinforzato un’ulteriore volta alla terza e sesta ora. A tutti i pazienti sono stati valutati intensità del dolore, consumo di morfina, incidenza di effetti collaterali, sedazione, concentrazione del cortisolo plasmatico e grado di soddisfazione.

In conclusione è stato verificato che le parole negative pronunciate nelle prime ore dall’intervento chirurgico hanno influenzato in maniera importante la percezione del DPO e anche l’utilizzo della PCA e.v.; questa influenza è associata ad un’elevazione del cortisolo plasmatico ed un aumento del consumo di morfina.

Le parole positive e quelle negative pronunciate tardivamente, hanno influenzato poco la terapia del dolore, ma invece hanno avuto effetto sull’incidenza degli eventi avversi.

Questi stessi ricercatori hanno quindi consigliato di evitare qualsiasi tipo di influenza negativa proveniente dall’ambiente ospedaliero, maggiormente nelle prime ore dopo un intervento chirurgico.[18]

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9.1 Informazione preoperatoria

La PCA è stata introdotta per la prima volta nel 1971 ed è diventata uno dei più comuni metodi di cura del dolore postoperatorio.

Tuttavia, la PCA non è in grado di procurare ad ogni paziente un alto grado di analgesia, per cui non sempre la soddisfazione dei pazienti è completa: questo potrebbe derivare dal fatto che la PCA è tolta prematuramente oppure da una scarsa efficacia.

La partecipazione dei pazienti in prima persona alla loro cura potrebbe migliorare l’efficacia del trattamento: ad esempio, tramite la discussione con il personale sanitario, prima dell’intervento chirurgico, riguardo le tecniche di analgesia postoperatoria e una vera e propria educazione del paziente al loro utilizzo. Infatti l’ansia e la scarsa confidenza con l’apparecchiatura della PCA sono fattori che, se presenti, sono predittivi dell’intensità del dolore postoperatorio e quindi dovrebbero essere oggetto di attenzione da parte del personale sanitario.

In linea generale, un’educazione preoperatoria dovrebbe contribuire a ridurre lo stato ansioso del paziente, migliorare il decorso postoperatorio e ridurre i tempi di ricovero; nonostante ciò, l’informazione del paziente non è ben pianificata nell’iter del ricovero, piuttosto è lasciata al caso, tanto che la scarsa conoscenza

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dei pazienti riguardo alla loro terapia antalgica è ben documentata.[19]

Anche se rappresentano una minoranza, ci sono comunque ospedali che offrono un’informazione preoperatoria riguardo l’anestesia generale, la terapia antalgica postoperatoria ed eventuali esercizi riabilitativi; i metodi più comunemente adottati sono le brochure, brevi spiegazioni video e colloqui singoli o di gruppo.

Inoltre sono stati condotti vari studi per verificare il reale impatto di tale informazione sul decorso postoperatorio dei pazienti, ma i risultati sono vari e contrastanti.

Queste iniziative per alcuni pazienti sono state utili nell’accrescere la loro conoscenza sul dolore e in definitiva hanno contribuito al cambiamento in positivo dell’atteggiamento e dei preconcetti dei pazienti verso la terapia del dolore.[20] Alcune ricerche hanno dimostrato anche una riduzione dei livelli di dolore percepito (misurato con una delle varie scale: VAS, scala numerica, scala verbale..) e una maggior soddisfazione dei pazienti riguardo l’assistenza sanitaria.[21] Altre meta-analisi hanno dimostrato che i pazienti che hanno ricevuto un’informazione preoperatoria hanno avuto un ricovero minore in media di 1,5 giorni rispetto ai non informati e che hanno avuto livelli minori di ansia e paura.[22]

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Altri studi, invece, sono arrivati a conclusioni piuttosto diverse: gli opuscoli informativi non hanno avuto nessun effetto rilevante sull’intensità del dolore lamentato dai pazienti né sulle preoccupazioni riguardo gli effetti collaterali degli oppiacei [23] oppure non sono stati osservate significative riduzioni nelle quantità di analgesico richieste e nei pain score.[19]

9.2 L’outcome del paziente

Nella loro meta-analisi, Ballantyne e colleghi [24] hanno confrontato la soddisfazione riguardo al metodo di terapia del dolore ricevuto, in due gruppi di pazienti: uno con PCA e.v. e l’altro con iniezioni i.m. di morfina. Il risultato è stato che mediamente i pazienti erano molto più soddisfatti nel caso della PCA; invece da studi precedenti a questo, sono emersi risultati contrastanti.

La soddisfazione dei pazienti è un elemento molto importante per una struttura sanitaria perchè rappresenta un feed-back del proprio operato, tuttavia la valutazione del grado di soddisfazione è complessa e non è determinata solamente dalla bassa intensità del dolore postoperatorio. Ad esempio, gli effetti collaterali indotti o esacerbati dalla terapia antalgica possono essere così fastidiosi che il paziente

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tende a non fare uso della PCA, preferendo un dolore di intensità più elevata ma senza questi effetti.[25]

Gli aspetti positivi della terapia con la PCA e.v. che sono stati individuati con questa meta-analisi sono:

• dolore di bassa intensità o comunque minore rispetto alle aspettative del paziente

• possibilità di lenire il proprio dolore senza dover aspettare l’arrivo delle infermiere

• effetto analgesico ottenuto in breve tempo dopo aver premuto il pulsante

• la sensazione di avere un controllo sul proprio stato di salute

• scarsa ansia preoperatoria (nel caso in cui ci sia stata un’informazione adeguata)

• buon decorso postoperatorio, a livello fisico e psicologico • assenza di iniezioni e punture

• minor contatto con le infermiere (per i pazienti che percepiscono come fastidiosa la loro presenza)

Sono stati individuati anche aspetti negativi, alcuni dei quali potrebbero mettere in dubbio l’utilizzo della PCA e la sua reale efficacia:

Figura

Tabella per la programmazione della PCA e.v. in pazienti “naive”  Oppioide  Bolo  Lockout
Fig. 1 Brochure preoperatoria. (Esterno).
Fig. 3 Questionario di gradimento.
Tab. 1 Confronto per la variabile “richieste tot”

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