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La democrazia partecipativa tra luci ed ombre: la legge 69/2007 della Regione Toscana e il progetto di "sviluppo geotermico" sul monte Amiata

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La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Giorgio Gaber, La libertà, 1972

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3

Indice

Introduzione………...……….5

Capitolo 1

La nascita dell'ideale democratico...9

1.1

Primi passi della democrazia: le riflessioni di Jean-Jacques

Rousseau...13

1.2 Le valutazioni politiche del giovane Marx...17

1.3 Un passo indietro per l'individuo: l'elitismo di Joseph Schumpeter..23

Capitolo 2

Nuove forme di democrazia...35

2.1 Ciberdemocrazia ideale...39

2.1.1 Costruire la repubblica elettronica?...45

2.2 Il modello della democrazia deliberativa...48

2.2.1 Dalla teoria alla pratica...56

2.2.2 Citizens' Juries...61

2.2.3 Deliberative Polls...66

2.2.4 Democrazia deliberativa: non e’ tutto oro quello che luccica..69

2.3 Una possibile via di uscita: il paradigma della democrazia

partecipativa...71

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Capitolo 3

La legge regionale toscana sulla partecipazione e la "questione

geotermia"...85

3.1 La l.r. 69/2007: modello da seguire o occasione persa?...87

3.1.1 Il contesto di applicazione. La “subcultura rossa”...87

3.1.2 I Contenuti normativi...89

3.1.3 Partecipazione “mediata” e distorsione delle pratiche. Alcune

osservazioni...93

3.2 La geotermia in Toscana. Cronaca di un rapporto difficile...106

3.2.1 Il monte Amiata: non solo vapore...106

3.2.2 Sviluppi contemporanei. Un conflitto sempre più aspro...110

3.2.3 Una proposta per superare lo stallo...127

Riflessioni conclusive...132

Riferimenti bibliografici e sitografici...139

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5

Introduzione

Da alcuni anni a questa parte la complessa ragnatela dei rapporti tra mondo della politica e società civile è attraversata da profonde tensioni. Espressioni come “crisi della politica”, “antipolitica”, “collasso delle istituzioni”, sono all’ordine del giorno. Queste definizioni colorite non sono altro che differenti declinazioni di un’unica dinamica che, in particolare nel contesto italiano, sembra inarrestabile. A partire dal secondo dopoguerra le relazioni tra cittadini ed istituzioni sono state caratterizzate da profonda fiducia. I partiti politici, fortemente radicati sul territorio, riuscivano a svolgere in modo adeguato la loro funzione di strutture intermedie, riportando fedelmente nelle aule del Parlamento richieste e bisogni provenienti dalla base. Negli ultimi venti anni questo rapporto si è andato deteriorando. A partire dallo scandalo di “Mani Pulite” la popolazione ha cominciato a manifestare un crescente senso di insoddisfazione nei confronti delle attività svolte dai suoi rappresentanti. Questi ultimi in teoria avrebbero dovuto agire nell’interesse del popolo, favorendo lo sviluppo e il benessere della collettività. Nella pratica invece si impegnavano soltanto per consolidare la loro posizione dominante in termini di privilegi - finanziari e non. Gli effetti concreti di queste deviazioni dal modello originale non hanno tardato a manifestarsi. Si è venuto a creare un solco sempre più profondo tra sottosistema politico e società civile, che si è tradotto immediatamente nella crescita significativa del grado di astensionismo elettorale, evento sconosciuto in un paese come l’Italia, caratterizzato dalla presenza costante di una popolazione fortemente “impegnata”. Ma il caso italiano rappresenta soltanto una sfaccettatura di un fenomeno ben più ampio. All’interno delle “democrazie giovani”, recentemente instauratesi in alcuni tra i

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6

cosiddetti paesi del “Sud del mondo”, le dinamiche di clientelismo e corruzione dominavano ogni attività della classe politica, contribuendo al mantenimento di una condizione di forte arretratezza, caratterizzata da profonde disuguaglianze sociali.

Negli anni ’90 cominciano a nascere, su scala internazionale, alcuni tentativi per fornire una risposta a queste problematiche diffuse. Si tratta di manifestazioni molto variegate, che spaziano dalla costituzione di movimenti popolari spontanei alla proposta di paradigmi teorici alternativi. Nonostante la loro diversità questi fenomeni si basano tutti su un denominatore comune: cercare di riformare il modello della democrazia rappresentativa, segnato da una crisi profonda. Il mio lavoro prova a ricostruire, almeno in parte, la storia recente di questi tentativi di rinnovamento.

Il cap. 1 funge da strumento introduttivo. Al suo interno ripercorro brevemente le posizioni di alcuni pensatori che hanno fornito un contributo importante alle riflessioni sulla democrazia. In particolare provo ad analizzare i diversi modi in cui è stato concepito il rapporto tra cittadini comuni e sfera politica, sia per ciò che riguarda il coinvolgimento della popolazione nelle decisioni vincolanti per la collettività, che per quanto concerne la natura del rapporto di mandato tra rappresentanti e rappresentati. Mi sono concentrato su due modalità diametralmente opposte di intendere questa relazione. Seppur in forme diverse Rousseau e Marx teorizzano entrambi la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte collettive. Una partecipazione che non si esaurisce nel momento elettorale, ma diviene consuetudine quotidiana, capace di offrire preziosi vantaggi sia in termini di realizzazione individuale che di progresso della comunità. All’estremo opposto troviamo Schumpeter, tra i principali teorici

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7

dell’èlitismo competitivo, il quale propone un modello teorico in cui l’apporto dei cittadini alle scelte pubbliche è quasi inesistente. La partecipazione individuale si risolve esclusivamente nel voto, nella delega di ogni potere decisionale ad una èlite di politici professionali, dotati di quelle “competenze” inaccessibili alla maggior parte della popolazione. Questo paradigma ha conosciuto una diffusione rapida e capillare, tanto da diventare la formula di governo più diffusa all’interno delle democrazie contemporanee. Una formula che ha funzionato più o meno bene per circa mezzo secolo, e che oggi comincia a manifestare i primi segni di un inesorabile cedimento.

Nel cap. 2 analizzo alcuni tra i principali strumenti mediante i quali si è cercato di rispondere alla progressiva crisi del modello rappresentativo. Nello specifico rivolgo la mia attenzione a tre categorie fondamentali. In primo luogo mi concentro sul concetto di democrazia elettronica (e-democracy). Questa visione riconosce alle nuove tecnologie di informazione e comunicazione - prima tra tutte Internet - un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento della democrazia. La mia indagine mira ad evidenziare le indubbie potenzialità di questo modello, senza dimenticare i limiti e le criticità ad esso collegati. Successivamente mi dedico al paradigma della democrazia deliberativa, introducendone sia la base teorica di riferimento - Habermas, Elster, etc. - che gli strumenti pratici ad essa riconducibili. In particolare analizzo alcuni “esperimenti deliberativi” (Giurie di Cittadini, Sondaggi Deliberativi) portati avanti principalmente nel mondo anglosassone. Infine mi occupo dell’universo della democrazia partecipativa. Questo concetto non ha un substrato teorico forte, ma riunisce sotto di sé l’insieme di tutte quelle pratiche finalizzate ad accrescere concretamente il coinvolgimento dei cittadini comuni nella formulazione delle

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8

politiche pubbliche. In un orizzonte caratterizzato da due principi imprescindibili: inclusività e giustizia sociale.

Il cap. 3 vorrebbe offrire una contestualizzazione di queste tematiche all’interno del panorama toscano contemporaneo. Nella prima parte mi dedico all’analisi della legge regionale 69/2007, strumento innovativo che prova a fornire una regolamentazione normativa delle pratiche partecipative spontanee, finalizzata alla prevenzione dei conflitti e alla produzione di capitale sociale. Nella seconda sezione invece mi occupo di un “tema caldo”: il problema dello sviluppo geotermico sul monte Amiata. In questo contesto il progetto riguardante la costruzione di nuovi impianti geotermici è stato caratterizzato dall’atteggiamento decisionista delle istituzioni. Quelle stesse istituzioni, promotrici della legge sulla partecipazione, che invece di favorire un confronto aperto con le popolazioni hanno preferito tirare dritto. Puntando a realizzare l’opera il più presto possibile, visti gli interessi economici sottesi al progetto. Provocando la nascita di un’opposizione sempre più decisa e, con essa, una frattura insanabile tra le amministrazioni locali e una porzione rilevante delle comunità amiatine.

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Capitolo 1

La nascita dell’ideale democratico

Per delineare un quadro generale della riflessione sul tema della democrazia è necessario adottare alcuni criteri selettivi, e delimitare gli argomenti che saranno oggetto d’indagine. La pratica democratica affonda le sue radici nell’organizzazione della polis ateniese, in cui troviamo un principio di uguaglianza politica in grado di responsabilizzare il cittadino nei confronti della vita pubblica. Tale principio produce contestualmente la partecipazione diretta ai compiti legislativi ed esecutivi, attraverso metodi di accesso alle cariche pubbliche dalla forte componente egualitaria, quali la rotazione, il sorteggio o le libere elezioni. Un esercizio di questo tipo, che considera naturale e necessaria la partecipazione ai processi di formazione delle leggi e di gestione della collettività1

, scompare con il declino di Atene. La sua eredità si affaccia di nuovo sulla scena politica solo molto tempo dopo, e in forme radicalmente rinnovate. Mi riferisco alla fioritura della tradizione democratica liberale2

avvenuta a partire dal XVII secolo, che rappresenta un buon punto di partenza per una trattazione che voglia ripercorrere, seppur in maniera molto parziale, le tappe del dibattito moderno sulla democrazia.

1

Sebbene ci fossero forti limitazioni, in quanto il diritto di cittadinanza era prerogativa esclusiva dei maschi adulti, favoriti da un ordinamento sociale che garantiva molto tempo libero sia dal lavoro, compiuto per loro dagli schiavi, sia dalle cure familiari, assolte dalle donne.

2

Cfr. C. B. Macpherson, La vita e i tempi della democrazia liberale, Milano, Il Saggiatore, 1980. Macpherson propone un interessante criterio di scelta nella sua trattazione, dedicandosi ad un'analisi delle teorie democratiche di ispirazione liberale le quali, per essere definite tali, devono presupporre un ordinamento sociale diviso in classi. Le posizioni contrarie a una tale divisione della società - come ad esempio quella di Rousseau - sarebbero “modelli artigianali di democrazia, semplici precorritrici della democrazia liberale”. Macpherson, op. cit. p. 22.

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10

Il liberalismo nasce come tentativo di difendere la realizzazione della libertà individuale, opponendosi alla tradizione assolutista. Attraverso le riflessioni sull’autorità e sui diritti individuali, i sostenitori del liberalismo si impegnavano per scardinare una visione “totalizzante” del potere statale. Essi proponevano una teoria volta a limitare le sfere di influenza dello stato, al fine di liberare uno spazio nuovo all’interno del quale la nascente società civile potesse svilupparsi in modo autonomo. Sebbene le basi teoriche di questo orientamento siano da ricercare già nell’opera di Machiavelli3

, desidero concentrare la mia analisi su alcuni sviluppi successivi, che si concretizzano nei tentativi di elaborare un sistema democratico basato sul principio della rappresentanza.

Uno dei problemi al centro del dibattito era quello dei criteri di legittimità su cui doveva fondarsi l’autorità statale. John Locke (1632-1704) rifiutava la concezione di un “potere assoluto” che esercitasse la sua influenza su ogni aspetto della vita individuale. Il governo avrebbe dovuto ricoprire funzioni più limitate, come ad esempio la difesa nei confronti delle libertà personali - diritto alla vita e alla proprietà privata. La formazione dell’istituzione governativa sarebbe originariamente avvenuta tramite un contratto sociale, un patto stipulato tra gli uomini4

al fine di regolare i loro contrasti nell’applicazione della legge di natura, attraverso la creazione di un’autorità sovrana che potesse proteggerli nel perseguimento dei loro fini. Questa subordinazione al potere statale non deve trasformarsi in un’alienazione completa dei diritti individuali. Sono deputati allo stato i compiti di legislazione e di imposizione delle leggi, a patto che nell’esercizio di tali funzioni le strutture di potere continuino ad agire in vista del

3

David Held, Modelli di democrazia, Bologna, Il Mulino, 1989. Cfr. pp. 58-63.

4 I quali precedentemente vivevano in accordo con una legge naturale in cui vigeva il diritto alla libertà e

(11)

11

compito fondamentale affidato loro dal popolo: la salvaguardia della vita, della libertà e dei beni materiali5

. Se il discorso di Locke si mantiene su un piano abbastanza teorico è nell’opera di Charles Louis de Secondat de Montesquieu (1689-1755) che troviamo le prime indicazioni precise per la creazione di strutture governative protettive. Montesquieu infatti è il primo ad indagare le possibili concretizzazioni di un sistema rappresentativo basato sui cardini della libertà e dell’abolizione del privilegio. Lo stato deve garantire i diritti dotandosi di un ordinamento costituzionale6

, e la sua struttura deve essere quella di un “regime misto” capace di difendere adeguatamente gli interessi dei diversi gruppi sociali, mantenendoli in equilibrio affinché nessun interesse particolare possa prendere il sopravvento sugli altri. La chiara distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario - amministrati da organismi differenti e separati - tende a limitare la sfera di azione governativa e, allo stesso tempo, istituisce un efficace sistema di contrappesi nella gestione del potere. Montesquieu, nonostante la sua ammirazione per l’ideale di cittadinanza attiva che animava la polis greca, non lo reputa applicabile alle condizioni sociali degli stati moderni. In altre parole ritiene utopiche le forme di auto-governo e confida al contrario nei meccanismi della rappresentanza7

. Tuttavia tale pratica non presenta ancora caratteri democratici compiuti. Infatti, secondo questo modello, i rappresentanti non sono vincolati ai propri elettori da alcun mandato di responsabilità, e la volontà del monarca è ancora superiore - e indipendente - rispetto a quella dell’assemblea dei deputati.

5

Cfr. Held, op. cit. p. 70.

6

Tuttavia non un ordinamento repubblicano, ma più vicino al modello della monarchia inglese allora vigente.

7

“Bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può compiere direttamente” Charles-Louis Montesquieu, Esprit des lois, trad. it. Di S. Cotta, Lo spirito delle leggi, 2 voll., Torino, UTET, 1965. Cit. vol. I, parte II, Libro XI, p. 280.

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12

Il problema di un rapporto diretto tra le azioni dei rappresentanti e gli obiettivi dell’elettorato diviene centrale nelle riflessioni di Jeremy Bentham (1748-1832) e James Mill8

(1773-1836). La finalità di un governo democratico deve essere identificata con la difesa degli interessi comunitari; poiché l’essere umano agisce naturalmente secondo un criterio di massimizzazione del proprio piacere, occorre istituire un sistema basato sulla corrispondenza tra le azioni dei governanti e i desideri degli elettori. Questi ultimi hanno il diritto/dovere di valutare l’operato dei loro rappresentanti, ed hanno inoltre la facoltà di revocarne il mandato se riscontrano un abuso nell’esercizio del ruolo istituzionale, orientato in direzione contraria rispetto alle finalità condivise. Obiettivi come lo scambio privato di beni e conoscenze, finalizzato all’accumulazione privata di capitali e risorse, vengono perseguiti grazie ai nuovi strumenti della concorrenza e del libero mercato. In questa prospettiva lo stato ha dunque una duplice funzione: da un lato deve garantire - senza interferire - la libera iniziativa individuale; quando questa non è sufficiente ad indirizzare l’andamento comunitario verso risultati adeguati ci deve essere un intervento statale diretto, al fine di promuovere9

il principio di utilità: “la massima felicità per il massimo numero di persone”10

.

Sebbene queste posizioni rappresentino un notevole passo in avanti nella costruzione di una teoria democratica, tuttavia sono prigioniere di una concezione che assegna al processo democratico un ruolo puramente strumentale nel perseguimento dei fini privati. Ritengo interessante analizzare alcuni modelli successivi, che considerano la democrazia come un’attività pratica quotidiana in grado di far

8 Primi esponenti di quello che Macpherson definisce il primo modello democratico “compiuto”, quello

della democrazia protettiva. Cfr. Macpherson, op. cit. pp. 25-sgg.

9 Con la stesura di nuove leggi e il riassetto delle istituzioni esistenti. 10 Held, op. cit. p. 89.

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13

sviluppare la comunità, e non la identificano con un semplice strumento regolativo dell’iniziativa personale11

.

1.1 Primi passi della democrazia: le riflessioni di Jean-Jacques Rousseau

Tra i maggiori sostenitori del coinvolgimento attivo dei cittadini nella sfera politica troviamo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). La sua produzione di opere con tema politico è molto ampia; mi limiterò ad occuparmi delle teorie esposte nel Contratto

sociale12

, che verranno approfondite e riviste nei lavori successivi13

. Il Contratto Sociale ha come scopo principale l’indagine delle basi legittime per la fondazione dello stato. Fin dalle prime battute appare chiaro come l’impegno di Rousseau in tale direzione si leghi strettamente alle sue considerazioni sulla natura umana: leggi giuste e uno stato legittimo devono sempre tenere conto dell’interesse dei cittadini. Procediamo con ordine.

Rousseau postula l’esistenza di una condizione in cui gli uomini vivevano prima della nascita della società: lo stato di natura. La rinuncia a questa situazione avviene mediante un contratto sociale che gli esseri umani istituiscono quando realizzano di poter sviluppare le loro facoltà superiori - la ragione o l’esperienza della libertà -

11 Iniziativa personale che esula completamente - escluso il momento elettorale - dall’attività politica, e si

manifesta esclusivamente nell’ambito della cosiddetta società civile.

12

Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social ou Principes du droit politique, in Oeuvres completes de J.-J.

Rousseau, Paris, Edition Gallimard, 1964, vol. III, Traduzione italiana in Scritti politici, Torino, UTET, 1970

vol. I. D’ora in poi userò la sigla CS per riferirmi a questa edizione.

13

Come ad esempio le Lettere dalla montagna, il Progetto di costituzione per la Corsica, le

Considerazioni sul governo di Polonia. “Un sistema nel complesso coerente, che Rousseau definisce in

modo organico solo con la stesura del Contratto Sociale […] e che completa e affina negli scritti di ingegneria costituzionale dove procede a rifinire il discorso sulla rappresentanza politica […] e a determinare con maggior precisione il discorso sul governo, la sovranità, la legislazione.” Virgilio Mura,

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soltanto con la creazione di istituzioni capaci di produrre e far rispettare leggi valide per tutti. Tramite questo patto i cittadini alienano alla nascente comunità i diritti naturali di cui godevano - e che facevano valere - nello stato di natura. Tuttavia a questo atto non si accompagna l’alienazione della sovranità popolare ad un corpo politico. Rousseau rifiuta la divisione tra stato e società civile, proponendo al contrario un coinvolgimento diretto e continuo degli individui anche nell’ambito politico. I cittadini devono concorrere in prima persona alla formazione delle leggi che disciplinano le loro azioni e regolano la società. Solo così tali leggi acquisiranno validità vincolante per tutti, e saranno espressione effettiva della volontà generale. Questa volontà generale è la manifestazione dell’interesse comune che lega i membri del corpo sociale. Un interesse comune che non scaturisce dalla semplice somma degli interessi individuali, ma “soltanto da quella parte di essi che è comune a tutti i consociati”14

, e che deve essere il criterio da seguire nell’organizzazione della società. L’interesse comune produce la volontà generale: questa si concretizza in leggi a cui gli uomini obbediscono perché hanno contribuito alla loro formazione, le condividono e le ritengono giuste in vista del bene generale15

. Questa è la libertà che caratterizza la vita sociale: condivisione e rispetto di regole discusse ed approvate pubblicamente, la cui ragion d’essere risiede

14

Mura, La teoria democratica del potere… Cit. p. 34.

15

Questo modello, che potrebbe essere definito di “ democrazia unanimitaria” - cfr. Mura, La teoria

democratica del potere..., p. 109 - imporrebbe l’adesione unanime dei cittadini alla legge. Solo questa

modalità di adesione garantisce 1) che la legge vada nella direzione dell’interesse generale, 2) che il cittadino veda soddisfatto il suo fondamentale principio di autodeterminazione, ubbidendo a dei comandamenti che non gli sono imposti, ma provengono da lui stesso. Tale procedimento contiene tuttavia una criticità, porta in breve tempo alla paralisi decisionale provocata dall’impossibilità di raggiungere un accordo unanime sulle questioni dibattute. Rousseau suppone che un tale accordo sia necessario solo durante la stipulazione del patto sociale. Nelle deliberazioni successive, per raggiungere un adeguato livello di efficienza, è necessario seguire un criterio diverso, quello della regola di

maggioranza. Di fronte ad un disaccordo la volontà generale è espressa dalla posizione che raccoglie la

maggioranza dei consensi. Questa maggioranza non è tale solo a livello numerico, ma anche a livello qualitativo. È una sorta di artificio usato da Rousseau per preservare l’autonomia di quei soggetti che si trovano in posizione minoritaria: per mantenere intatta la loro autodeterminazione “si presume che questi ammettano di aver sbagliato nella determinazione della volontà generale e si riconoscano di conseguenza nelle deliberazioni della maggioranza.” Cit. Mura, La teoria democratica del potere… p. 112.

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nell’accrescimento della felicità generale. Tale visione della libertà è connessa intimamente con un principio egualitario. Tutti i cittadini devono godere dei medesimi diritti, e se la legge non può regolare le disuguaglianze naturali né quelle presenti tra gli uomini in tema di distribuzione della ricchezza, tali disuguaglianze non dovrebbero raggiungere la condizione in cui “un cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro e uno sia tanto povero da essere costretto a vendersi.”16

. Sebbene questo stato di allocazione delle risorse sia una meta ideale, non per questo motivo la legislazione deve astenersi dal tentativo di raggiungerla.

Il dogma della sovranità popolare inalienabile e il riconoscimento dell’autogoverno quale fine in sé per soddisfare l’autodeterminazione individuale conducono Rousseau ad un’elaborazione radicalmente nuova del problema della rappresentanza. Nel Contratto sociale Rousseau ribadisce fermamente che, “per le stesse ragioni per cui non può essere alienata, la sovranità non può essere rappresentata”17

. Tale posizione non porta alla negazione della figura dei deputati, ma ad un ripensamento profondo del loro ruolo in rapporto all’elettorato. I deputati non sono semplici rappresentanti liberi di decidere autonomamente in quanto prendono il posto degli elettori nel processo di formazione della volontà generale. Piuttosto essi hanno il ruolo di commissari, che affiancano ed integrano le attività dell’assemblea legislativa sovrana; le loro deliberazioni devono essere soggette all’approvazione popolare prima di acquisire carattere definitivo e vincolante.

Anche Rousseau condivide il principio della divisione dei poteri, e distingue nettamente la funzione legislativa da quella esecutiva. Quest’ultima si occupa di

16 CS, libro II, cap. XI, p. 763.

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16

questioni particolari, quali il coordinamento delle riunioni pubbliche, la comunicazione politica, la garanzia di imporre e far rispettare le leggi18

. Ne consegue che tale ruolo non possa essere assunto dall’assemblea legislativa, la quale esprime solo la volontà generale, ma sia da questa delegato ad un corpo di cittadini specifici. Anche questo tipo di “nomina” non incarna un rapporto di semplice sostituzione, ma si concretizza in un mandato vincolante e revocabile, che collega la cittadinanza e i membri del governo: questi ultimi sono solo “semplici funzionari del corpo sovrano, che esercitano in suo nome il potere del quale esso li ha fatti depositari”19

.

La riflessione di Rousseau sulla legittimità del potere e sulle possibili forme di pratica democratica è stata spesso accusata di essere parziale e poco attenta ai mutamenti che stavano rapidamente trasformando le società del XVIII secolo20

. Queste lacune sono evidenti, tuttavia io credo che sia di estrema importanza una attenta valutazione delle sue tesi. Tale sguardo critico non deve ricercare nell’opera del filosofo francese le condizioni per la creazione di una società ideale basata su supposti modelli di democrazia diretta, ma può aiutarci a comprendere meglio l’origine di alcune risposte contemporanee al problema della crisi della democrazia rappresentativa21

.

18

Cfr. Held, op. cit. p. 101.

19

CS, libro III , cap. I, p. 768.

20

Rousseau non considera minimamente il problema del suffragio, escludendo dal popolo e quindi dal diritto alla cittadinanza sia le donne che i nullatenenti. Inoltre non affronta neppure il problema delle nuove condizioni sociali introdotte dalla Rivoluzione Industriale, ammettendo che le tesi da lui proposte potrebbero essere praticabili solo in uno stato di piccole dimensioni e di tipo non industriale, come la “sua” Repubblica di Ginevra. A questo proposito cfr. Held, op. cit. pp. 102-103; CS, libro III, cap. IV, pp. 776-777; Mura, La teoria democratica del potere..., pp. 74-75.

(17)

17

1.2 Le valutazioni politiche del giovane Marx

Un contributo ulteriore al dibattito sulla democrazia può essere trovato nell'analisi delle posizioni di Karl Marx (1818-1883), su cui vale la pena riflettere brevemente. In questa sede intendo soffermarmi esclusivamente su alcune opere giovanili di Marx; questi scritti, sebbene manchino della completezza sistematica tipica della produzione successiva, contengono tuttavia degli spunti interessanti per delineare l'atteggiamento di Marx su temi quali lo stato, la società e le possibili forme di democrazia. L'interesse per i problemi sociali di estrema attualità, come l'oppressione e la sofferenza delle classi lavoratrici, si rivela da subito: nel 1842 Marx comincia a lavorare per la Gazzetta

Renana, organo di stampa che si prefiggeva la creazione di un fronte intellettuale delle

forze progressiste tedesche contro l'autorità reazionaria di Federico Guglielmo IV. Questa esperienza viene segnata da ripetute difficoltà, dovute sia ai continui tentativi di censura e proibizione da parte dell'autorità statale, sia alla scarsa collaborazione della classe borghese finanziatrice; Marx fu costretto ad abbandonare la sua posizione di redattore dopo poco più di un anno. Nonostante la sua brevità questa “avventura” provocò due importanti conseguenze nella formazione di Marx: da un lato contribuì a radicalizzare le sue simpatie di ispirazione giacobina per le masse sfruttate, dall'altro lo portò ad una prima evoluzione filosofica delle sue posizioni: “dal tentativo di uno svolgimento ulteriore della dialettica hegeliana in senso radical-rivoluzionario portò al suo capovolgimento materialistico”22

. Svestiti i panni del giornalista di denuncia Marx si dedica completamente alla stesura di una critica della filosofia del diritto e dello stato di Hegel, che rappresentava la base del suo retaggio intellettuale. Il frutto di questo

(18)

18

lavoro è la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico23

, un attacco frontale al

metodo hegeliano che pretendeva di giustificare in modo dialettico le istituzioni reazionarie dominanti in Prussia. Questa critica è sviluppata mediante un cambiamento radicale di prospettiva: al procedimento dialettico tipico dell'hegelismo Marx intende sostituire un atteggiamento materialistico, con l'obiettivo di fornire una spiegazione non solo dei fenomeni naturali, ma anche dei rapporti sociali, dei modi di produzione e della sfera politica.

Il bersaglio della critica di Marx è innanzitutto il capovolgimento arbitrario tra i termini della relazione soggetto-predicato. Nell'opera di Hegel questo artificio viene sovente utilizzato per giustificare dialetticamente l'istituzione statale e quella monarchica24

. La manifestazione (empiricamente evidente) della sovranità nella volontà individuale del monarca viene rovesciata, e la figura regia è innalzata ad un grado di presunta necessità: “di tutti gli attributi del monarca costituzionale nella moderna Europa Hegel fa delle assolute autodeterminazioni della volontà. Non dice: la volontà del monarca è la decisione ultima, bensì: la decisione ultima della volontà è - il monarca”25

. Un aspetto ulteriore, e non meno importante, all’interno del modello statale hegeliano è la difesa dei privilegi di nascita: esiste una classe specifica di governanti, i quali sono predestinati a tale scopo; non è necessario affidarsi ai meccanismi di un'elezione accidentale per designarli. Secondo Marx supporre che la natura faccia direttamente dei re, dei pari, dei funzionari significa considerare tali

23

K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Roma, Edizioni Rinascita, 1950.

24

“La necessità nell'idealità è […] in quanto sostanzialità soggettiva, il sentimento politico, e in quanto

oggettiva, a differenza di quella, è l'organismo dello Stato, lo Stato propriamente politico e la sua costituzione”. Cit. Marx, Critica della filosofia hegeliana..., p. 20. “La soggettività è nella sua verità

soltanto come soggetto, la personalità soltanto come persona […] questo momento decisivo della totalità non è l'individualità in generale, ma un individuo,il monarca.” Cit. Ivi, p. 37.

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19

figure come semplici prodotti della sfera biologica, mentre al contrario questi ruoli sono un prodotto della specie cosciente di sé, e traggono la loro validità da un consenso di tipo sociale, completamente artificiale26

. La critica del sistema dialettico non può limitarsi ad evidenziarne le contraddizioni concettuali, ma deve spingersi oltre, e proporre un metodo radicalmente nuovo per spiegare i principali fenomeni sociali. Innanzitutto un'adeguata analisi della vita politica non dovrebbe assumere quale punto di partenza il singolo individuo e la sua relazione con lo stato. La natura umana è definibile solo sulla base dei rapporti determinati che intercorrono tra i diversi individui: occorre esaminare a fondo questi rapporti e le dinamiche che ne derivano. La chiave interpretativa di questa rete di relazioni è riscontrabile nella struttura di classe. La divisione della popolazione in classi non è una divisione originaria, ma si è venuta a creare per la prima volta quando è stato disponibile un surplus di produzione, cosicché un gruppo di non produttori - la classe dei proprietari dei mezzi di produzione - è riuscito a vivere grazie ai profitti derivanti dall'attività di qualcun altro. Questo è il primo esempio storico di classe dominante, in un senso propriamente economico che, contestualmente, si traduce in un parallelo dominio politico.

Queste considerazioni di carattere generale ci guidano nell'analisi specifica delle strutture statali. Secondo Marx la società non viene creata mediante un patto tra gli individui, ma è un concetto presupposto nella natura umana. In società non si entra, perché quest'ultima è “posta storicamente-economicamente con gli uomini, allo stesso modo in cui essa è data trascendentalmente con la coscienza”27

. Parallelamente lo stato non deve essere considerato come entità distinta e separata dalla società: le due

26 Cfr. Ivi, pp. 142-143.

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20

dimensioni sono inscindibili, lo stato è la forma di manifestazione storica della società28

. Applicando queste categorie allo stato ottocentesco Marx vuole metterne in luce le caratteristiche coercitive: lo stato si propone come garante delle libertà individuali, ma il suo contenuto effettivo è in realtà il dominio di classe. Lo stato non è altro che l'organizzazione che si dà la società borghese affinché siano mantenute le condizioni esterne del modo di produzione capitalistico29

. Questo tema è approfondito in uno scritto contenuto negli Annali franco-tedeschi, dal titolo La questione ebraica30

. Il testo

è una risposta polemica ad un problema sollevato da Bruno Bauer circa la possibile emancipazione degli ebrei all'interno della società borghese31

. Marx finisce per ampliare i termini del problema, affermando che un'emancipazione completa non può essere raggiunta da nessun gruppo sociale - quindi non solo gruppi religiosi - a causa del carattere irriducibilmente duplice dello stato borghese. Quest'ultimo da un lato annulla le differenze formali tra gli individui, proclamando che tutti godono dei medesimi diritti e partecipano ugualmente della sovranità popolare, mentre dall'altro garantisce che le differenze effettive tra gli uomini continuino a manifestarsi ed accentuarsi liberamente, attraverso il consolidamento e la legittimazione giuridica dei rapporti di dominio esistenti32

. Si può dire allora che lo stato borghese sia uno stato democratico? La risposta non può essere univoca. Nella visione di Marx la democrazia

28

Cfr. Ivi, p. 27: “In condizioni del tutto determinate, che si sono realizzate nella storia, la società esiste

appunto soltanto nella forma dello Stato”.

29 Parziale riprova di queste affermazioni può essere riscontrata nel rapporto tra i capitalisti borghesi e le

istituzioni: queste ultime venivano attaccate solo quando si intromettevano in modo eccessivo nelle questioni riguardanti la libera iniziativa individuale in campo economico. Cfr. M. Adler, op. cit. pp. 65-sgg.

30

Contenuta in K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 355-394.

31

Cfr. Lukàcs, op. cit. p. 86.

32

Questa dinamica porta ad una profonda scissione all'interno dell'individuo tra vita spirituale e vita

materiale reale (Cfr. Lukàcs, ivi, p. 89). In concreto si assiste ad una netta divisione della sfera personale:

da una parte il citoyen, uomo libero fra gli altri uomini liberi, ma entità estremamente astratta ed artificiale. Dall'altra il bourgeois, uomo concreto nella sua esistenza individuale sensibile, strumento inconsapevole dell'oppressione capitalistica mascherata da libertà. Cfr. Marx, Scritti politici giovanili, pp. 384-385.

(21)

21

è un concetto storico, al pari di quello dello stato. È innegabile che i risultati ottenuti nel campo dei diritti, della rappresentanza parlamentare e in campo costituzionale siano importanti conquiste democratiche. Tuttavia la democrazia realizzatasi nello stato capitalistico è una democrazia meramente politica, e corrisponde ad un'emancipazione solo formale dell'essere umano. Gli sforzi di affrancamento dal dominio capitalistico devono tendere al raggiungimento di un concetto pieno di democrazia, una

democrazia sociale33 che corrisponda all'emancipazione umana completa, alla negazione dell'autoalienazione34

. Questi sforzi non possono concretizzarsi in seno alla

società borghese basata su rapporti di sfruttamento, ma presuppongono un nuovo ordine sociale, finalmente libero dai vincoli del dominio di classe.

Nello scritto sulla questione ebraica manca un'analisi dei modi in cui quest'emancipazione umana possa essere concretamente realizzata. Questo tema è esaminato nell'Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel35 in cui Marx

33 Marx non è l'unico autore a pensare la democrazia in un'accezione sociale, rispetto alla dimensione

più tradizionale della democrazia politica. Anche Alexis de Tocqueville (1805-1859) condivide questa impostazione, sebbene la sviluppi in una prospettiva diversa. Per Tocqueville la creazione di istituzioni democratiche sarebbe una conseguenza necessaria ed inevitabile del rinnovato ordinamento sociale, derivante dalle conquiste - in termini di diritti - ottenute con la Rivoluzione Francese. Una società basata sul principio dell'égalité non può essere governata con i metodi dell'ancien regime, che garantivano all'aristocrazia l'esercizio esclusivo del potere. “La democrazia si profila come forma di vita 'naturalmente' sociale in cui il rapporto tra governanti e governati deve essere istituito 'artificialmente': il 'potere sociale', disperdendosi tra i singoli individui, politicamente isolati a causa dell'uguaglianza che dissolve ogni preminenza o soggezione di status, tende spontaneamente a centralizzarsi come potere politico che rappresenta come un tutto la società atomizzata.” F. De Sanctis, Tocqueville. Sulla condizione

moderna, Milano, FrancoAngeli Editore, 1993, cit. pp. 105-106. Sarebbe troppo lungo addentrarsi in

un'analisi approfondita della più che feconda riflessione tocquevilliana in tema di democrazia. Per muovere dei passi preliminari in questa direzione il punto di partenza è sicuramente rappresentato da A. de Tocqueville, La democrazia in America, prefazione e cura di G. Candeloro, Milano, Rizzoli, 1999. Per una riflessione critica si segnalano, oltre al già citato testo di De Sanctis, D. Cofrancesco, Introduzione a

Tocqueville e altri saggi, Milano, Marzoratti Editore, 1969, (pp. 67-143, e in particolare le pp. 108-130, in

cui l'autore propone un'interessante resoconto non solo delle virtù, ma anche dei “vizi” connessi all'esercizio democratico del potere) e A. M. Battista, Studi su Tocqueville, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1989, in particolare pp. 192-268 in cui l'autrice porta avanti una stimolante analisi dei due tomi della Democrazia in America, proponendone una lettura comparata, basata su una profonda evoluzione concettuale occorsa nel pensiero tocquevilliano.

34 Cfr. Lukàcs, op. cit. p. 86.

(22)

22

comincia ad abbozzare un disegno della classe proletaria come unica forza propulsiva possibile per la realizzazione della democrazia sociale. Lo stato borghese e la società ad esso collegata sono l'incarnazione di un mondo capovolto: occorre smascherare questa finzione, evidenziarne le contraddizioni, e manifestarle soprattutto alle masse sfruttate, che subiscono in grado massimo gli effetti di questo rivolgimento. Solo dalle masse può scaturire la rivolta contro l'ordinamento sociale borghese; la classe proletaria racchiude infatti quei caratteri universali di sofferenza e sfruttamento capaci di produrre un'effettiva emancipazione sociale, libera da ulteriori forme di dominio.

Sulle modalità effettive per il raggiungimento di quest'emancipazione Marx non ci fornisce ancora un modello esauriente né analitico. Tuttavia credo che si possano evidenziare36

almeno due caratteristiche fondamentali per il suo conseguimento, strettamente collegate. Questi due “momenti” sono l'educazione politica delle masse e la costruzione dal basso dello stato. Concretamente si tratta di sforzarsi di dar vita ad un ordinamento basato su vincoli di prossimità e solidarietà sociale, che si realizzi nell'autogestione delle strutture comunali e comunitarie. Tutto ciò non significa far scomparire l'antico stato centralista sostituendolo con una forma di federalismo basata sugli stessi presupposti. Piuttosto si deve distruggere quel tipo di potere statale che, proponendosi come reale incarnazione dell'unità nazionale, si poneva in una dimensione superiore ed indipendente rispetto alla nazione stessa37

. Deve nascere una profonda rete di associazioni basate sul principio dell'autogoverno dei produttori, animate da scopi ed interessi comuni. I membri di queste associazioni svilupperanno un

36 Anche tramite uno sguardo ad opere di poco successive, specialmente quelle in cui Marx esalta i meriti

dell'esperimento comunitario di Parigi del 1848, cfr. K. Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1990.

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23

rinnovato senso di responsabilità e partecipazione all'andamento degli organismi, ispirati da una nuova educazione derivante dal profondo sentimento di solidarietà sociale. Grazie a queste conquiste educative sarà possibile nominare dei rappresentanti più adatti all'esercizio delle loro funzioni, sia a livello di politica locale che di assemblea nazionale, sottoposti ad un controllo effettivo da parte degli elettori. Elettori che non saranno più individui estraniati, ma consapevoli del ruolo determinante che ricoprono nella creazione e nello sviluppo delle istituzioni. La chiave di volta di questo nuovo tipo di democrazia risiederà nella pedagogia: solo nella società libera dai rapporti di classe potrà essere trasmessa una cultura politica che sia contemporaneamente cultura sociale e cultura etica: “Le insufficienze e i guasti della democrazia possono essere superati solo dalla democrazia, se essa non è più un fenomeno che trova la sua realizzazione nello stato, ma una democrazia effettiva e valida in se stessa”38

.

1.3 Un passo indietro per l'individuo: l'elitismo di Joseph Schumpeter

Prima di passare ad un’analisi dettagliata delle pratiche democratiche contemporanee è necessario soffermarsi sull’esame di un modello teorico che, più di ogni altro, sembra aver posto le basi di quell’organizzazione politica che oggi ritroviamo diffusamente in molti sistemi democratici. Mi riferisco alla teoria dell’elitismo competitivo nella formulazione di Joseph Schumpeter39

(1883-1946), contenuta nella sua opera più importante: Capitalismo, socialismo, democrazia40

.

38 Cit. Adler, op. cit. p. 158.

39

Schumpeter non è stato il primo a proporre questa teoria; le sue radici si ritrovano nelle opere di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Per una panoramica generale sulle fondamenta dell'elitismo competitivo cfr. Peter Bachrach, La teoria dell'elitismo democratico, Napoli, Guida Editori, 1974,

(24)

24

Lo scopo primario delle riflessioni schumpeteriane sulla democrazia è quello di chiarire le dinamiche funzionali interne alle democrazie del suo tempo, concentrandosi sugli aspetti empirici del problema, al fine di eliminare elementi normativi o utopistici che caratterizzavano le posizioni dei pensatori precedenti. Queste posizioni sono oggetto di un procedimento singolare da parte di Schumpeter. Le diverse varianti di teorie della democrazia vengono raggruppate sotto un’unica denominazione, quella di “dottrina classica della democrazia”41

, che Schumpeter sottopone ad una critica

serrata. Questa supposta dottrina classica sarebbe basata su enunciati fattuali, la cui validità deve essere primariamente dimostrata per stabilire la fondatezza delle conclusioni che da questi derivano42

. In primo luogo l’esistenza di un bene comune, sulla cui natura ci sarebbe un accordo unanime, è una chimera: è evidente che ognuno rivolge i propri sforzi verso la realizzazione di questo ideale, ma tale concetto è tutt’altro che univoco, a causa dei differenti sistemi di valori adottati da individui - o gruppi sociali - diversi. Queste differenze si traducono immediatamente in analoghe differenze nella valutazione delle possibili strategie da intraprendere per il conseguimento del bene comune. Con la scomparsa di una definizione unitaria di bene comune entra in crisi anche la nozione di volontà generale, che dovrebbe

(specialmente pp. 15-40) e Geirant Parry, Le elites politiche, Bologna, Il Mulino, 1972 (specialmente i capitoli 1 e 2). I due testi tuttavia differiscono per il modo di rapportarsi alle posizioni di Schumpeter. Se infatti Bachrach lo annovera tra i fondatori dell'elitismo democratico accanto a Mosca e Pareto, Parry al contrario si dedica ad un'analisi delle posizioni schumpeteriane solo in un capitolo conclusivo, quando indaga i rapporti tra elitismo e teoria democratica, definendo l'opera di Schumpeter come “il principale contributo al tentativo di dare una nuova definizione della democrazia in modo da adattarla ad una situazione elitistica.” Cit. Parry, op. cit. p. 195.

40

Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy, London, George Allen e Unwin, 1954. Traduzione italiana Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, ETAS KOMPASS, 1967.

41

Questo artificio usato da Schumpeter è stato oggetto di numerose critiche, nelle quali si sostiene la natura assolutamente artefatta di un tale concetto di dottrina classica, che ignorerebbe le profonde differenze che intercorrono tra le teorie, al fine di ricercare un loro denominatore comune facile bersaglio di attacco. Cfr. Danilo Zolo, Il principato democratico, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 88, Held, op. cit. p. 217 e Macpherson, op. cit. p. 87.

(25)

25

rappresentarne la concretizzazione nel quotidiano. Tale crisi tuttavia non è determinata unicamente dalla mancanza di uniformità nel giudizio sull’interesse collettivo, ma è alimentata profondamente da quello che Schumpeter definisce un deficit di razionalità e autonomia proprio della volontà individuale43

. Per arrivare alla formulazione di una volontà generale si deve postulare l’esistenza di una volontà individuale sufficientemente definita secondo metodi razionali. Schumpeter intende dimostrare la debolezza intrinseca di questa nozione, introducendo due obiezioni principali:

 Tra i meccanismi che regolano la formazione del comportamento umano occupa un posto primario il tema di indagine della cosiddetta psicologia delle folle: l’appartenenza ad un gruppo provoca notevoli cambiamenti nei processi di formazione di un’opinione autonoma.

 La deliberazione individuale è spesso soggetta all’influenza di elementi esterni che ne condizionano il corretto funzionamento. La razionalità specifica del cittadino si imbatte ripetutamente in strategie extra-razionali - come la pubblicità o le pratiche retoriche - che sembrano mettere in secondo piano la componente razionale, poiché vanno ad offrire una “soddisfazione immediata agli stimoli”44

.

La conseguenza di queste dinamiche è un progressivo disinteresse dei cittadini per i fatti che riguardano la sfera politica. Solo gli avvenimenti collegati direttamente al vissuto personale sono in grado di suscitare un coinvolgimento attivo da parte dell’attore politico. Non appena si passa ad un grado più alto di astrazione45

si ha la

43

Cfr. Schumpeter, op. cit. p. 242.

44

Ad esempio attraverso la ripetizione martellante di un messaggio, o associazioni di idee di tipo extra-razionale, specialmente sessuale, catalizzatori di interesse molto più efficaci e immediati. I vantaggi derivanti da una decisione su base esclusivamente razionale sono spesso poco evidenti, poiché necessariamente prevedono una progettazione più a lungo termine.

(26)

26

sensazione di essere di fronte ad un mondo fittizio, privo di legami effettivi con la realtà, su cui eventuali azioni possibili sembrano non sortire alcun effetto46

.

Terminata la confutazione dei presupposti classici della democrazia Schumpeter propone un nuovo modello, che ritiene corrispondere più efficacemente all’attuale organizzazione delle istituzioni democratiche: l’èlitismo competitivo. Alla base di questa teoria troviamo un vero e proprio capovolgimento delle caratteristiche dei regimi democratici: se fino ad allora il potere principale dell’elettorato risiedeva nel far emergere questioni politiche rilevanti o nel proporre soluzioni a problemi già noti, adesso tali funzioni divengono accessorie. Compito fondamentale del popolo è la mera designazione dei suoi rappresentanti, l’elezione di un governo a cui viene alienato il potere di decidere le questioni che saranno al centro dell’agenda politica:

“Noi capovolgeremo le parti e renderemo secondaria la decisione dei problemi ad opera dell'elettorato rispetto all'elezione degli uomini che dovranno deciderli. In altri termini, partendo dal concetto che il compito del popolo è di produrre un governo, o un corpo intermedio che a sua volta genererà un esecutivo o governo nazionale, arriveremo a questa definizione. Il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare”47.

I vantaggi di questa nuova impostazione sembrano evidenti. In primo luogo l’identificazione del processo democratico con questo particolare modus operandi permette di discernere chiaramente le forme di governo effettivamente democratiche da quelle che non lo sono (ad esempio quei governi che, attraverso metodi autoritari, sono riusciti comunque a soddisfare efficacemente la volontà popolare). Inoltre

caso di problemi di natura nazionale o internazionale.

46

Di tutt'altro avviso è Macpherson, che procede ad una dimostrazione del carattere tutt'altro che assoluto e verificabile dei due presupposti della teoria elitistica (apatia delle masse come dato di fatto e capacità politiche personali al di sotto della soglia di razionalità e soprattutto non incrementabili). Cfr. Macpherson, op. cit. pgg. 88-89.

(27)

27

l’elitismo competitivo rende giustizia ad un principio la cui presenza è evidente negli ordinamenti contemporanei: il principio della leadership. Affidando il potere esclusivamente all’iniziativa popolare la dottrina classica ignorava un evidente fatto sociologico: le persone non agiscono quasi mai in maniera autonoma, ma diventano attive solo quando si riconoscono in un leader, una figura capace di cristallizzare ed esprimere le loro posizioni. Una riprova evidente si trova nei frequenti esempi di richieste collettive che, pur essendo ben strutturate a livello popolare, non vedono la luce fino al momento in cui qualche personalità di spicco della sfera pubblica le fa proprie, elevandole a pilastri dell'agenda di governo. La teoria competitiva ci aiuta altresì a chiarire i meccanismi che permettono al corpo elettorale di ritirare l’appoggio al governo48. Infine dovrebbe aiutarci a fare chiarezza sullo spinoso rapporto che

intercorre tra democrazia e libertà individuale. Identificando la libertà con una sfera di

autogoverno individuale si crea una relazione inscindibile tra questa e la democrazia.

L’adozione di un sistema democratico in cui ciascun cittadino è potenzialmente in grado di candidarsi alla vita politica richiede un grado notevole di libertà complessiva, che si realizza nelle forme concrete della libertà di opinione, di discussione e di stampa49

.

Cercherò adesso di esaminare in modo più dettagliato le caratteristiche di questo nuovo modello. Ritengo importante sottolineare ancora una volta la posizione che Schumpeter abbraccia nella sua analisi della natura umana. L’influenza costante esercitata sulla formazione della volontà dai gruppi sociali di appartenenza e dai “gruppi di interesse” implica una sostanziale incapacità del corpo elettorale di

48 Tuttavia Schumpeter è molto cauto nell’introduzione di questo tema: “ occorre moderare le nostre

idee su un controllo effettivo dei leaders politici da parte del corpo elettorale.” Cit. Schumpeter, op. cit. p. 260.

(28)

28

rappresentarsi. Questa incapacità non può essere combattuta con una maggiore educazione politica dei cittadini o con l’ampliamento della sfera decisionale di loro competenza. L’unico strumento a disposizione è il voto periodico, che consente di delegare le funzioni amministrative e legislative ad un’èlite, composta da persone dotate delle competenze necessarie per affrontare il compito. Dove si trova allora l’essenza del metodo democratico se non risiede nella partecipazione? È da ricercare nella natura della competizione elettorale, finalizzata ad aggiudicarsi la legittimazione popolare. I caratteri di questa “lotta” ci offrono le coordinate per la nostra ricerca. È una lotta competitiva, in cui ognuno dei contendenti ha le stesse possibilità di candidarsi rispetto agli altri. È una lotta leale, che rifiuta il ricorso alla violenza o a pratiche di corruzione. È - o dovrebbe essere - una lotta di tipo pluralistico, in cui vi sia sostanziale differenza di offerta politica tra le alternative proposte. In altre parole Schumpeter propone uno schema interpretativo della competizione basato su categorie di tipo economico, identificando il ruolo del cittadino nella cabina elettorale - unico contesto in cui sia possibile partecipare in senso proprio - con quello di un semplice consumatore, chiamato a scegliere tra proposte politiche alternative disposte come merci sullo scaffale di un supermercato.

La partecipazione pubblica si esaurisce con questa scelta: la sfera politica deve essere basata, come ogni altro ambito particolare, sul principio della divisione del lavoro. La classe dei governanti, nell’esercizio delle sue funzioni, gode di un’autonomia pressoché completa nei confronti dell’elettorato50

. Le pressioni esercitate dal basso al

50 È il grado di responsiveness delle politiche pubbliche alle richieste del consumatore politico a regolare

il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, esattamente come succede nel campo economico in cui sono le richieste del pubblico ad orientare - seppur parzialmente - le strategie produttive dell’imprenditore. Cfr. Zolo, op. cit. p. 116.

(29)

29

fine di influenzare l’operato del governo sono pericolose, perché intaccano il principio di razionalità che regola la divisione del lavoro. Per questa ragione devono essere scoraggiate e ridotte al minimo.

Secondo Schumpeter l’èlitismo competitivo non è un paradigma politico valido in modo assoluto. Questo metodo risulta preferibile e al riparo dai diffusi pericoli di inefficienza collegati ad un’organizzazione democratica del potere solo se soddisfa alcune condizioni ben precise. Primariamente il materiale umano deve essere di qualità sufficientemente elevata51

. Sebbene uno dei presupposti della competizione politica affermi che tutti hanno le medesime possibilità di candidarsi alle elezioni, tuttavia il processo democratico tenderà autonomamente a selezionare i suoi attori secondo le loro capacità. Poiché l’obiettivo ultimo di questi attori non è la rappresentazione degli interessi del popolo ma è la conquista del potere, è probabile che ad emergere non saranno coloro che sono dotati di maggiore competenza in campo amministrativo. Al contrario uscirà vittorioso chi possiede un’altra qualità: l’arte di trattare con gli uomini52

. In seguito si formerà una vera e propria classe, quella dei politici di

professione, capace di affinare l’educazione dei nuovi membri attraverso la

trasmissione di un corpus di tradizioni e valori specialistici. Il corpo governativo deve essere affiancato da un’altra corporazione, una burocrazia saldamente strutturata, competente, i cui membri siano dotati di un forte senso di appartenenza53

. Condizioni ulteriori per il corretto funzionamento di questo regime democratico sono un certo grado di autocontrollo democratico - accettazione incondizionata dei provvedimenti

51 Cfr. Schumpeter, op. cit. p. 276. 52

Ivi, p. 275.

53 “È questa burocrazia la risposta principale all’argomento del governo dei dilettanti” Cit. Ivi, p. 279,

(30)

30

legislativi ed esecutivi promulgati da autorità competenti in materia54

; cospicua riduzione delle strategie di influenza popolare sulla classe politica - e una diffusa tolleranza delle differenti opinioni, sia da parte del pubblico, tenuto ad ascoltare educatamente le ragioni proposte da tutti gli schieramenti, sia da parte dei leaders, i quali non devono ricorrere a pratiche oratorie irrispettose nei confronti dei loro avversari o degli altri soggetti politici. Infine le possibilità di successo del metodo democratico sono collegate ad una delimitazione effettiva del campo di decisione politica. I confini di questo campo non possono essere definiti in modo univoco e valido per ogni tipo di società. Tuttavia vi sono delle sfere di azione in cui l’attività governativa si riduce ad una mera approvazione formale di misure proposte e sviluppate da “tecnici specializzati”. Questi ultimi sono gli unici ad essere in grado di offrire risposte razionali ai problemi in questione, problemi che “sono inclusi nella sfera dello stato senza divenire parte integrante del materiale della lotta di concorrenza per il comando politico“55.

Il paradigma della democrazia competitiva proposto da Schumpeter ha avuto profonda influenza sui successivi sviluppi del dibattito politico. Tale influenza si ritrova sia in ambito teorico che pratico, in quanto l’organizzazione di molte delle democrazie occidentali contemporanee ricalca le caratteristiche fin qui evidenziate. Sembrerebbe quindi che il modello schumpeteriano sia quello che corrisponde maggiormente alle dinamiche di governo oggi più diffuse56

. Passerò adesso in rassegna alcune tra le

54

Autorità a cui è richiesto un adeguato livello di preparazione intellettuale e una retta moralità.

55

Cfr. Schumpeter, op. cit. p. 279. Tra questi ambiti Schumpeter annovera la legislazione in materia di diritto penale, la magistratura, la gestione delle università statali finanziate pubblicamente, l’ordinamento delle banche nazionali.

56

Probabilmente perché quello competitivo è un modello realistico, che attraverso concettualizzazioni e generalizzazioni cerca di descrivere il funzionamento dei sistemi reali, a differenza di quello di Rousseau che potrebbe essere definito un modello normativo, basato su un principio etico-politico, un valore

(31)

31

critiche che si possono muovere alla teoria èlitista, proponendo la loro divisione in due gruppi57

.

Il primo insieme raccoglie le critiche alla posizione di Schumpeter nei confronti dell’individuo e dei suoi processi cognitivi. Schumpeter sembra sottolineare in modo eccessivo il carattere artefatto ed eterodiretto della volontà individuale. Nonostante sia evidente l’influenza di fattori esterni - quali i messaggi dei media e l’azione di gruppi portatori di interessi settoriali - sui processi di formazione dell’opinione, tuttavia non si possono liquidare come inesistenti dei fattori di importanza decisiva, come l’ambiente sociale di appartenenza e le tradizioni che in tale ambiente sono conservate e tramandate. Questa sostanziale mancanza di autonomia58 imporrebbe l’adozione del

meccanismo elettorale come delega del potere da parte del popolo ad una classe politica ritenuta più adatta. Anche la stessa competizione elettorale così concepita solleva delle criticità. Supponendo la generale mancanza di razionalità caratteristica del cittadino nel suo approccio ai temi concreti, come è possibile ignorare magicamente questi presupposti affermando che la scelta tra i diversi schieramenti in campo sarà effettivamente una scelta razionale? Questa scelta avverrà sulla base di un’adeguata comprensione dei programmi offerti o sarà guidata da altri fattori come un’adesione emotiva alla figura del leader?59

Inoltre viene riservata un’attenzione marginale alle qualità che dovrebbero caratterizzare i membri dell’èlite politica per giustificarne le funzioni di governo. Schumpeter accenna vagamente ad una presunta competenza in

ultimo da perseguire e tutelare. I modelli normativi aiutano a capire la realtà, quelli normativi inducono all'azione per cambiarla. Per un approfondimento su questo tema si veda Virgilio Mura, Democrazia

ideale e democrazia reale, Teoria Politica , VI, 1/1990, pp. 57-80.

57

Questa divisione ha uno scopo puramente illustrativo. Alla fine della trattazione spero che risulti evidente la connessione profonda che intercorre tra le diverse facce di un unico problema.

58

Che caratterizza esclusivamente il rapporto del cittadino con la sfera politica, ma non si manifesta nella dimensione del cittadino-consumatore. Cfr. Held, op. cit. p. 228.

(32)

32

materia di decisioni politiche. Tuttavia, come ricordato in precedenza, viene sottolineata la necessità di un forte senso di appartenenza ad uno strato sociale particolare. Il cittadino comune non è in grado di confrontarsi con i problemi politici perché gli risultano estranei e privi di collegamento con la realtà. Tra questi figurano senza dubbio delle questioni fortemente connesse con la vita quotidiana delle persone, come ad esempio i problemi legati all’occupazione o al conflitto sociale. Come si concilia la supposta competenza dei governanti in materia con la loro appartenenza ad una classe sociale del tutto altra? Su quali basi le risposte di un membro dell’èlite in tema di diritti del lavoro dovrebbero avere maggiore rispondenza con la realtà di quelle fornite da un operaio che continuamente vive il problema sulla propria pelle?

Il secondo gruppo di obiezioni è riconducibile al concetto di autoreferenza del

sistema dei partiti. Questo concetto è introdotto da Danilo Zolo nella sua analisi dei

possibili rischi evolutivi della democrazia caratteristici delle società postindustriali contemporanee.60

La conquista del potere politico mediante la vittoria elettorale è l’obiettivo principale delle èlites in competizione. È questo il meccanismo attraverso il quale la funzione governativa acquisisce legittimità. Tuttavia all’interno di un sistema pienamente democratico credo che si dovrebbe distinguere tra due gradi di legittimazione complementari. Quella appena esaminata potrebbe essere definita

legittimazione formale, la quale dovrebbe essere necessariamente accompagnata da

una legittimazione sostanziale, consistente in una correlazione effettiva e continua tra l’operato dei governanti e le aspettative dell’elettorato. Schumpeter, difendendo senza riserve il principio della divisione del lavoro, finisce per ignorare questo rapporto. Conseguenza di questo atteggiamento è la crescita di un sistema in cui la classe politica

(33)

33

persegue dei fini autonomi, il più rilevante dei quali è sicuramente il tentativo di consolidare lo status quo, affinché la sfera di governo possa conservare i caratteri di dimensione svincolata e autoreferenziale61

. Questa strategia viene resa effettiva in varie forme da parte della corporazione politica. Ad esempio attraverso la funzione di

agenda setting - selezione e proposta delle tematiche oggetto di pubblica discussione e

intervento - che i partiti mettono in pratica tralasciando argomenti che potrebbero essere destabilizzanti, concentrandosi invece su temi che non riguardano il principio e l’esercizio del loro potere. Siamo di fronte ad un ordinamento in cui i protagonisti si accordano tacitamente affinché lo spettacolo a cui danno vita si svolga senza spargimenti di sangue. Una battaglia vera, ma combattuta secondo regole condivise in gran segreto, all’oscuro di un pubblico che crede di assistere ad un combattimento leale.

Questa metafora si traduce, nella pratica, in una sostanziale convergenza delle offerte politiche alternative. Nessuno degli schieramenti è interessato a compiere scelte politiche che possano indebolirne la posizione privilegiata62

. Ciò che interessa è conquistare la maggioranza dei consensi63

, alimentando nel popolo l’illusione che sia quel voto a creare i presupposti di un potere giusto e pienamente rappresentativo,

61

“I partiti sono costantemente impegnati a reinvestire il loro potere per ricostituire le basi del loro potere, in un corto circuito nel quale, in massima parte al di fuori delle procedure legittimate, essi distribuiscono risorse, vantaggi e privilegi per alimentare ricorsivamente il flusso di solidarietà, di cointeressenze e di omertà di cui si sostanzia il loro potere.” Cit. Zolo, op. cit. p. 144.

62

“Un partito è un gruppo i cui membri si propongono di agire di concerto nella lotta di concorrenza per il potere politico. Se così non fosse non potrebbe avvenire il fatto di esperienza comune che partiti diversi adottino esattamente o quasi lo stesso programma.” Cit. Schumpeter, op. cit. p. 269.

63

Anche tramite l’espansione dell’offerta politica finalizzata ad accaparrarsi il bacino di voti caratterizzato da maggiore indecisione. Questo è il fenomeno del cosiddetto partito pigliatutto. Cfr. Zolo, op. cit. p. 153.

(34)

34

mentre quel voto è semplicemente un mattone che va a rinforzare le impenetrabili

mura di una burocrazia sempre più esclusiva64

.

64

Un rapido sguardo alla legge elettorale vigente in Italia, con i meccanismi delle liste bloccate e la designazione quasi esclusiva del corpus parlamentare da parte delle segreterie di partito non può che confermare queste preoccupazioni.

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